Bracciate #1- Gioacchino Lonobile

Bracciate è la mia nuova rubrica per Nazione Indiana, evoluzione per crasi della precedente, che s’intitolava Braccia rubateBracciate accoglie alcune brevi narrazioni e il tentativo dei loro autori, bracciata dopo bracciata, di raggiungere l’altra riva o tornare in terraferma.

 

Il primo racconto è quello di Gioacchino Lonobile, redattore della rivista letteraria TerraNullius e componente della direzione artistica del Flep! Festival delle Letterature Popolari. Lonobile nasce a Toulon, ne è prova un piccolo trafiletto di giornale gelosamente custodito dalla madre; rinasce tre mesi dopo in Sicilia, e di questo ne sono prova le vocali aperte e i suoi racconti.

 

L’UNA E MEZZA

di Gioacchino Lo Nobile

triplicescritta

Agata aveva appena ritirato i panni. Quando entrò Gaspare, nemmeno si girò. La velocità con cui piegava la biancheria tradiva il suo nervosismo.

– Non scrive più – disse sottovoce – Totuccio – precisò – Non scrive più.

Un esattore, al pari degli sbirri, era curnutu e ‘mbami. Totuccio recuperava crediti per conto dei mercatari, delle botteghe e delle taverne. Portava con sé un quadernetto a quadri su cui erano scritti solo numeri e nessun nome, e una matita corta corta che chiamava “la piz”. I negozianti che facevano credito, a fine settimana iniziavano a ricordare ai clienti di “un certo conto”.

– E che senza i me’ picciuli non puoi campare?

Chi non pagava, a fine mese, diventava di diritto un numero sul taccuino di Totuccio.

Il padre di Gaspare lo conoscevano in tutte le taverne. La sua unica fonte di reddito era un piccolo appartamento in piazza Ballarò che affittava a studenti fuori sede, qualche centinaio di euro che, tra birra e sigarette, durava fino al quindici del mese. Domandargli un prestito era come lavare la testa all’asino: si perdeva tempo, acqua e sapone, già quando era vivo, ancor più dopo che un infarto lo aveva reso un brav’uomo amico di tutti. Della famiglia di Agata non si poteva far conto dai tempi della fuitina, che loro già lo sapevano di quanto Gasparino fosse cosa inutile.

– Non dice di chiudere il conto, ma che magari gli diamo qualche cosa, ci passi tu? – chiese Agata.

Un tempo, dopo la famiglia c’era il Monte di Pietà. Da quando la miseria sembrò essere un antico ricordo, e l’ultimo banco dei pegni chiuse, a quando comparve il primo Compro Oro passarono meno di dieci anni.

Gaspare si avvicinò ad Agata, che continuava a tenere gli occhi sul bucato, e poggiò le mani sui suoi fianchi.

– Finiscila, che ci sono i picciriddi – disse la donna imbarazzata.

Quel popolo, che faceva di ogni esperienza un motto, diceva che la povertà non era vergogna, ma nemmeno vanto, di certo il suo ultimo atto era rivolgersi ai cravattari. E con loro c’era picca di babbiare.

– Dicono che cercano gente al cantiere, magari in questi giorni che non stai lavorando…
Gaspare avrebbe voluto sorridere per rassicurare la moglie, ma riuscì solo a sbuffare. Lasciò Agata e si allontanò.

– Vado a comprare il pane- disse e uscì.

Percorse via Rue Formaggi, via Maqueda e corso Vittorio Emanuele. Tra il Cassaro e la Vucciria un ambulante vendeva il pane fresco di Monreale. Pane di paese.

Chiese un rimacinato.

– Bello cotto.

Proseguì in direzione del mare.

Su una grande porta ad arco, oltre la quale rimanevano i ruderi della chiesa della protettrice dei tavernari, era appeso un cartello. Ovale, bruno con tre scritte bianche, la prima in italiano “vicolo S. Sofia” le altre in ebraico e arabo. Gaspare rimase a fissare il cartello, cercando di decifrare simboli e lettere, vide che dall’altro capo della strada c’era un cartello simile. Non fece in tempo a scendere dal marciapiede per attraversare, che sentì un rumore vicinissimo. Una macchina era a meno di due metri da lui, non avrebbe mai fatto in tempo a frenare.

Quando si sta per essere investiti, non si trova nulla di meglio da fare che rimanere immobili, non si riesce neanche a gridare. Quella volta non fu così. Tutto rallentò fino a fermarsi, ogni particella smise di vibrare come congelata: la coppia di turisti tedeschi rimase a guardare la cartina aperta della città, i giornali dell’edicola cessarono di svolazzare, Franco u’ Vastiddaru rimase con il braccio proteso a dare il resto a un cliente, immobile anche lui con il panino panelle e crocchè in una mano. Forse ognuno, in quell’assenza di movimento, ripercorse la propria vita, e anche le cose lo fecero, i palazzi ricordarono quando fu posta la loro prima pietra, le macchine del caffè nei bar pensarono all’emozione dopo aver riempito la prima tazzina. Gaspare era l’unico in grado di muoversi. Fece un passo indietro. Solo allora il tempo tornò a scorrere, e con esso l’automobile che lo stava per investire. Il cuore aveva accelerato appena di qualche battito. Tornò a guardare dall’altro capo della strada. Il cartello era sempre lì. Uguale al primo, stessa forma, stessi colori, tre scritte. Percorse via Paternostro, varcando la porta Judaica, che metteva in comunicazione il Cassaro con il vecchio ghetto ebraico.

Altri cartelli: in piazza Sant’Anna, in piazza Rivoluzione, luogo del quarto mercato, l’unico estinto, quello della Fieravecchia, e in via Divisi che tutti chiamavano dei Biciclettai. Accanto al cartello marrone di via Lampionelli ce n’era un altro scritto a mano con la vernice rossa che ammoniva: “La persona pulita butta la spazzatura dentro il contenitore”, ma il cassonetto che ci stava sotto era già colmo. Gaspare proseguì per via Giardinaccio, vicolo Meshita fino in via Calderai, la strada dei fabbri.

Il giorno festivo teneva chiuse tutte le officine, tranne una. Davanti alla saracinesca sedeva un uomo intento a far nulla. Dietro di lui campeggiava uno dei cartelli. Gaspare lo indicò al fabbro, che strinse le spalle e abbassò gli occhi. Quella risposta muta riportò Gaspare a molti anni prima. La sua memoria diede forma a una figura con pochi capelli neri pettinati da un lato, che incorniciavano un viso magro dalla fronte alta.

– Abbiamo eliminato tempi verbali come il futuro, chiuso le vocali, abbiamo diminuito il numero di parole e le abbiamo accorciate, sempre di più, fino a trasformarle in sillabe, in suoni o solo in un gesto.

Ai lati della bocca due pieghe scendevano fino al mento, aveva le orecchie grandi da vecchio. Era suo nonno, Gaspare Cardella anche lui.

– Un solo gesto può intendere molte cose – disse l’anziano.

Nella piccola cucina, dopo la morte della moglie, aveva sistemato un divano su cui dormiva. Nel letto matrimoniale, diceva, non riusciva più a riposare. L’odore delle sigarette impregnava ogni cosa.

L’uomo si diresse verso la finestra, Gaspare lo seguì con lo sguardo.

– Abbiamo alzato mura, per non farci capire e per proteggerci dai nostri oppressori. Si dice una cosa per intenderne un’altra, e certe volte nemmeno si dice.

Gaspare muto.

– Gli ebrei, invece, hanno imparato la lingua di chi li governava, cercando di divenire invisibili, gran popolo…- disse sorridendo – Erano bravi macellai, furono loro i primi a cunsare u pani ca’meusa.

L’anziano accese un fiammifero. Gaspare respirò l’odore di zolfo, la fiammella ondeggiava insicura.

– Nessuno come loro conosceva i segreti del fuoco. Erano maestri nel forgiare il ferro. Il fuoco che distrugge e rigenera, Ade ed Efesto. Fu un dio greco a rubarlo ai suoi per donarlo agli uomini.
Gaspare rivide sé stesso bambino, difronte a suo nonno. Strinse sotto il braccio il filone di pane ancora avvolto nella carta, e uscì dalla sua infanzia e dal cartello che non aveva smesso di fissare. Guardò dentro l’officina il fuoco nella forgia. Ade ed Efesto pronunciò senza emettere suono. Indicò il polso all’uomo seduto davanti l’officina.

Quello alzò prima l’indice e poi piegò il mignolo.

L’una e mezza non disse.

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