Auto-antologie-2. Francesco Filìa
di Francesco Filìa
VI
Creato in un luogo comune di fili sospesi, antenne
e asfalto di tetti addossati l’un l’altro. Sfuggo
all’agguato di bancarelle e ragazzi urlanti nel sole
cercando il freddo di travi che oscillano
nell’ultima stanza. Il grido delle strade si perde
nel grumo irrisolto del giorno, in un pensiero
aggrappato alla sua radice alla sua origine
oscura.
VIII
Ho gommapiuma dove dormire e acqua
da bere nel cassetto, ma ora vi immergo
un polpastrello rinsecchito e intingo
la vita nell’inchiostro
della biro esplosa in tasca, ora le
unghie sono sporche di terra e nero.
Mentre una scheggia del bicchiere apre
la via al sangue.
XIII
Ricorda la storia dei ragazzi feriti per gioco
il cigolio della porta, le monete che rimbalzano
sul muro tra le urla di scherno. La parola
è stata ripetuta come un rituale per non
far crollare il giorno. Il balzo su noi stessi
per sorprendere il mondo alle nostre spalle.
La gioia intuita dietro una parete e travi che
slittano oltre un sospiro e un colpo di storia.
Il teorema è stato imparato, non dimostrato.
Non bisognava provare a parole di esserci
bastava un gesto un foglio il sangue di chi
non sapeva.
XXII
Ma io parlavo soltanto con le case.
Mentre mi aggiravo selvaggio tra marciapiedi
e il piperno di androni aperti, dove infilarsi e violare
con lo sguardo la tregua di cortili o sfuggire
a un guardiano, genius loci. Strade percorse fino al limite
di vesciche e scarpe del colore giusto, maledette
d’asfalto o basalto dissestato. Gambe furiose che cercano
il termine di paragone.
XXIV
Gioia completa, senza l’ombra di un “ma”. Completa
di vento e vuoto. Si confondono mura, strettoie
e lo slargo di vetrine riflesse nei volti, dove finisce il senso
spezzato di una vita. Forse è giunto il giorno
di credere a una domanda mal posta, di capire
il silenzio di ogni sillaba, l’intermittenza dei giorni
e delle notti, di essere presi dall’aprirsi improvviso
di una strada a mezzacosta. L’arcano delle tempie
è ancora da comprendere.
XLII
Sei sceso nell’agguato delle strade per provare
che è lì il tuo ultimo respiro, che la tua vita
è nel gorgo di questi palazzi e non oltre
non altrove. La consegna da rispettare.
da Il Margine di una città, Il Laboratorio/ Le edizioni, 2008
(I frammento, Napoli 2007)
…noi siamo già quel che voi
sarete domani.
La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal nostro esitare.
E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate
lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre
il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi
si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso
vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri
incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo
tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia
e cielo non c’è più tempo per esitare. L’assedio
è dentro le case. E’ tra la mano e il buio di stanze abbandonate
e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo
scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire
ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze
e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti
gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età
come chi dovrà morire sul serio.
(IV frammento, Napoli 2007)
Non saremo noi a sentire il tepore del disgelo, la neve
che si scioglie tra lava e cenere ammassata
l’alito della terra che rinasce. Rimarremo
nel vuoto di calcina e cemento armato tra crepe
e radici che penetrano le mura del nostro abitare
e allora saranno le nostre spalle nude a difendere
lo spazio di queste parole inermi a dare forza al respiro
tra portoni e auto in doppia fila e negli occhi di un passante
forse, vedremo una lontananza che ci accomuna
un insensato sperare e non sarà il suono di una campana
a richiamarci all’ordine, a richiamare all’ordine
questi incroci di mani dolenti e gesti furtivi. Ora
la città è lucida di pioggia e bisogna solo percorrerla
sino alla fine del nostro fiatare chiedendo
nel riflesso del semaforo sull’asfalto
il perché alle pietre, alle radici che insinuano
tra il porfido e la terra, tra i nostri passi e un’angoscia
di pugni stretti nei fianchi mentre la linea dell’orizzonte
collassa sui nostri corpi stremati …. e ora
solo ora, un passato di vicoli e bande di ragazzi
di chiostri e reperti che affiorano ci entra dentro
senza far rumore.
(XXII frammento, Napoli 2007)
Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse
come un sogno appena sognato nel soprassalto ghiacciato
di un risveglio. Il vento custodiva il rossore dei nostri
visi il viola dei polpastrelli raggrinziti il nostro fiato
gelato. Abbiamo confuso la minaccia di neve con
la sempre promessa e mai caduta manna, lo stesso
candore lo stesso deserto ma altro nutrimento altre
rovine, nessuna terra promessa, se non questo catalogo
di cose da dire di strade di cristalli che si sciolgono
prima di toccar terra per diventare fango, poltiglia.
Ci sorprendemmo a guardarla come un incanto
appena accennato, un disegno appena abbozzato.
(XXVI frammento, Napoli 2007)
La madonna della neve
C’è giunto in sogno con la forza di un respiro brinato
il luogo delle promesse non mantenute dei prodigi
mai compiuti, di una rosa che sboccia di sole spine.
Che ad agosto non nevica si sa, i miracoli non esistono
se non nella gioia dei semplici, di noi che aspettiamo
un passato che riscatti il perimetro delle nostre attese.
Con uno scongiuro non riuscito abbiamo predisposto
il rituale per salvare le nostre facce davanti, quelle
che abbiamo offerto all’offesa di ogni giorno al rito
di sangue e purezza di ogni nascita all’attimo che trasforma
il più nudo dei casi in ciò di cui non si è potuto mai fare a meno.
La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate
la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto
per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi
al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno
sull’altro di fiocchi che definiscano il recinto
delle nostre preghiere, per un dono che non chiede
nulla in cambio, se non l’ultimo dei nostri respiri.
Da La neve, Fara, 2012
Corteo
L’onda della folla s’infrange sul blocco nero
dei volti che fronteggiano gli sguardi
lineari di visiere e caschi a difesa
di un incomprensibile ordine. Lo scherno
di un inchino rivolto al nemico. La scena
della strada è muta, una frazione
una sospensione del tempo, l’attesa
di una scintilla del manifestarsi del dio
di ogni contesa del sangue che laverà i basoli
di porfido e malta che affogherà le urla
gli slogan. Orbite che tengono insieme
gli atomi impazziti di questo giorno, di noi,
di questa marea che sale tra spalle allineate
e teste girate a un futuro di palazzi e silenzi
tesi in un solo vibrare. Vortice di agguati
e provocazioni nel cielo rasoterra
di fine inverno. Con l’apnea di un ultimo
respiro attendiamo. Anelli di una catena
che sprofonda nel cupo cuore di un evento.
Assembramento Piazza Garibaldi
La folla si avvolge in spire attorno
allo spray della statua dell’equestre
eroe che veglia su facce assonnate
o feroci nel grigio di un giorno
ancora inesploso, il vocìo indistinto
a tratti in cori si organizza
in slogan di desiderio e minaccia
di un assalto a un cielo ormai remoto
mentre una terra modifica se stessa
in un implodere d’asfalto e crepe
nei marciapiedi. Sono lì Andrea Ciro
che già parlano non so di quale massimo
sistema ed io mi avvicino esitante.
Provengo da non so quale
galassia remota dello spirito chiuso
tra un manuale da affrontare e un codice
di vita da decifrare, ma adesso in maschera
da combattimento vivrò un ultimo giorno
poi sarò vita che sopravvive a se stessa.
Il contesto
I
“Né eroina né polizia.” Contro
cosa protestiamo contro chi
urliamo il nostro disprezzo
di generazione in generazione?
Il fallimento dei padri – le loro
nevrosi cadute su di noi
come una colpa – che hanno
perso e barato che hanno spergiurato
e credono di essere esempio.
Non c’è un ordine contro cui
lottare ma un’anarchia del potere
che ci fa fare ciò che vogliamo,
non desiderarlo. Memorie
di una nazione morta
diciamo tra noi ridendo
giocando un gioco di ruoli: l’artista,
il nichilista, l’impegnato, la giornalista
ma ognuno è di meno di più di una
forma rinsecchita. È la gloria di una resa.
II
Ardi divina tenaglia sul mondo!
Denaro merce più denaro. In quale
fase di questo ciclo ci colloca
il sistema che fa muovere
ogni singolo passo? Fine e mezzo
interscambiabili, la mano invisibile
che comanda un acquisto e un amore
indifferentemente. E se anche questo
fosse un rimedio? Alcuni ci vogliono al gelo
alla crudeltà della lotta per la vita
e credono così di aver colto
il nocciolo dell’esistenza, denaro
più denaro. Un vento travolge ogni
cosa per voler solo se stesso.
C’è una macina che trita i suoi grani
secondo dopo secondo, eone dopo eone
e noi torniamo sempre di nuovo
su quest’identici passi a correre
a urlare a cercare di aprire
il cerchio imperfetto di queste vite.
Primo Gennaio 2015 (Epilogo)
Non abbiamo avuto nulla di meglio dopo
è vero, ognuno di noi assiderato
in questo crepaccio di piazze e tempo
in un mutismo attonito, occhi
sbarrati che scrutano dal nulla.
Un rimorso, il soffio di un’altra vita
sfuggente, sfumata. L’artiglio dei giorni
che implodono uno sull’altro. Sembra vero
il brulichio di corpi nelle strade,
cataste senza nome di desideri e grida,
anche le nostre ombre, tra le infinite altre
scivolarono su questi ciottoli di pietra lavica.
Non rimarrà traccia del filo di luce
amore bellezza furore – non so
ancora come chiamarlo – che ci ha legati
l’uno negli occhi degli altri per un attimo,
per quella gioia mozzafiato. Ognuno
tradito, da se stesso e dagli altri. Ora
con devozione e calma non resta
che allargare i labbri della ferita
che ci tiene in vita, non resta
che inoltrarsi, silenti, nella resa.
Da La zona rossa, Il laboratorio, 2015
In queste pagine sono presenti estratti dei tre poemetti da me pubblicati negli ultimi sette anni: Il margine di una città, La neve, La zona rossa. I tre libri, pur essendo stati concepiti in tempi diversi e con ispirazione ed elaborazione differente, visti a posteriori possono rappresentare una vera e propria trilogia che ha come protagonista la città di Napoli. Infatti di volta in volta, Napoli, si fonde con l’io lirico, come ne Il margine della città, si pone come deuterantagonista, come ne La neve, in cui assume il ruolo di tremenda, ancestrale grande madre e nel terzo, invece, in cui sembra arretrare sullo sfondo degli eventi narrati e la trama si apre a più voci che si contrappongo tra loro, rimane, però, come polo dialettico negativo e incombente. A queste tre diverse posizioni della città – che però è sempre vista in momenti unici, dal margine esistenziale e periferico, nel momento eccezionale di una nevicata, o in quello di una manifestazione che rompe il normale scorrere degli eventi – corrispondono anche tre diversi respiri del verso. Nel primo poemetto la versificazione assume una dimensione compatta che tende alla verticalità, in cui il verso è più o meno immediatamente la traduzione di una visione assoluta e inaggirabile e il soggetto lirico più che vedere è visto e attraversato dalle immagini che urgono d’imporsi nella loro evidenza. In La neve, invece, il verso tende a dilatarsi, a saggiare, parallelamente a un inesausto e frenetico aggirarsi per le strade cittadine, il limite estremo del respiro. I versi si strutturano in lunghe lasse, che però non ambiscono a una narrazione compiuta ma a un equilibrio tra la verticalità del dire poetico e l’orizzontalità della narrazione, in tale ottica il frammento, che caratterizza in particolare i primi due poemi, permette di rendere questa coappartenenza di due prospettive apparentemente divergenti. Ne La zona rossa invece l’intento si fa più scopertamente narrativo, i versi diventano strumento di un racconto, di una storia da trasformare in dettato poetico. I versi tendono a farsi più brevi, a ritornare nell’alveo mobile dell’endecasillabo per sfruttarne la duttilità espressiva, in modo da poter oscillare dal drammatico al grottesco e, al tempo stesso, rendere sia l’apertura espressiva, sia la nervosa icasticità delle sequenze.
Napoli, la città in cui sono nato e cresciuto e dove, tranne una breve parentesi in Lombardia, ho sempre vissuto, in questi testi sta anche per altro, è l’emblema dell’enigma del mondo, del suo implacabile ciclo di creazione e distruzione, che richiede la lente, deformante e rivelatrice, della parola poetica per poter essere indagato. In questa prospettiva per me l’attività poetica è un’attività conoscitiva, è percezione, è ascolto, è il luogo in cui ci si confronta in prima persona con le forze, visibili e invisibili, che ci attraversano e ci governano. La poesia, come la intendo, è oltre la distinzione tra forma e contenuto, in quanto più ci approssima alla verità da dire tanto più la forma ne consegue e, viceversa, lo stile è la verità della poesia. Il poetare, come ogni attività umana, è finito e fallibile, ma esso, a differenza delle altre attività, non rimuove il fallimento insito in ogni fare, ma lo dice fino in fondo. Insomma l’attività poetica per me si presenta come un discorso sul limite, sull’impatto tra contingenza e necessità, un modo per affrontare le estreme possibilità della parola e della dicibilità delle cose, in questo risiede il suo valore estetico, nel senso etimologico del termine, la sua possibilità di sopravvivenza.
(Francesco Filìa)
Nota Biobibliografica
Francesco Filia vive a Napoli, dov’è nato nel 1973. Insegna filosofia e storia in un liceo cittadino. Si interessa prevalentemente di filosofia, poesia e critica letteraria. Suoi testi sono inseriti in varie antologie tra cui: Armi di pace (Il laboratorio, 2005); Da Napoli/verso (Kairos edizioni, 2007); Il miele del silenzio (Interlinea, 2009); La disarmata (Cfr edizioni, 2014). Sue note critiche e poesie sono presenti in numerose riviste e litblog. Ha pubblicato i poemi Il margine di una città (Il Laboratorio, 2008); La neve (Fara, 2012), vincitore e finalista di diversi premi nazionali; La zona rossa (Il Laboratorio, 2015), con prefazione di Aldo Masullo e tavole di Pasquale Coppola. È redattore di Poetarumsilva.
[ Auto-antologie prosegue con Francesco Filia e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada e a Vincenzo Frungillo . Sul lavoro di Filia è possibile leggere un mio intervento qui.
L’idea di curare delle micro-auto-antologie risponde al desiderio di tratteggiare una direzione, un possibile senso -anche solo accennato-del percorso di autori che hanno raggiunto, a mio avviso, una prima maturità letteraria. L’autore è invitato a guardarsi indietro e a ricostruire emblematicamente le fasi del suo lavoro, proponendo a tal fine anche una pagina di auto-presentazione e una scheda bio-bibliografica. Nel flusso incessante spesso vitale ma anche caotico della rete credo che siano utili dei momenti come questo di coagulo, di rallentamento.
Continuo in altra forma il lavoro iniziato con la rivista on line Poesia da fare (2005-2007) insistendo ancora sul rallentamento e sulla sedimentazione. Gli autori che invito ad auto-antologizzarsi sono poeti che, per il mio gusto, illuminano , da particolarissime prospettive, il nostro tempo, individuando, spesso con spietatezza, i rapporti di potere nei quali siamo invischiati o quelle semplici evidenze esistenziali che si tendono a rimuovere.
Qui il lavoro sul linguaggio poetico non è fine a se stesso ma è teso a rendere più efficace la configurazione intensa di un’esperienza umana ed estetica radicata in realtà per lo più condivise, comuni. Questo è anche ciò che intendo, almeno ora e provvisoriamente, per “poesia di ricerca”.
In un’epoca in cui sembra che le soggettività reali perdano sempre più la possibilità (e anche il sogno) di decidere del proprio destino, in una generalizzata precarietà e ricattabilità, l’espressione poetica pare moltiplicarsi, anche grazie alla rete, e offrirsi come un luogo speciale di pensiero, di creazione e di relativa socializzazione.
Moltissimi scrivono ciò che ritengono in buona fede “poesia” e la “postano” anche per questo, cercando e spesso trovando il consenso e la reazione dei propri “amici” di rete.
La valutazione dei risultati estetici poi dipende ovviamente dal gusto, dalle esperienze e dagli orientamenti culturali del lettore. B.C.]
davvero un’ottima iniziativa, Biagio, grazie e vai avanti.
un bel lavoro, Biagio, quanto alla scelta di aprire con Francesco Filia, Francesco Tomada (il link alla pagina non si apre, deduco che forse deve ancora essere pubblicata, o mi sbaglio?) e Vincenzo Frungillo, non posso che essere d’accordo con l’orientamento dei tuoi gusti come critico e lettore di poesia. Credo proprio che sia una terna che si distingue a pieno titolo e diritto. bene!
Cara Natalia, grazie. Ho corretto il link alle pagine di Tomada, ora dovrebbe funzionare.
Sulle direzioni e il senso di questo lavoro delle auto-antologie qualcosa ne ho scritto (e detto) qui:https://poesiadafare.wordpress.com/2016/03/09/sulle-auto-antologie-di-poesia-che-curo-per-il-blog-nazione-indiana/
Si, si tratta di convenire o meno con un certo gusto e un certo orientamento culturale e letterario…L’importante credo sia tendere ad esplicitare i propri paradigmi quanto più è possibile, in uno sforzo anche di auto-chiarificazione. La lettura critica è soprattutto ritengo uno sforzo interpretativo e, insieme, di auto-chiarificazione. Spero di approfondire sempre di più le ragioni che mi portano a fare delle scelte estetiche. Anche questo è un lavoro indiretto di conoscenza di sé, sia pure molto parziale, e di giudizio sul mondo, sia pure a partire da questioni apparentemente “marginali”,come quelle poetiche.
Un caro saluto,Biagio
Ringrazio Biagio Cepollaro per lo spazio datomi e per il suo lavoro prezioso. Anch’io, come lui, ritengo che lavorare sull’esplicitazione dei presupposti del proprio operare poetico sia fondamentale e possa aprire ad un orizzonte in cui la parola poetica sia sempre più intelligenza critica; solo così, a mio avviso, essa, in prospettiva futura, potrà uscire un po’ per volta dalla sua condizione di marginalità, aprirsi nuovamente alla comprensione radicale del nostro stare al mondo e quindi alla sua originaria funzione veritativa ed estetica.
@Natàlia grazie come sempre per la tua attenzione e per le tue parole.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2016/03/15/auto-antologie-2-francesco-filia/ […]
[…] alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada , a Vincenzo Frungillo , a Francesco Filìa e a Viola Amarelli. Sul lavoro di Eugenio Lucrezi è possibile leggere un mio […]