THE REVENANT [2015] Purché sia acqua

[ lezioni americane ] – in Spotlight vengono denuciate senza mezzi termini le violazioni dei religiosi sui corpi di bambini – nessuno può dirsi innocente ⇨ nel “teatro del mondo” di The Hateful Height – e la vendetta porta all’autodistruzione e all’estremo – forse inutile – sacrificio ugualmente in The Revenant – ma è proprio sui corpi fisici degli attori – infrangendo la levigata – la patinata idealizzazione di una bellezza perfetta – che ci arriva una lezione di cinema – di vita e di etica dell’arte – di senso profondo – Daisy di Janet Jason Leigh è “bellissima” per tutto un film nella sua bruttezza ricoperta di graffi – lividi e sangue&vomito – persino Charlize Theron in un frenetico e visionario Mad Max: Fury Road – rasata a zero con un braccio ridotto a moncherino lotta contro dei tiranni freaks e deformi e conclude il film pesta e con un occhio semichiuso – Brie Larson in Room senza trucco – trasandata e fragile – è prigioniera con il suo bambino nella stanza maleodorante dove è stata rinchiusa per anni dal suo rapitore – e anche in The Martian tipica storia americana in cui per “la gloria della nazione” un cosmonauta viene salvato in extremis dopo essere stato abbandonato su Marte – Matt Demon si trasforma in un buon selvaggio sporco – barbuto e puzzolente che coltiva patate fra i suoi escrementi – Leonardo Di Caprio arranca strisciando martoriato di ferite – fra fango e sangue e acqua – solo nella maestosa terribile bellezza della “natura rossa” – grugnendo ogni tanto qualche parola sconnessa – nè più nè meno dell’orsa che lo ha aggredito riducendolo nel fin di vita da cui dovrà tornare “redivivo” – lo stesso girare questo film diventa per il cast una specie di “via iniziatica” – di prova di coraggio e di sopravvivenza – e sicuramente arriva a investire delicati meccanismi emotivi negli attori prima e nel pubblico di conseguenza – ed è proprio da questa sfera di rimandi emozionali che partono gli appunti di Anna Tellini su The Revenant attraverso Tarkovskij e Rubèn Gallego e l’Ivan Il’ič di Tolstoj – [ Orsola Puecher ]


 


 
di ⇨ Anna Tellini

Prologo

Dialogando fitto col proprio tumore, un regista apre il suo ultimo film con
 
un uomo e un bambino che innaffiano un albero morto.
 
Una sequenza di “Sacrificio” che non mi ha dato scampo, e per decenni mi ha scavato dentro.

Antefatto

Tarkovskij ero – molto faticosamente – riuscita a farlo venire nella mia università a parlare di “Nostalgia” (allora in fase di montaggio) e del suo cinema, ma, come spesso capitava coi russi, mi trovai ad ascoltarlo profetare. Sul declino ineluttabile dell’Occidente, orfano di spiritualità, in primo luogo: un piccolo-grande “scontro di civiltà” ante litteram?
 
L’uditorio, all’epoca, non potè tollerare che qualcuno, per di più venuto da una terra di barbari, si ponesse con fare così sprezzante, e l’incontro si trasformò in un ring.
 
Fu allora che toccai con mano il potere vero della traduzione: l’interprete ero io, e – omettendo se necessario, smussando con generosità – riuscii a far rispettare perlomeno i codici del gioco.



 
Dal documentario-saggio di Chris Marker
Une journée d’Andrei Arsenevitch [1999]


 

Atto I

Sono io? Sì, sono io.
 
Dalla vecchia cassetta, insondabilmente non smagnetizzata, la mia voce mi ritorna tranquilla: parole scandite ad arte, dizione esemplare, tono di chi sa il fatto suo. Le mie riserve istrioniche soccorrono il pre-coma emotivo che mi fiorisce dentro.
E’ un giorno del 1983, l’aula magna della mia facoltà è strapiena, ed io sto per giocarmi l’onorabilità, se mai ne ho avuta una: Tarkovskij ha cominciato a parlare…

Atto II

Sono io? Sì, sono io.
 
Oggi – qualche giorno fa.
Nessun aplomb – vero o interpretato, stavolta. Accavallo e scavallo le gambe, assetate di fuga. Mi copro il viso – gli occhi però no.
Mi afferro la nuca – come a sostenermi.
Davanti a me, una fila di adolescenti imperturbabili mi attesta i numerosi gap generazionali sopravvenuti.
Un’orsa ha fatto irruzione sullo schermo Flagranza di artigli.

 
1orsa 2orsa
3orsa 4orsa

Hugo Glass ne è squarciato. Ora è una bambola inerme. Ma urla gorgoglia si contrae
in un vasto supplizio di disintegrazione.
Squarci trionfanti a scoprire ossa e interni grovigli. Evidenza scandalosa del soffrire.
Sangue secrezioni umori poco ostensibili. Nulla ci viene risparmiato.
Sto guardando un film, che – fatto per me ben più micidiale – deve molto a Tarkovskij.
Con un anacronismo per me saturo di tempo e imperioso quanto la marmellata di susine che aveva catapultato il tolstojano Ivan Il’ič ai giorni della sua infanzia, “Revenant” di Iñárritu mi rimaterializza ormai ben labili assenze come la fu Unione Sovietica e un regista con essa in irrimediabile rotta di collisione. E ogni cosa si permea di emozioni, e tutto riprende corpo, sensorialità e peso.
Pensare che sto solo guardando un film – anche se deve molto a Tarkovskij.
La stessa ossessione dell’acqua. Acqua ghiacciata, sgocciolii, acqua violenta dal cielo. Alito che si condensa.

 
 
 
 


Un’acqua forse neanche trasparente si fa strada aggressiva tra radici nodose, ribolle, e noi siamo lì, vicinissimi, anche se magari non sappiamo dove, la vista ingombrata dai vapori.
Il peso dell’acqua e la fatica di affrontarla.
Acqua che qualche volta salva, ma più che altro espone. E poi trascina un corpo già abbondantemente trafitto ai suoi aguzzini finali.
Onirici quasi, in essa appariranno degli alci, immagini creaturali sì, ma qui soprattutto cibo che sfuma alla presa, prima che alla vista.
Acqua che disseta, e che nasconde.
Acqua che ostacola, oggetto intrattabile che obietta e che resiste. Epperò da attraversare: durezza e rischio.
Densità e vischiosità. Astuzia dell’acqua.
Doti trasformative, contenitive: ostensione velata di corpi e presenze ambigue, di creature che non appartengono più del tutto al mondo di sopra.
Malinconia dei corpi.
Altri occhi, più sapienti dei miei, hanno nel frattempo scandito a regola d’arte i debiti di “Revenant” con Tarkovskij, inquadratura per inquadratura. Per me è stato più semplice, a dirmelo è stata la memoria del corpo.

 

 
Vicissitudini del corpo del protagonista. Hugo Glass striscia. In ⇨ un video di anni fa, anche Rubén Gallego striscia, e lo fa con consumata leggerezza, e lo fa con un’abilità preclusa ai più, in una sorta di visione orizzontale del mondo. Come in un’inquadratura fedele all’acqua.
E le immagini si moltiplicano, come in un’arcana, e molto privata, liturgia della resurrezione.

 

Epilogo

 
Una volta a casa, resuscito la cassetta sopravvissuta a traslochi e peripezie di varia portata, un terremoto incluso, e mentre ascolto, ritrovandola dentro di me, la voce di un Tarkovskij redivivo che riprende a profetare, mi preparo una minestra: calda, fluida, rassicurante, ad essa, penso, lo stomaco, anche se un po’ contratto, non si opporrà.
Un cibo-bambino, come quella marmellata di susine che aveva accompagnato gli ultimi giorni di Ivan Il’ič, consigliere di Corte d’appello.

 

CONNESSIONI
(a mo’ di poscritto)

 
Come in un gioco di imprevedibile assonanza, alle spalle de La morte di Ivan il’ič (1882-1886) di Lev Tolstoj, e di Bianco su nero (2002), sorta di autobiografia di Rubén Gallego, possiamo, forse, azzardosamente vedere due eventi lontani – e non solo nel tempo -, ma di eguale, e inaudita, corrosività.
Se nel 1881 l’assassinio di Alessandro II, zar di tutte le Russie, non commosse il “grande vecchio”, ne rese però irreversibile la conversione mistica, l’insofferenza per la follia dell’abituale, per l’inerzia del buonsenso nella vita quotidiana.
Dal canto suo, Gallego approfitterà del disordine generale innescato dalla perestrojka per fuggire dall’ospizio dov’era rinchiuso, tornando dai mondi a parte – istituti per disabili, centri chiusi, centri segreti – dove di volta in volta lo avevano internato in attesa della morte prevedibile per chi, come lui, era marchiato da un handicap grave. Nel suo caso, una paralisi cerebrale alla nascita: anche se, come rivendicherà una volta libero, “con l’indice della sinistra posso scrivere al computer, nella destra ci si può infilare un cucchiaio e mangiare normalmente” [Adelphi 2004, p. 131].
Niente di tutto questo, va da sé, nell’esistenza un tempo addirittura brillante di Ivan Il’ič, non fosse che essa ci viene data retrospettivamente dal punto di vista della sua morte, a sua volta raffigurata dall’interno , dal punto di vista della coscienza del morente. E allora grado a grado tutto si sgretola nei toni della menzogna e del disvalore. E’ qui che, mano a mano che Ivan Il’ič sprofonda nelle vicissitudini del corpo, la marmellata di susine, madeleine proustiana ante-litteram, anche se di materia più dimessa, viene dolorosamente ad evocare in lui, con la memoria dei sapori, tutta una serie di ricordi dell’infanzia, la bambinaia, il fratello, i giocattoli…
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NOTE
  1. Uno dopo l’altro gli passavano davanti agli occhi i quadri del suo passato. Cominciava sempre col vedere quelli dei tempi più prossimi ed era poi ricondotto ai più lontani, a quelli della sua infanzia e in quelli si fermava. La marmellata di susine nere che ora gli davano da mangiare gli rammentava le susine crude, quelle susine francesi, tutte grinzose, della sua infanzia, quel loro sapore particolare, e la saliva che gli veniva in bocca quando arrivava al nocciolo: e questi ricordi dei sapori evocavano tutta una serie di ricordi di quel tempo: la bambinaia, il fratello, i giocattoli. «No, non ci devo pensare… fa troppo male», diceva fra sè Ivan Ilijc e di nuovo tornava al presente.

1 commento

  1. Molto preziosi questi contributi!
    Si parla sempre troppo poco di registi / produzioni non occidentali.
    Tra Russia e Giappone, solo per dirne due, abbiamo mostri sacri (come Tarkovskij e Ozu) che da soli basterebbero a far impallidire una intera generazione di cineasti holliwoodiani.

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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