“Il delta” di Kurt Lanthaler: storia di una traduzione
di Stefano Zangrando
Fino a pochi anni fa Kurt Lanthaler lo conoscevo solo di fama. Sapevo che era uno dei più noti scrittori sudtirolesi all’estero, che i suoi romanzi pseudo-polizieschi aventi per protagonista un certo Tschonnie Tschenett erano stati poco meno che best seller nei paesi tedeschi. Anche per questo non li avevo mai letti: gli studi universitari mi avevano reso tanto snob quanto da giovane ero stato pop, perché avrei dovuto leggere dei quasi-best-seller? Con quei titoli italofili, poi, chissà quanti cliché: Azzurro, Napule…
Mi documentai un po’ meglio quando nel 2011 «il manifesto», grazie a Maria Teresa Carbone, decise di ospitare un mio articolo sulla ricezione della letteratura sudtirolese in Italia negli ultimi anni. A un certo punto in quel testo menzionavo anche i libri di Lanthaler, chiedendomi come mai neppure uno fosse stato tradotto, e in chiusura lanciavo una provocazione: che fossero gli stessi autori sudtirolesi a non interessarsi più di tanto alla diffusione delle loro opere presso i connazionali di lingua italiana? Quando poi l’articolo fu ripreso on line da un blog altoatesino, mi si accusò di aver omesso alcuni nomi, io risposi a tono e ne nacque un putiferio velenoso in seguito al quale, a un certo punto, mi giunse un’e-mail molto cordiale e compita. E bilingue. Era firmata Kurt Lanthaler, e puntualmente contestava la mia provocazione finale.
Fra i libri che mi ero procurato in fase di documentazione non c’erano i pseudo-polizieschi di Lanthaler, che mi ero limitato a sfogliare in una biblioteca tedesca di Bolzano, ma c’era un suo romanzo “a parte” uscito nel 2007 con il titolo Das Delta. Nell’articolo non ne avevo parlato, ma la lettura delle prime pagine era stata una rivelazione. Potevo essere finito in un film di Fellini, o in uno spaghetti-western, o in un capitolo mai pubblicato del Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, o una qualunque pagina padana di Gianni Celati – ma in tedesco. Non era l’italianità dell’ambientazione e dei personaggi, erano la poesia degli ambienti, l’atmosfera stralunata, quell’ironia aggraziata… Non pop né snob, ma popolare e letterario al tempo stesso. Prosa del mondo e bellezza.
Il resto è storia editoriale: traduzione delle prime venti pagine, invio a vari editori e responso pressoché immediato, e positivo, da parte di Aldo Mazza, direttore delle edizioni alpha beta di Merano e considerato dal settimanale sudtirolese «FF» fra i due o tre altoatesini di lingua italiana più influenti della provincia. Conoscevo Mazza, sapevo che aveva un passato da direttore di scuola di lingua, che la sua casa editrice vantava una nota collana di psichiatria chiamata «180» e che qualche anno prima aveva rilevato il catalogo narrativo di un editore locale minore, per dargli nuovo slancio e maggior respiro. In quella collana, fra l’altro, erano apparsi anche autori tedeschi come Helene Flöss o Sepp Mall, tradotti o, nel caso di quest’ultimo, anche come traduttori. Insomma, alpha beta era un editore impegnato, interculturale, molto radicato nel territorio e con l’ambizione di crescere, e l’onorario onestissimo che negoziammo per la traduzione mi convinse decisamente a contribuire all’impresa.
A un certo punto sperammo persino di poter pubblicare il libro assieme a Feltrinelli nella collana «Indies», ma in quel caso la risposta fu chiara e negativa: nonostante il libro fosse stato considerato «molto bello» e la scheda di lettura pervenuta ne avesse tessuto gli elogi sotto ogni aspetto, a quanto pare non aveva sufficiente potenziale commerciale per garantire un tot di vendite all’editore milanese. (Mi chiedo perché debbano essere proprio simili collane a dover rispondere a requisiti commerciali, quando dovrebbe essere il contrario: che il grande editore guadagni il più possibile con i propri titoli commerciali, così da poter sostenere operazioni indipendenti più sofisticate. O no?) Pazienza. Anche se sapevamo di disporre di risorse promozionali pressoché nulle – parlo al plurale, perché fin dall’inizio mi sentii pienamente partecipe all’idea di diffondere il romanzo presso il pubblico italiano – il libro sarebbe uscito solo con il marchio alpha beta. Tuttavia si sarebbe colta l’occasione per rinnovare la veste, ispessendo la copertina e dotandola di risvolti.
Così è stato, e nel suo primo mese di vita editoriale Il delta di Kurt Lanthaler ha venduto qualcosa come cento copie. Pochissimo, certo. Ma se si pensa che non è uscita una sola recensione, che fra i critici italiani ai quali l’ho fatto mandare solo una gentile signora dell’accademia nostrana si è resa disponibile per far ospitare una segnalazione in un mensile di cui è corresponsabile (e non ancora apparsa), che dunque tutto il resto è passaparola, cento copie – oggi – non sono poco.
Ma mi rendo conto che parlare di lettura in questi termini non ha senso, se prima non si racconta qualcosa del libro in sé. Dunque: Il delta è la storia, frastagliata quanto le stesse ramificazioni terminali del Po, di un trovatello di nome Fedele Conte Mamai, il quale, dopo decenni di peregrinazioni attraverso lo stivale e non solo, ritorna a Maierlengo, il suo paese d’origine sul delta. In valigia ha «baccalà e babà, bresaola e bottarga». A trovarlo, da poppante, fu un solitario barcaiolo di nome Bombolo, che lo allevò alla bell’e meglio e dal quale Fedele, cresciuto quanto basta, si allontanerà per girare l’Italia facendo i lavori più diversi: muratore, giostraio, operaio, contrabbandiere e molto altro. Non c’è intreccio, ma incastro e confusione di piani: narrativi, spaziali, temporali. C’è un’Italia provinciale di cui Lanthaler coglie spirito e dettagli, c’è l’arte ingegneristica dell’uomo e della natura, e c’è la lingua: un innesto continuo di apporti dialettali, espressioni idiomatiche e proverbi che nell’originale tedesco deve aver disorientato non poco i lettori d’Oltralpe, ma che in italiano avrebbe avuto tutt’altro sapore, quello di una dichiarazione d’amore per il plurilinguismo nostrano. Ah, e non ho detto che lo stesso Lanthaler, plurilingue com’è di suo, in fase di revisione della traduzione si è rivelato un collaboratore prezioso.
Quando di recente ho tentato di intervistare Lanthaler per un noto sito culturale italiano, la rinuncia è giunta dopo la prima domanda, che recitava: « Più volte ti sei definito “un autore italiano di lingua tedesca”: puoi spiegare questa definizione?»
La risposta di Lanthaler, barocca quanto certe sue pagine, superava le trenta righe; citerò qui solo le prime dieci:
per quanto concerne la mia “autodefinizione” (che eventualmente può esser letta come una (auto)provocazione, e mi spiego):
la maggior parte dei miei testi li scrivo in tedesco. (waere ich 1984 – was in frage stand – nach bologna und nicht nach berlin gezogen : waere es, aber das ist spekulation, anders gekommen)
il resto è qualche piccola poesia por talian e qualcosetta in greco.
a parte die unwaegbarkeiten solcher bologna/berlino/zufallsentscheidungen (fuer berlin sprach die damals deutlich virulentere off-filmemacher-szene (zumal im zelluloidformat 16mm): de facto bin ich da drin gelandet: als beleuchter/elettricista, erstmal. klassisch) … a parte also :
E così via. Quando ho espresso a Lanthaler la mia incertezza sulla traducibilità e pubblicabilità delle sue risposte se fossero state tutte di questo tenore, mi ha rimandato di ripiego a una mini-intervista fittizia presente sul suo sito, che riporto volentieri a completamento del lacerto soprastante:
A domanda risponde. A.d.r.
Paralipomena dal delta
(Secondo il vecchio Codice di procedura penale)
A.d.r.: Per scrivere un romanzo che racconta un viaggio, mi metto in viaggio. Leggendo. (Muoversi fisicamente da un posto all’altro non è tra le mie attività preferite. – Ma non necessariamente perché il posto dove sto mi piaccia.)
A.d.r.: Spendo un sacco di soldi per scrivere un libro. Comprando libri. (Scrivo libri per guadagnarmi da vivere. È il mio mestiere. Non ho altri.)
A.d.r.: Che faccio, se non scrivo? Al massimo leggo due righe.
A.d.r: No. Non me lo può chiedere.
A.d.r: Perché non ci sono risposte.
A.d.r.: Alle risposte ci crede colui che non ha domande. Come Lei.
A.d.r.: Sarà. Ma non mi mette paura. Metta invece un po’ di fantasia. Allora sì che…
A.d.r.: Nun, da halte ich mich an Gramsci: »Jeder wirklich poetische Text hinterlässt eine Ablagerung von Alltagsverstand.«
A.d.r.: Infatti, un tornado che passa sopra Αθίνα è un fenomeno. Raro, se vuole. Se poi succede in ottobre … (Dal delta invece non ci è giunta foce.)
A.d.r.: Pioppi? Allego documentazione fotografica.
Ecco, Lanthaler è un tipo così, un po’ dada, un po’ situazionista, molto giocoso, cantastorie attento al ritmo e alla musica della lingua, propria e altrui. Concludo con una delle pagine iniziali de Il delta, un romanzo bello e buono, che spero trovi un po’ alla volta i suoi lettori italiani, anche attraverso questa strampalata finestra su Nazione indiana.
Vedete, Fedele Conte Mamai è di nuovo qui, dico. Ci è voluto un bel po’ di tempo, era sempre in giro. È quasi irriconoscibile. E tutto è rimasto come una volta, vedo. La piazza, l’edicola, la nebbia e il vento. L’argine, i canali. E di buoi non ce ne sono più già da un pezzo, da nessuna parte. L’ultimo lo vidi non meno di quindici anni fa. Attraversava la strada davanti a uno zoo. Non si capiva se andava o veniva. E da allora mi chiedo da dove arrivino mai tutti i guanciali brasati. Per l’appunto. L’osteria è ancora quella vecchia. Buia, come in passato. E un po’ umida, come allora. Non così inospitale.
La porta era aperta. Scesi i tre scalini e mi guardai intorno. La volta, i tavolini, il banco corto, basso, eternamente bagnato. Le sedie erano sparse qua e là, come dopo una rissa. Il locale vuoto, come se i carabinieri avessero portato via tutti in una volta. Sul piccolo scaffale, qualche bicchiere. E sopra ogni cosa muffa, polvere, intonaco scrostato. Bene, dissi, attraversai il locale, passai nel retro, lì c’erano i resti cinerei di un falò, freddi. Cos’è successo qui?, dico, sarebbe una novità.
Mi sedetti al tavolo nell’angolo in fondo, il tavolo per chi arriva dopo. Lo assesto un po’ finché non traballa quasi più, poso la valigia accanto a me.
Oste, sono di nuovo qui. I gà igà i gái.
Sapete, l’osteria non è mai stata troppo cordiale con gli ospiti, e l’oste, se possibile, ancora meno. Ti portava un bicchiere di vino sul tavolo senza bisogno di dir niente. O mezzo litro. Sempre di quello disponibile al momento. Di caffè ce n’era soltanto nei casi veramente eccezionali, funerali o simili. Due o tre volte l’anno. Quando oltre agli ospiti abituali si trovava all’osteria anche quella parte del paese e dei dintorni che altrimenti ci girava alla larga sprezzante. Gli iniziati, dal canto loro, girano alla larga dal caffè. Di grappa se ne trova sempre, basta uno sguardo muto. L’accenno della mano verso lo scomparto in basso. Un cugino lontano che distillava senza tanto badare alla legge, uno che aveva capito e preso sul serio a tal punto la propria occupazione che ci aveva lasciato le penne.
Qualunque cosa servisse l’oste, che uno l’avesse ordinata o no, il ringraziamento era sempre il seguente: che bon caffè ca fè. Che buon caffè avete fatto anche oggi, oste. E lui si guarda intorno nella semioscurità dell’osteria, guarda la sua eterna clientela abituale e dice: I gà igà i gái. Hanno legato i polli. E allora parte un giro di risate. La volta dopo il gioco si ripete. Un rituale. Più che un passatempo, un indolente segnatempo.
(da Kurt Lanthaler, Il delta, traduzione di S. Zangrando, edizioni alpha beta Verlag 2015)
Diciamo che con questa segnalazione hai perlomeno trovato un lettore
Meglio di niente, Giorgio: uno qui, uno là…
Un paio, anche