Andy Violet – L’eroe semantico e lo scrigno del silenzio
di Daniele Ventre
Ti chiederanno
di questa poesia
di trovare le parole-chiave
cerchiarle e sottolinearle
poi di fianco
raccoglierle e elencarle.
Quando però ne avrai un bel mazzo
raccolto in un sonante passe-par-tout
ti accorgerai
provando e riprovando con premura
che girano sempre a vuoto
le parole-chiave
dentro ad un silenzio-serratura.
Così recita parole-chiave, uno dei testi meta-poetici più pregnanti della silloge l’Eroe semantico di Antonio Cretella/Andy Violet, a cui concretamente l’appellativo di eroe semantico, da lui stesso coniato anni fa come calembour, è stato poi, fra rimpalli da web a carta stampata, quasi espropriato e ricucito addosso con altra più limitata e limitante connotazione in un articolo del Corriere del Mezzogiorno, a firma di Olimpia Rescigno, datato al 16 maggio 2011, ai tempi ormai mediaticamente offuscati dei morattiquotes e della campagna elettorale milanese Moratti-Pisapia, di vecchia memoria cronachistica. Insegnante tormentato, come sono stati tormentati a vario titolo e con vari danni professionali molti insegnanti (incluso l’autore di questa prefazione), dalle politiche di riforma dell’istruzione, poeta, costruttore fra italiano e latino, fra docenza e letteratura, di piccoli ordigni verbali a spoletta ritardata, l’eroe semantico che si cela dietro questi versi, e dietro le altre poesie della raccolta, gioca qui sull’idea di parola-chiave, e sulla prassi scolastica, da didattica non aggiornata, dell’analisi del testo di façon strutturalista.
Il gioco porta a una prospettiva rovesciata, quasi da foto in negativo, del rapporto silenzio-parola, verso-spazio della pagina: in tale rovesciamento dialettico dell’ideologia ermeneutica dominante della critica letteraria –l’interpretazione del testo e delle sue tematiche attraverso il Leitwort –il testo stesso in apparenza sbiadisce, e le sue voci, vòlte in teoria a scardinare le porte dell’inarticolato, secondo una abusata citazione eliotiana, appaiono contenere, nel loro zanzottiano piacere del principio, un simultaneo, e polemico, piacere della fine. Il dantesco provare e riprovare dell’interprete –hypocrite lecteur, lettore ipocrita in quanto si inganna e inganna nella sua compiacenza di fruitore hypocritès, attore/interprete dei versi di fronte a sé stesso –si cortocircuita così, nel suo girare a vuoto, in looping, in un un rumoroso chiasso verbale scatenato invano sui “silenzi-serratura” di contorno, che il testo semina nel suo ambiente visivo e uditivo per differenziarsi dalla pausa enunciativa e dallo spazio bianco del foglio. Quest’ultimo si muta in rappresentazione visiva del rumore bianco, un assordante silenzio della pagina da torturare maieuticamente: lo scrivere in versi si fa così De-scrivere, come recita il testo che segue immediatamente Parole chiave, e come stabilisce l’ulteriore, connesso gioco di destrutturazione verbale, in cui il preverbio de- perde la sua funzione resultativa e intensiva, per riconnotarsi come privativo. L’atto della composizione di versi si riqualifica in tal modo come sottrazione dell’atto dello scrivere, sottrazione del dettaglio, sottrazione della scrittura dal suo oggetto (il tu lirico dell’interlocutore del poeta) e sottrazione dell’oggetto dalla sua scrittura. Questo de-scrivere, atto complementare, fissato in grafemi, dell’aurale silenzio-serratura, si manifesta come supremo atto poetico, nel senso originario del termine, di gesto creativo e fattivo: la de-scrizione/de-scrittura materializza carnalmente una presenza fisica da estrarre viva fra le macerie della pagina bianca, di per sé lasciata a morire di parto, stracciata e stanca.
Siamo qui di fronte al rovesciamento di un altro totem filosofico e critico (stavolta post-strutturalista e decostruzionista, proprio della vulgata derridiana), originariamente innovativo ma ormai immiserito e incancrenito anch’esso in ideologia dalla prassi dell’ermeneutica e della scrittura normale: l’immagine della cartolina postale, del segno, de-oralizzato e impresso su pagina, che rimanda a mero segno, della letteratura come comunicazione fra assenti. Nel tempo della chenosi ontologica ammantata di parola proliferante, la duplice esquisse metapoetica di Parole chiave e De-scrivere addita la possibilità di una chenosi, o meglio di un negativo, verbale, a rievocare l’obliterata forza del concreto.
Nel contempo, come paradossale e necessario portato di questa coerente impostazione di fondo, in cui il duplice totem novecentesco di struttura e decostruzione viene cassato e consegnato alla storia, la forma espressiva riguadagnata dalla poesia dell’eroe semantico è caratterizzata da un rinnovato rigore formale, con la rinascita di forme chiuse che già appartenevano ad alcune aree della poesia del secondo Novecento (è il caso di alcune prove dei novissimi, e più tardi del gruppo ’93), ma qui assumono un nuovo fine comunicativo. Non abbiamo più la superfetazione ironizzante tipica di Sanguineti, né la riscoperta in positivo e la rimodulazione di funzioni e potenzialità espressive delle forme chiuse, tipiche di un Frasca; si assiste invece all’orecchiamento del modello, in una dimensione fonica al limite fra l’atonalismo à la Raboni e la regola. Basti aver presenti a titolo di esempio gli endecasillabi del sonetto incipitario, L’eroe semantico, in cui la legge di Bembo è mantenuta, ma ci si aggira nel contesto di una ritmicità di canone marginale: si pensi a versi con accenti di quarta e quinta sillaba come: “per non avèr[e] àltro che lo spessòre”, o al trattamento estremo, da verso comico del teatro tardo-rinascimentale, delle sinalefi e delle dialefi. In parallelo, la forma stilistica della poesia dell’eroe semantico è tramata di rivolgimenti verbali, riarrangiamenti morfemici, ridefinizioni funzionali, figurae etymologicae e false etimologie, bisticci e quant’altro giova alla creazione di una trama ecoica dal potere fortemente evocativo, grimaldello per scassinare l’ostico scrigno del silenzio-serratura, forcipe per estrarre vivo dalla pagina morente il nascituro e salvarlo dall’avello dell’assenza. Si squaderna così al nostro orecchio un apparato di tesori retici (ed eretici) proprio di chi ha ascoltato “tutto lo spettro dell’udibile” (Decibel); la parola riguadagna in parte, sia pure per caso, nell’inopinato addensarsi iconico del fumo in una “sala fumatori”, una sua materialità creatrice:
Nella sala fumatori
si poteva vedere la forma delle parole
quando uscivano dall’inferno
dei polmoni in fiamme…
Una volta che questo meccanismo magico, poetico e poietico si innesca, il rovesciamento di rapporto fra la realtà extratestuale e la vita fittizia del personaggio letterario, un topos ricorrente e scontato nella letteratura moderna, assume un significato inedito e l’opposizione fra testo e rumore bianco si ridefinisce come stacco netto della poesia rispetto al rumore bianco del quotidiano e dell’esistente, mentre l’atto maieutico operato sulla pagina dal poeta viene riassestato nel suo ruolo specifico di fulgurazione da creatore in limine: “Essere uomo è un dono che non voglio:/ meglio essere opera di uno scrittore…” godendo del privilegio ontologico indubbio di non soffrire delle sbavature che l’esistere fisico si porta appresso, “vantaggi derivanti/ dall’essere figura senza ombra”.
A questo scopo di creazione e ricreazione, di scassinamento e parto estetico risponde in ogni caso, a un livello ultimativo, la necessità di restaurare e di “fare il silenzio” autentico attorno a sé:
Il mio silenzio è invaso dal rumore
di tutti quelli che a gran voce chiedono
silenzio.
“Fai silenzio”, mi ordinano
e io non so di che farlo:
La carta fruscia, il metallo stride
la carne geme.
Di cosa si fa il silenzio?
ho chiesto sommessamente,
ma loro, soltanto,
gridano di non gridare
e urlano di non urlare.
L’opposizione silenzio/voce, o più genericamente silenzio/rumore, finisce qui per acquisire un ulteriore tratto. Il silenzio imposto dalle circostanze sociali del fare poesia inquinano il silenzio del poeta, un silenzio naturale fatto di rumori spontanei che costituiscono l’ecosistema equilibrato dell’eco delle presenze del reale: tale ecosistema appare inquinato da voci che sono estranee alla sua naturale omeostasi. A questo più profondo livello di introspezione, il silenzio del poeta, il silenzio serratura scassinato, la pagina bianca lacerata dal parto, si viene configurando come una sorta di ecologia della presenzialità della voce, intorbidata da presenze improprie. Di fronte a queste presenze improprie la voce del poeta si tempra in un esercizio permanente, fra il mantra e il grido primordiale, in una sorta di ascesi dissimulata che è anche progressivo annullamento, come sembrano suggerire i versi di Raucedine:
Bisogna innanzitutto urlare
una per una tutte le vocali
senza articolazioni, solo aria
che striscia e scintilla nelle guance
come i freni su rotaie in corsa.
Fermarsi, poi, a un passo dal silenzio
quando queste non saranno
più le nostre voci,
ma tuniche sfibrate e logore
raucedine lacera e sabbiosa:
solo allora potremo occultare
nel fragore del respiro che resta
un impercettibile addio.
In questa fusione/confusione fra poetica, forma della parola e slancio vitale, còlto dalla sua prima articolazione al suo ultimo esaurirsi, si condensa in definitiva l’opera dell’eroe semantico, che come ogni eroe, dopo le sue fatiche e le sue vicissitudini, spesso misconosciute, è votato in qualche forma al sacrificio e alla morte iniziatica che ne consegue.
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Poesia della dissolvenza…
Impostare e condurre un discorso meta-poetico è a mio avviso sempre rischioso, ma in questo caso l’autore si fa da parte con eleganza e sembra riuscire nel suo doppio intento (anti)ermeneutico, nell’auto-sabotaggio po(i)etico. Mi sarebbe piaciuto leggere anche qualcosa che richiamasse più da presso e per intero il “rinnovato rigore formale” della prefazione. Ad ogni modo, un’operazione non da poco. Molto interessante, davvero.
silenzio imposto dalle circostanze sociali…..morte iniziatica….mantra e grida grimaldello…rumore bianco….macerie della pagina bianca….??????????