Ritorno ad Alphaville
di
Stefano Felici
Breve prologo per stare al gioco
Amleto, scampato al tragico epilogo,
vive ormai da tempo imprecisato a Roma sud,
in un monolocale, e una sera, a tanto per non annoiarsi,
si ritrova a fare un lezioso ego-surfing, col suo tablet,
su un portale di cinema.
Arrivo al fondo dell’elenco con un solo e velocissimo colpo dito-polso; i titoli dei film scorrono saettanti uno dopo l’altro, dal basso: le locandine e le stelle da uno a cinque e i nomi dei registi e quelli dei cinema, e pure le brevi sinossi… Tutto, niente mi cattura, fino all’ultimo film: ultima sala, ultimo regista, ultime stellette, ultime righe di trama. Ma guarda qua: c’è il mio nome. Parla di me. Quest’ultimo film è un film su di me.
Sono anni, ormai, che ho preso gusto all’Opera, all’opera e alle opere, in senso a giorni lato, ad altri più stringente, ma stasera, ore 20:51, mi accorgo, nel buio nero e compatto del mio monolocale, che l’Opera a cui ho preso da troppo tempo gusto è ormai logora e concentrica, è un punto occluso e troppo denso, è un buco nero di scritture – mentre penso a un buco nero, e per giunta di scritture, la mia testa è leggera e incantata ma cerco di ridestarmi, evitando la vertigine – e forse, e dico forse ma è un forse che è subito un piccolo fotone che schizza imprigionato nel buio assoluto della camera, dunque, forse è arrivato il momento che io veda, che io proceda, che io mi rimetta – il minimo indispensabile — all’ascolto.
Ma che me ne viene, a me, di andare a vedere questo filmino sulla mia storia, stasera, di venerdì, fino a lì. Ché poi fa pure freddo, dovrei persino far benzina – «Ma zitto, zitto, e vai a quel cavolo di cinema!» strilla, ma in sordina, la mandibola serrata del teschio del mio amico e fidato Y., che se ne sta poggiato, e di solito sempre silente, da solo, su una mensola in alto, sopra la mia scrivania; e mi pare per un attimo di vederlo scintillare opaco, nel severo buio fitto, come fosse per un istante in madreperla. Be’: se Y. si è fatto sentire, e lui non parla mai, allora qui la cosa è grave, c’è un evento in corso, e io non me ne sono proprio accorto: quant’è, da quando mi sono stanziato qui a Roma, che non esco più di casa? Mi sono rigirato sulla sedia, mi sono spinto fino ad arrivare a un calendario che era chiuso nel cassetto di un comodino che mi ero persino scordato esistesse, e, ecco, insomma… per non costringermi a rivivere quello fulmine di terrore gelido, quindi elettrico, sulla pelle e nei muscoli, le ossa bloccate e indurite e a un istante dal far crac, il terrore dell’impatto col granito del tempo trascorso come niente fosse – trascorso e perso, poi, viene subito da pensare – mi limito a riportare vagamente questo pensiero: erano passati, dal mio arrivo a Roma e da quando mi chiusi al di qua della porta della mia nuova casa, be’, erano già scivolati via, diciamo, una quantità di anni che servono di solito a un personaggio – diciamo tipo me – per diventare un classico dell’Occidente.
«Io allora me ne vado, a fra poco» ho detto, lasciando la stanza sempre al buio, correndomene via come si scappa da una folla appena ci si rammenta della propria e troppo umana natura di personaggio tragico. «A fra poco che?» mi ha fatto inaspettatamente eco Y. «Non scherziamo, eh! Portami con te» ha aggiunto poi. Ero sulla soglia, una mano sulla maniglia e l’altra a stringere le chiavi, pronto a richiudere con un paio di mandate e correre fuori, sul pianerottolo, per le scale, per l’androne, fuori finalmente per la strada, un po’ d’aria fresca pure se ferma e sporca e notturna. Invece no. E no. Mi sono bloccato. Sconcertato. Via via infastidito. «Ma dove ti dovrei portare?!» gli ho gridato allora dal piccolo ingressetto. «Che faccio?» ho continuato, «mi porto un teschio sotto braccio? Un teschio sotto braccio al cinema, mi porto?» Nessun rumore, nessuna parola per un po’. E quindi stavo per premere di nuovo sulla maniglia quando Y. riprende fiato – diciamo così – e mi domanda: «Ma dov’è questo cinema?» Mannaggia. Mannaggia a te, maledetto Y. Gli rispondo: «A via del Pigneto.» Y. continua: «Ah.» Silenzio. E poi subito riprende: «E ti stai a preoccupare, tu, di andare al Pigneto con un teschio sotto braccio. Cioè: tutta ‘sta nevrosi per paura di passar per strano, tu, vestito di nero dalla testa ai piedi, pallido e con le occhiaie, tu, hai paura di passar per strano. Al Pigneto. Ma tu guarda un poco la…» Un attimo di silenzio. E poi ha concluso: «Cammina, vieni qua, prendimi, andiamo. Sbrighiamoci.»
Ha vinto lui, alla fine. Ma ho strappato un piccolo compromesso: l’ho avvolto in alcune pagine di giornale. Poi, durante il tragitto in macchina, mi ha spiegato come facesse ad avere una così approfondita conoscenza del Pigneto – che io, per esempio, non avevo quasi mai sentito nominare.
Dopo ventisei minuti esatti in circolo concentrico per trovare uno spazietto dove parcheggiare, ovviamente e possibilmente il più vicino a questo cinema che si chiama Alphaville ed è sito in via del Pigneto 238, mi comincio a domandare – vedendo una caterva d’altre automobili sistemate un po’ di sbieco, un po’ con musi e posteriori ad occupare spazi che non potrebbero occupare, altre un po’ troppo sporgenti nelle carreggiate, abbandonate quasi al mezzo della strada – mi domando, insomma, se non sia il caso, visto che il parcheggio qui proprio non c’è e io mi innervosisco facilmente, di lasciare la macchina su un fazzoletto d’asfalto, visto poco prima, fra delle strisce pedonali e il gomito di una curva, che, considerato non guido da decenni, e non osservo la città e men che meno so calcolare spazi e loro annessa praticabilità, non so giudicare se possa andar bene o no, e nel mentre che il tempo passa – poco, ma passa – e mi domando se quello sia effettivamente un parcheggio oppure non lo è, parcheggio?, non parcheggio?, realizzo, di colpo, come infilzato al collo da un dardo velenoso che invece di paralizzarmi mi rende invece più lucido, sciolto, cosciente, mi porta a realizzare dunque che l’alternativa è tornarmene a casa, poiché prima o poi il film comincerà a esser proiettato, e il tempo, seppur lentamente, scorre e come. Fatto: do quindi un colpo isterico d’accelleratore, sterzo tutto, mi fiondo nello spazietto tra strisce e curva a gomito, freno, freno a mano, spengo il motore, tiro via la chiave e mi lancio fuori dall’auto. Mi scordo però di Y., impacchettato sul sedile. «Grazie» mi dice, appena riapro lo sportello, prima che potessi aprir bocca per scusarmi.
La stretta, buia, ripida, incolta e spoglia via del Pigneto. Pochi passi e da una piccola porta vetrata coperta dall’interno, per metà, da un drappo nero spiegazzato, arrivano dei flash bianchi e grigiastri a intermittenza. Mi avvicino ancor di più e leggo, sopra la porticina vetrata, la scritta “Alphaville”. Al di là del drappo vedo cinque o sei teste, delle silhoutte di teste nude, mi sembrano tutti uomini, forse una donna, e dalla piccola porzione di schermo visibile – un telo da proiezioni, né piccolo né grande, diciamo della giusta misura, perché no? – vedo in bianco e nero la figura di quello che mi pare essere un samurai, un samurai agitato e arrabbiato e isterico come me quando mi fiondo su un parcheggio di fortuna, e poi mi accorgo che lo conosco, che di lui mi ricordo, mentre con la coda dell’occhio vedo che accanto a me c’è un cavalletto con sopra un cartonato, una locandina: la programmazione della settimana dedicata ai 450 anni esatti dalla nascita di Shakespeare, e leggo – nonostante il buio, ma i miei occhi al buio danno ormai il loro meglio – che quello è il bravo attore di cui ho sentito parlare benissimo, Toshiro Mifune, e il film è Il trono di sangue di Akira Kurosawa, che rifece anni fa questo suo Macbeth ambientato nel Giappone feudale a lui tanto caro. «Akira Kurosawa» dico a voce alta, senza accorgermene. «Akira Kurosawa» fa eco Y. «Statti zitto, tu» gli dico, e lui controbatte piccatissimo «Ma quale zitto, su, fammi vedere Kurosawa», e io sbarro gli occhi e per poco non caccio un urlo, ma poi mi limito ad avvicinare alla mia bocca Y. e a sussurrare minaccioso «Stai buono, e zitto, sennò ti ficco dentro al cassonetto», però Y., anche lui sussurrando minaccioso, mi dice «Se non mi fai vedere Kurosawa e pure il film dopo, io, qua, mi metto a urlare forte, ma proprie forte, e finché non viene gente e vede che non sei tu a urlare, ma proprio un teschio, un teschio avvolto nella carta di giornale.»
Sul finale del film di Kurosawa ho aperto la porta e sono entrato tenendo Y., con entrambe le mani, dietro la schiena. Questo piccolo cineclub di nome Alphaville, ho pensato, è piccolino, sì e no una trentina di posti a sedere, sedie normali, piccolino però il film si vede bene, guarda, guarda pure che casse, senti che sonoro, si vede bene il film, tutte le cose al loro posto, la biblioteca sulla sinistra, la videoteca sul muro di destra, la signora vicino al proiettore che adesso mi guarda e mi fa cenno con la testa dev’essere la proprietaria o comunque la responsabile, be’, insomma, piccolo ma ben messo, carino, e Il trono di sangue finisce con la nenia giapponese del coro finale, annichilente, nostalgico e cavernoso. Rumore di sedie e di scarpe, scarponi, fruscio di giacconi e sciarpe, e si riaccende la luce – accidenti, che botta, l’ho sentita addirittura fischiare nelle orecchie! Da quant’è che non venivo illuminato?
In un famoso libro del celebre scrittore catalano Enrique Vila-Matas, il narratore, nonché protagonista del racconto e critico letterario, va a trovare suo figlio che vive a Nantes – mi pare: questo figliolo fa il libraio insieme alla sua fidanzata, e non se la passa proprio benissimo: costui è “malato di letteratura” e, all’atto pratico, per farla breve, visto da fuori sembra un po’ pazzo – uno stramboide che è a tanto così dall’esser pericoloso per sé e per gli altri. Nel raccontare un episodio che ha avuto luogo in un ristorante – episodio in cui prende vita una stranissima e accesa discussione – il narratore inventato da Vila-Matas inizia col dire che suo figlio, in quella circostanza, gli ha ricordato in tutto e per tutto il personaggio di Amleto. Questo amletismo – vado a memoria, al solito – il narratore lo riscontrava in certi aspetti del comportamento, tipici del personaggio shakespeariano: uno era la “cortesia con fare cerimonioso”; un altro era “l’adombramento malinconico”; un altro ancora la “follia simulata”. Più altri, che ora proprio non ricordo.
La signora dell’Alphaville mi viene incontro. Mentre le otto-dieci persone che poco prima erano sedute si mettono in fila per uscire in strada, io rimango fermo, tre passi dentro il locale – più vicino alla soglia che non verso le seggiole – sempre con Y. ben nascosto dietro la schiena. «Buonasera!» mi fa la signora dell’Alphaville, all’improvviso, prima di essermi a distanza di conversazione. Ecco: è qui che in mezzo secondo ho pensato che erano anni, tanti, troppi anni, che non parlavo più con esseri viventi e contemporanei, e che m’ero scordato com’è che si fa ad approcciare una comunicazione, a mandarla avanti quel tanto che basta per parlare poi senza fatica, un poco più sciolti – m’ero scordato pure la sensazione d’essere sciolti durante un dialogo; rischiavo insomma la paralisi a oltranza, l’inazione per indecisione, insomma, cose che ho già provato, in realtà; ma l’ombra gelida spettrale di quella sensazione era lì lì per attanagliarmi, di nuovo, ho pensato, e allora mi è venuto in mente quel libro di Vila-Matas, quel breve elenco di comportamenti amletici, stilati da un amletista molto attento, dacché nel momento in cui li lessi, mi ricordo, sogghignai compiaciuto, e allora, al termine di questo benedetto mezzo secondo, ho finalmente deciso: ricalchiamo i comportamenti che dice Vila-Matas. Magari, però, evitiamo quella faccenda della “follia simulata”, ho sentenziato mentalmente, un istante dopo il «Buonasera a lei!» quasi urlato di rimando alla signora dell’Aplhaville.
Mi sono ricordato com’è che ci si relaziona a pubblicamente. L’elenco di Vila-Matas mi è servito da canovaccio. Se mai dovesse leggere questo scritto, be’, grazie molte, Enrique. La signora dell’Alphaville ha sgranato gli occhi a certe mie esuberanze vocali e a certi miei silenzi inaspettati, a certe risate inutili e sguaiate, a certi repentini e insensati sguardi torvi. Ma ha assorbito tutto con una pazienza e una cortesia quasi commoventi. Ringrazio anche lei, signora dell’Alphaville, semmai leggerà questo scritto. La ringrazio soprattutto perché, al momento di firmare la tessera di sottoscrizione al cineclub, ho indugiato non poco prima di scrivere nome e cognome, e lei, sempre cortese e discreta, non ha aperto bocca nel vedermi disegnare svolazzi incomprensibili che pretendevano d’essere strani grafemi messi in fila per assomigliare a Mario Rossi.
Un Amleto di meno, di Carmelo Bene. Non l’avevo mai visto, ma della sua fama – intendo del film, anche se quella di CB stesso era ovviamente assai superiore – ne ebbi conto già quando uscì nelle sale, ovvero nei tardi anni Settanta. Sapevo anche del lavoro teatrale di CB, del suo tentativo di operetta, delle infinite e particolari riletture che avevano alla base il testo ora prosa ora pometto di Jules Laforgue – che per primo, davvero, mi rilesse e mi riscrisse, capendomi più dello stesso Shakespeare che pure, per me, face tanto, più di tutti — m’inventò.
Dopo una breve introduzione a braccio della signora dell’Alphaville, buio in sala e via con la proiezione. Questo Amleto di meno è frenetico, musicale e colorato, ho pensato, dopo pochi minuti. «Colorato, colorato» ha ripetuto una voce che non sapevo di chi fosse ma che poi, appena formulata mentalmente la domanda, ho ricondotto a Y., poggiato incartato sulle mie ginocchia – nel fattempo, in corrispondenza delle orbite oculari, avevo fatto due buchi nella carta, così che anche lui potesse guardare il film. «Senti», continua poi Y., «fammi il piacere: tanto stiamo in prima fila, nessuno ci guarda.» Vertigine. E senso immediato di nausea. Più Y. parlava, seppur a voce bassissima, più mi sentivo formicolare il viso, le mani, le braccia, le gambe: di colpo il terrore che qualcuno potesse sentirlo, capendo che quella voce non proveniva da una persona ma da un crano incartato in fogli di giornale; mi sono immaginato poi che la signora accendesse la luce, bloccasse il film e, piombando su me e Y., si mettesse a urlare incredula e terrorizzata, per poi chiedere aiuto ai presenti e correre in strada con le mani nei capelli. «Mettimi più alto. Mettimi tra la clavicola tua e il bavero del cappotto» ha concluso Y. Io, paralizzato, pensando però che se avessi eseguito l’ordine Y. si sarebbe poi azzittito per tutto il resto della serata, ho trovato non so quale risorsa – o il corpo l’ha trovata per me – e, meccanicamente, mi sono portato il teschio di Y. ad altezza della clavicola, ho spostato un po’ il bavero del cappotto e lì, in questo spazio, sono riuscito a incastrarlo. E così ci siamo goduti il film. Fino alla fine.
***
Amleto si mette in affari è il film di Aki Kaurismaki – in bianco e nero; e a me, il bianco e nero, piace in una maniera davvero particolare – per cui io e Y. abbiamo deciso di tornare all’Alphaville anche la sera dopo. A dire il vero, è andata così: tornati in macchina dopo l’Amleto di meno, che ci ha molto divertiti, io e Y. ci siamo messi a parlare del più e del meno, ed è venuto fuori che a entrambi, alla stessa maniera, dava il voltastomaco l’idea di tornare a casa, in quel gorgo monolocale inghiottito dal buio, denso di tenebra, e anche qui, a entrambi, è venuta la stessa idea, associando casa nostra a quel caos maligno e primordiale e indefinito di cui parla Esiodo nella sua Teogonia (una lettura comune sin dai tempi in Danimarca). Si è deciso così di rimanere a dormire in macchina e di restarcene al Pigneto. Aspettando l’Amleto di Kaurismaki in un tedio un po’ più luminoso del solito.
Di nuovo all’Alphaville, ho seguito ancora una volta il canovaccio di Vila-Matas, ma con maggiore sicurezza, maggiore spontaneità. La signora dell’Alphaville sembrava persino contenta di rivedermi.
Con Y., in prima fila, abbiamo ripetuto la stessa manovra. Ci siamo goduti l’Amleto di Kaurismaki, che è un film assai fedele alla mia storia, seppur ambientata in una Scandinavia finnico-tardomoderna che non mi appartiene – personalmente, mi appartiene di più il vuoto bianco-teatrale imbrattato di colori allestito da Carmelo Bene.
Film davvero molto bello, comunque. Al momento del congedo, ho ringraziato la signora dell’Alphaville per la bella rassegna messa su, ma l’ho fatto, mi pare, o almeno ho questa sensazione, senza il pensiero di dover seguire il canovaccio di Vila-Matas: è stato un ringraziamento sincero, insomma. Lei ha compreso che le mie parole erano finalmente genuine, e forse, per un attimo, credo abbia persino capito chi fossi: le si sono inumiditi gli occhi. Mi pare abbia persino iniziato il movimento che porta all’abbraccio; ma si è subito ricomposta. Varcando la soglia dell’Alphaville, con la coda dell’occhio, sono sicuro di averla vista agitare una mano, in segno di saluto, all’indirizzo di Y., che portavo sotto il braccio, e del quale, come per un mucchio di altre cose, la signora non ha mai fatto parola. In macchina, Y. mi ha detto di non aver visto, o di non essersene accorto. Ha cambiato poi discorso, dicendomi che per me non c’è speranza: mi interesserò sempre e soltanto di libri, di film, componimenti musicali, qualsiasi cosa, purché parlino quasi esclusivamente di me. Io ho sorriso. Ho pensato a quel quasi. Poi ho detto: «Io continuo a non aver voglia di tornare a casa.» Y. ha replicato: «Lo stesso vale per me.» Poi ha aggiunto: «Però, mo, che scusa ci inventiamo?» Al che, sentendo uno strano accenno di esaltazione, ma a dire il vero anche di pace, forse persino di tranquillità, di umore buono, no, togliamo l’esaltazione e teniamo tutto il resto, insomma, pervaso da queste strane e piacevoli sensazioni che sul momento, comunque, non ho di certo riconosciuto, ho risposto a Y.: «Dormiamo di nuovo qua in macchina, intanto.» Mi ha poi attraversato una frase. Il ricordo di una frase. Anche se adesso, però, non sono tanto sicuro fosse un ricordo. Forse il ricordo della frase me lo sono creato al momento. Comunque, ho continuato e concluso dicendo: «Se è vero che, come ho letto di recente, ogni personaggio moderno è un personaggio-Amleto, allora, Yorick, stai tranquillo: entro domani sera una scusa per tornare al cinema, in qualsiasi cinema, di sicuro la troviamo.» Ho rigirato il teschio di Y. verso lo schienale del sedile e ho steso il mio. Poi ho chiuso gli occhi e ho cominciato a far finta di dormire.