“Gli Orfani” di Davide Nota: 2 estratti, una conversazione
di Davide Nota
Le prime chatroom del Novantanove, ricordi?
Quando sperimentammo la verità di esistere come puro pensiero. La scuola persisteva. Ritornavamo all’interfaccia spaziotemporale come da un viaggio segreto nelle regioni della simultaneità. Tutti erano pazzi e parlavano indossando antiche maschere di pixel e rovi. Quando tutti fingono, quando tutti sono sinceri. Ma è finito anche quel tempo.
L’epoca impone riconoscibilità e socievolezza. Nessuna tragica confessione, nessuna ricerca del carnefice ululando tra gli alberi infiammati, velo dopo velo: APERICENA E REALTÀ. Il presente ha vinto. Il commissario tecnico dell’infelicità.
Questa città barocca non mi convince. A Roma avevo trovato una liturgia più chiara. Dalla casa al supermercato; alla palestra. Ascoltando Eminem in MP3. Via Pisana, Bravetta e infine Corviale, Corviale, muto enigma, Gautama, enorme OM di moto costeggianti il serpentone.
Oggi turisti sgambettanti festeggiano la grande Restaurazione. Un’allegria si espande tra i coriandoli esplosi da un vetusto marchingegno di scena. Ragazze scintillanti mi chiedono: “E tu, ti senti SPECIAL?”. Ma è tutto già accaduto.
La banda allegrotta suona musica popolare.
Solo si erge nella sua onestà un McDonald, a consolarmi da tanto ottimismo. Mi avvicino a leggere il menù ed è quello di sempre. Ragazzi privi di aspettative mordono timidamente panini. Hanno sorrisi più miti. Dunque parlano ancora di zii o di quel viaggio a Costanza nel duemilatre? Oh, cari…
Tifo declino come preludio al grande avvento degli spiriti del Sud. Gli alberi ondeggiano a uno stesso vento inoltrandosi messaggi di alleanza. I larghi boschi attendono il passaggio ed io sono con loro.
Nel fiume di gente mi sciolgo e il mio corpo è una voce che dice: Euridice…
[…]
*
[…]
Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato.
Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera.
Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra. Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà ucciso e si farà cardo.
Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore ed ora l’incanto è finito. Ci ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti aspetto. Tuo.
Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro per le pagine secche di un diario.
Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante. La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare, negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente.
Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi; il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare le tubature del termosifone o mordersi una mano.
Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco, dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso. Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava Silvia tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane.
Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni sinceri e delle prime scoperte: Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani di forbice…
Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi.
Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare a ritrovare l’UFO con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli.
Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza, la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare.
Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava come un trofeo esibito al cielo.
Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni sono bellissimi ed è un vero peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica. E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti.
Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato. E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso.
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Estratti da Davide Nota, Gli orfani (Oèdipus 2016)
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La verità si manifesta giocando. Conversazione con Davide Nota.
di Mario Di Vito
Quella che segue era nata come unʼintervista, poi però ci siamo persi in chiacchiere. Mi succede sempre quando ho a che fare con Davide Nota: parto con un progetto più o meno preciso e finisco da tuttʼaltra parte, non saprei nemmeno spiegare precisamente perché. La stessa cosa, dʼaltra parte, mi era accaduta anche la prima volta che ho incontrato Davide. Sono passati diversi anni ormai: ai tempi ero un giovanissimo cronista che si occupava per lo più di morti ammazzati e processi (mi occupo ancora delle stesse cose, solo sono un poʼ meno giovanissimo) e la mia capa di allora mi disse che avrei dovuto intervistare questo poeta locale a suo dire molto interessante. Ci incontrammo nel retro di un bar ascolano che ora non esiste più e ricordo che tornai in redazione piuttosto brillo e con un pacco di appunti disordinati e sostanzialmente privi di continuità. Non ricordo cosa scrissi di preciso però nel pezzo definii Davide un «agitatore culturale», temo che non me l’abbia ancora perdonato.
Questa intervista – chiamiamola così – è lʼennesimo atto di una chiacchierata che va avanti da anni. Almeno però stavolta siamo partiti da un punto preciso: il suo primo libro di prose, Gli orfani, uscito poche settimane fa per i tipi di Oèdipus.
Allora, cominciamo con una domanda semplice: dopo tanti anni a scrivere poesia sei passato alla prosa. Non dire che si tratta della stessa cosa e che sono comunque due mezzi e non un fine, è un passaggio abbastanza epocale in una vita artistica. Da cosa è nata questa esigenza (se si tratta di un’esigenza)? E cosa trovi di diverso tra il Davide Nota che scrive poesie e il Davide Nota che scrive prose?
Al di là del fatto che la mia prosa nasconde un numero considerevole di versi, la risposta è abbastanza semplice. Questo libro nasce come un flusso di coscienza involontario, un fiume emerso per esigenze private e direi fisiologiche, su alcuni quaderni che mi portavo dietro, in zaino, durante una massacrante stagione lavorativa in un caseificio laziale dove ho passato alcuni mesi di prigionia nel 2012. Lavoravo dalle sei della mattina alle venti di sera, a volte sette giorni su sette, e la scrittura era il solo modo che conoscevo per sfogare le energie in esubero determinate da tale condizione di surrealtà, che poi è la norma attraverso cui la mia generazione talvolta ha un salario. I miei momenti compositivi erano dunque limitati alle pause pranzo, che passavo seduto su un marciapiede di fronte a un piccolo bar, tra la campagna e via di Bufalotta, e ai ritorni in autobus, a sera, che duravano allʼincirca unʼora e mezza. Le scenografie dei racconti di fantasia, allora, erano composte da elementi reali del paesaggio che poi andavo animando di presenze e voci, di alter-ego e fantasmi, di significazioni post-apocalittiche o fantastiche, come in un gioco autistico di bambino. Altre erano invece ricordi, memorie involontarie. Altre sogni o visioni, altre realtà quotidiana vissuta altrove. Questa fonte che emergeva da sé, me nonostante, come scrivo nel racconto “Il ritorno”, che è un ritorno a casa da lavoro ma è anche un ritorno allʼesperienza interiore, chiedeva di emergere in prosa. E se anche sgorgavano endecasillabi o settenari, questi diventavano poi frasi, le pagine si allagavano e io semplicemente ho assecondato questo allagamento, senza alcun progetto che non fosse quello di assistere in prima persona ad un evento estetico di cui non avevo padronanza alcuna. E il libro così si è scritto, in uno stato febbrile e diciamo di trance reale, da stanchezza fisica, nelle forme di una prosa musicale piena di fraseggi metrici, rime e assonanze.
Dʼaltro canto è pure vero che lʼambiente poetico italiano mi pareva così accademico e a me distante che non vedevo da tempo lʼora di “cambiare lingua, cambiare linguaggio”, come scrivo a un certo punto del racconto “Dana”, dove si rivela il mio alter-ego. “Uscire! Uscire!”. Ma non potevo deciderlo, dunque ho aspettato che accadesse.
La figura degli Orfani ricorre spesso, comunque, nella tua produzione. Perché?
Il concetto di orfanità è tragico e complesso e la sua profondità da sempre mi coinvolge e commuove. Può essere proiettato su più piani, dallʼindividuale allo storico, dallʼesistenziale al politico, dal filosofico al teologico. Io mi sento orfano di molte cose. Abolita la realtà, è svanito anche il sogno. Siamo tutti orfani, tanto di Apollo che di Dioniso.
Si è evoluto il tuo concetto di «fantasy no gender», già espresso su Nazione Indiana tempo fa?
La definizione di “no gender” è stata purtroppo degradata dai tradizionalisti del “Family day” che ne hanno fatto il loro slogan orrendo. Io quando lo significavo su “Nazione Indiana”, nel 2013, parlavo di rifiuto della generialità, di onni-generialità. Questo si riferiva ai canoni del maschile e del femminile, che riguardano lʼeros e non di certo la sessualità, come studiare Bataille potrebbe aiutare forse a comprendere, ma anche ai canoni letterari, nel rifiuto della separazione tra prosa e poesia innanzitutto, o tra scrittura colta, autoriale, e quella di genere. Per questo quando scrivevo i miei primi racconti di fantasia, che riusavano alcuni standard della narrativa pop così come nel jazz si riusa uno standard da cui affacciarsi per lʼimprovvisazione, per il guizzo, avevo elaborato questa definizione. Poi il libro si è sviluppato e la realtà è tornata ad essere il corso centrale della storia, le digressioni fantastiche sono divenute così i sogni di Jan, questo alter-ego che al posto dei libri di poesia ha i fumetti.
In più momenti della narrazione affronti temi, per così dire, «di genere»: menage a trois, «io sono lesbica» e così via. Credi che sia possibile azzardare una lettura politica della questione o è solo fiction?
Non è solo fiction, è realtà. E la realtà è sempre politica essendo in conflitto con le istituzioni deputate a normarla. Lo Stato è il conscio, che rimuove e reprime, o maschera nelle forme canoniche del compromesso e dellʼipocrisia. La poesia è un inconscio che insorge musicalmente e dice: “Eppure esisto”. Non solo. La poesia, se non vuole essere sostitutiva della vita, è un invito al viaggio fisico, un diario di bordo dellʼesperienza che chiama ad essere provata. Che questo avvenga in maniera allegorica o realistica, calda o fredda, non è il punto. Né il punto è essere aggiornati alle estetiche delle capitali del Capitale, come Baudelaire dimostra. Il punto è lʼoggetto scoperto che il testo vela. Quello sessuale è lʼoggetto sacro per eccellenza, connesso allʼordine delle civiltà e mai quanto oggi è lʼoggetto politico di un contendere globale. In questo prendo parte e milito, come nella scena dellʼamplesso fraterno sopra lʼaltare di una Chiesa crollata.
Nei racconti – che bisognerà poi stabilire se sono separati oppure se hanno un senso anche se messi in relazione tra loro, in modo da formare una specie di stralunato romanzo – si mischiano pezzi di vita passata, il presente e qualche idea di futuro, insieme a situazioni di fantasia, sogni, incubi e ”svarioni”: sei in grado di dire dove vuoi arrivare?
Scrivendo, perlomeno per quanto riguarda la mia esperienza personale di scrittura, ché ognuno ha la sua e lʼuniverso è grande abbastanza per contenerci tutti, non si vuole arrivare ma si arriva, come in un sogno. Le cose accadono. Ora che lʼopera è conclusa e la guardo come un oggetto esterno posso dire dove sono arrivato. Sono arrivato a Jan, a questo ritratto schizofrenico di un inconscio generazionale composto da molti strati, da infiniti veli, come ponendo una radiografia sopra la pagina di un Dylan Dog, sopra la lettera di un ragazzino in fuga, sul finestrino di un autobus che riflette il tuo volto e incornicia, anche, un frammento orfico di città e di crisi. Siamo complessi e composti da molti livelli. Gran parte del nostro immaginario è determinato, tanto dai fumetti dellʼadolescenza, quanto dalle letture della maturità, o dai ricordi dellʼinfanzia, dallʼeducazione familiare o dal sistema di comunicazione. Sopra questo fondale, che è come un filtro ottico sovrapposto alla realtà in atto, cʼè la coscienza che risuona, il pensiero fonico ed il dubbio filosofico che brucano la scenografia storica e la rivelano infondata. Sono arrivato a questo labirinto, a questo mosaico che chiamo auto-ritratto anche se lʼio narrante non coincide sempre con lʼio biografico, cioè l’autore implicito è un impasto di realtà e fiction. Ma la volontà comunque non cʼentra. Sono arrivato qui casualmente, cadendo.
C’è, in tutta la tua poetica, un filo che non si interrompe. Mi spiego: tu raramente parli per immagini e raramente ti abbandoni al lirismo. Più spesso parli di sensazioni, di umori, odori, sapori. Cioè, se dovessi parlare di una botta in testa non la racconteresti, cercheresti letteralmente di infliggerla al tuo lettore. Alla fine de Gli orfani, in effetti, sembra di aver preso una botta in testa e si va a rileggere alcuni passi (almeno a me è successo così) per cercare di capire quand’è arrivata, questa botta. Non è una domanda, è una mia impressione. Sei d’accordo? Stavi cercando di darmi una botta in testa?
No, infatti, stavo cadendo e per sbaglio ti ho colpito. Scusa.
Sul linguaggio: fai un gran minestrone di termini aulici, slang moderni, linguaggio discorsivo, inverti l’aggettivo con il sostantivo. Quanto conta il lavoro di limatura in un processo del genere? In altre parole: ti esce direttamente così o ci devi lavorare come un artigiano?
Il magma musicale esce direttamente in stato di trance, il lavoro artigianale invece consiste nella selezione e nel montaggio degli elementi. A volte di una prosa resta solo un frammento che viene incastonato in un testo nuovo. Come la Quercia del fauno che divora il masso e lo trasforma in altro. Era un masso, adesso è diventato una soglia.
Politicamente, comunque, ne esci come un anarco-insurrezionalista. In altri anni qualcuno avrebbe invocato la censura.
Non credo che oggi ce ne sia un gran bisogno dal momento che nasciamo silenziati. Possiamo ambire, però, a insorgere in noi stessi. A rifiutare lʼirrealtà del cosiddetto reale, lʼabitudine al pensiero che secerne ripugnanze, come definisco nel libro il tradizionalismo. O come dice il mio fratello e amico Stefano Sanchini, poeta di Pesaro: “Aspiro ad essere / lʼanello malato della catena di montaggio, / aspiro alla solitudine e allʼingiuria…”.
Ad ogni modo, politicamente sono un libertario comunardo, dal 1848 parigino al 2001 di Genova, per la confederazione leopardiana delle solitudini e contro la massa socializzata e morale. Odio il moralismo più dellʼindifferenza.
Come credi si inserisca Gli orfani nell’attuale narrativa italiana? Non nel senso di mercato letterario o di «filoni», ma proprio in quella che possiamo chiamare «storia pubblica dell’Italia contemporanea». Mi spiego meglio e in maniera più semplice: come vivi la contemporaneità?
Mi sento molto solo.
Se qualcuno dovesse portare Gli orfani al teatro dovrebbe riesumare il mai troppo celebrato genere della farsa. Hai pensato a un’eventualità del genere?
No, però mi piace il riferimento. Il tragicomico e il grottesco sono cifre estetiche in cui mi riconosco. Questo continuo sgambetto del sentimentale che si rende ridicolo esasperando la posa, del filosofico che gioca tra il sublime e lʼosceno, perché la verità si manifesta giocando. Fingendo di mentire.
I commenti a questo post sono chiusi
L’orfanità è qualità proprio dell’essere indefiniti.
“Siamo tutti orfani, tanto di Apollo che di Dioniso.”
Vorrei dire per fortuna. Un caro saluto Davide.
“La poesia è un inconscio che insorge musicalmente” …chapeau!
Con i tempi che corrono un operaio che fa 12 ore non vale nulla tranne che per se stesso, fortuna che l’universo è in espansione.
…spesso ho letto che andiamo incontro ad un processo di frammentazione con un’accezione decisamente negativa. L’immagine dell’essenza umana che si compone di più livelli è invece una frammentazione con un’accezione positiva nella misura in cui frammenta l’intero solo per vederlo nella totalità dei suoi molteplici colori e sfumature…grazie! :-)