Sabbia

di Marino Magliani

carlos paz copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da casa sua il mare non si vedeva, bisognava attraversare un ponte romanico, poi risalire la mulattiera fin su dove non cresceva nulla, giusto l’erba tra le pietre.
Sui libri che raccontavano certi posti fatti di terrazze, scogliere e chiese sconsacrate, c’era scritto che il mare si intuiva attraverso la luce. Ma lui attraverso la luce un mare non era mai riuscito a coglierlo. Ci aveva provato a lungo, da ogni quota, angolatura, e ad ogni momento del giorno. Un mare era una collina tagliata di netto, senza alberi e case, giusto per dire che al fondo c’era dell’altro. Qualcosa che si ripeteva, l’erba dei pascoli che i pastori in primavera bruciavano perché si rinnovasse. E lui ogni tanto sentiva il dovere, più che il piacere, di entrare con le caviglie in quel mare, e poi fino alle ginocchia e su, farsi accarezzare la gola e guardarlo sotto la pelle.
Allora scendeva dalle colline, camminava sulla sabbia e aspettava le onde e la sera, le mani sui fianchi, come si stava in Liguria. Ma erano le onde e le sere che avevano aspettato lui, e l’emozione diventava subito una specie di inquietudine, poi non proveniva mai dal largo, ma sempre dai libri, era insomma tutto ciò che millantavano gli autori. La fissazione romantica che nella vita bisogna intuire le cose nella luce. Come se bastasse un colpo di cielo sulle foglie di una palma, per capire se quel giorno l’acqua è mansueta, sognante o infuriata.
Così, ogni volta che rivedeva la collina dov’era nato, egli si andava convincendo che un mare bisognava cercarlo lontano, un mare come un luogo da conquistare, mare-deserto, su cui lasciare le proprie impronte, come facevano gli scrittori. Ma quando un giorno giunse sulle dune di IJmuiden, quelle punteggiate di bunker serviti agli eserciti per scrutare l’orizzonte, egli scoprì che stavolta avevano ragione i libri, non si andava via neanche così, e alla fine l’unica cosa su cui contare, forse, era che si poteva tornare: questo sì, era consentito, sembrava addirittura una cosa che si cominciava a fare dal momento in cui si partiva. E ancora una volta, per tutto questo, egli poteva incolpare i libri, non ciò che aveva davanti e alle spalle sulla nuova riva, fredda e grigia, non dirsi che un presente lontano non bastava, ma le parole vecchie, le parole di un Sud da usare ora per le cose del Nord. La sabbia che si chiamava sabbia anche lontano e il resto, le cose grigie e graffiate dal vento. E allora pensò che finalmente dipendeva da lui, dalle nuove parole che aspettavano di essere pronunciate.
Ricordava, per averlo letto, che tanto tempo prima un pittore pieno di angosce era scappato da quella nebbia, e solo dopo aver conosciuto la luce della Provenza era riuscito a sognare le forme e i colori e le onde del Nord.
Le sue onde da bambino erano state erbose, verdi fino a giugno, poi gialle, poi ci passava una lama. Onde di prati da sfalcio, a ridosso delle scogliere lichenose, dove si raccoglieva il miglior fieno della valle. Lui si sedeva all’ombra del pruno selvatico e guardava la riva di uomini piegati in avanti, sempre leggermente piegati in avanti, con i loro gesti muti.
Se stringeva gli occhi – anche adesso che aspetta le onde sul Mare del Nord – riconosceva i respiri degli uomini quando rialzavano la schiena, sputavano sulla lama e l’affilavano con la pietra cote.
A mezzogiorno lo raggiungevano per dividere con lui pane e pomodoro. Poi lui accompagnava un ragazzo più grande alla fonte e riempivano i bottiglioni di un’acqua freddissima. Quando tornava, i falciatori stavano seduti all’ombra, gli occhi socchiusi. Il sudore sceso dalla fronte s’era fermato sul fazzoletto attorno al collo.
Passavano il dorso della mano sulle labbra e bevevano dal bottiglione.
Volavano alcuni corvi in cielo, ma troppo in cielo e i falciatori li vedevano un solo istante quando le mani alzavano il bottiglione alle labbra.
Neanche quel mare di diamanti al fondo, di un colore e di una luce inutili e nello stesso tempo pericolosi, importava a qualcuno. Giusto all’alba o la sera, per vedere se c’era la Corsica.
Un mare è il posto dei cittadini e dei turisti, gli aveva detto un giorno un vecchio che dopo poco tempo era morto. Bisognava meritarlo. Ma non era vero niente, in quell’ora pomeridiana il mare si confondeva col cielo, ed era solo quel vecchio che parlava di pericoli e di sogni, di meriti e destinazioni d’uso dei turisti; gli altri falciatori consumavano la pausa in silenzio e forse avrebbero voluto chiedere a quel vecchio di tacere.
Se ascolti lui diventi come lui, gli aveva detto un giorno uno facendo ridere gli altri, impari a cercare il giro delle cose come fanno i grilli quassù, che martellano da mattina a sera.
E a cercare il giro delle cose si faceva fatica come a falciare. E cos’altro c’era ancora da cercare, si poteva guardare il cielo e parlarne, o era come affilare le cose con una pietra cote? Per ultimo la pietra e le cose si consumano.

 

Ora che aveva davanti il Mare del Nord, pure lui – anche se non parlava quasi mai con nessuno – diceva troppe cose come quel vecchio.
Al fondo passavano le navi in rotta verso l’Atlantico. Il trucco era stare in attesa senza pensare. Senza consumare altre parole. Un tempo i falciatori ci riuscivano. I loro desideri li governava l’onda della sete. La sera, nel brusio tremante dei tramonti, gli animali dei prati tagliavano il silenzio con la lama della luna. Lui si addormentava, non calmo, come spaventato da una specie di rantolo. E c’erano grilli, rane, usignoli fin dentro la notte.

 

Sulla riva del Mare del Nord si allungava la cittadina di Zandvoort, e prima delle case un molo di cubi di cemento e scogli verdi di muschio svuotava l’aria e l’allagava di risciacqui e di echi.
Gli sarebbe piaciuto sapere cos’era un molo se non era né terra né mare. Al solito aspettò le parole, ma la cantilena delle onde consumò la pazienza.
Un giorno si accorse che neanche alle spalle del molo c’era più terra. C’è solo la duna scavata dal vento, scrisse, tutta la sabbia di questo mondo catturata dall’erba grassa e ricomposta in un’altra duna.
Sugli arbusti dalle foglie lucide si posavano stormi di stornelli, e gabbiani sulle pozzanghere, e l’erba non ingialliva come in Liguria. Poteva guardare e scrivere cosa vedeva o poteva inventare?
Le acacie la sera ospitavano i corvi, a una cert’ora le pozzanghere si popolavano di voli.
E giorno dopo giorno era come se fosse la sabbia a regalare un’idea del Nord a quel mare e alle pagine. Forse si poteva inventare tutto tranne la sabbia. Gli tornava viva un’immagine. Ragazzo, intorno ai quindici anni, ogni tanto in Liguria aiutava i muratori, porgeva loro le pietre, le tavole, i ferri, preparava la malta. Il furgone cassonato lasciava sul posto montagne di sabbia, e la mattina, lui e un altro manovale accendevano la betoniera, vi gettavano due secchi d’acqua, mezzo sacco di cemento, e diciotto palate di sabbia. Un giorno aveva chiesto all’autista del furgone da dove proveniva tutta quella sabbia, e gli era stato detto che era sabbia di cava.
Perché il padrone pagava la sabbia, quando il mare ne regalava immensità?
Il manovale gli aveva spiegato che la sabbia del mare non serviva perché conteneva il salino e, col tempo, il salino avrebbe corroso le putrelle, il cemento armato, sgretolato la sostanza. Era un ricordo lontanissimo.

 

L’ultimo giorno di una bella stagione, dal quartiere olandese dove viveva, si diresse tra le dune e poi verso la risacca. Si tolse le scarpe e le calze. Camminò fino a sentire la sabbia rugosa come la fronte di un vecchio. I granchi inseguivano l’umidità, e c’erano piccole carcasse asciugate dal sole. Il fruscio della marea spolpava ogni sorta di vita. C’erano meduse ormai solidificate e azzurre, e le stelle marine ridotte a brandelli. I gabbiani si abbassavano sulla sabbia solcata dai rivoli, gettavano un grido e affondavano il becco nel cibo. Del mare ligure ricordava che le onde non mostravano da dove provenivano, nascevano a una quota segreta, oltre un muraglione spartivento, e giungevano esauste alla risacca, mentre quassù morivano prima, in un punto dove l’alta marea aveva alzato la barriera di sabbia e conchiglie, e ciò che giungeva ai suoi piedi ora era l’eco della loro morte. E ciò che aveva appena bagnato il suo piede era un’onda alla quale era mancato il respiro per essere un’onda.
Come gli era successo da ragazzo al cantiere, si ripropose la questione della sabbia. Ma non c’era da capire nulla, era solo un esercizio, serviva solo a trovare nuove parole, tutto lì, forse bisognava sostituire l’essere che viveva ora sulla sabbia con l’essere dei giorni giovani, lui sì, avrebbe indovinato le cose, lui era persino riuscito a immaginare a cosa serviva la sabbia del mare, se non era utilizzabile per costruire case, chiese, galere, ponti. Era servita a portarlo sul Mare del Nord.
E lui, serviva a qualcosa, lui?
Qualcosa che non serve, era questo che pensava di se stesso? Non di inutile. Egli era capace, ma di fare una cosa che, pare, non servisse molto. Egli era l’essere che aspettava le parole e per averne la prova le annotava. Le parole che ti dici ora sono libere, sono questa pioggia, questi gatti olandesi e grassi dietro le vetrate, quest’erba… Il segreto, il mistero negli occhi dei falciatori.

 

Passò il tempo e le parole che restavano, e valevano appena l’acquavite per conservarle, odoravano come i crostacei spolpati dai gabbiani e contaminati dal sole. A parte questo, non succedeva più nulla, e di giorno, se non scriveva, andava al mare a guardare le onde che facevano finta di arrivare. Poi raccoglieva le scarpe e le calze, e penetrava le dune erbose.
Ora sentiva giusto un soffio, lo sputo salato nell’aria, e dopo un po’, spalle alla riva, poteva tendere l’orecchio, come gli era successo di fare la prima volta, quando il rumore del mare aveva smesso di essere il mare.
Con la Liguria non funzionava. Lei non faceva rumore, il suo ricordo produceva solo immagini. Immagini?
Un giorno, lasciata la spiaggia per il sentiero cosparso di conchiglie rotte, ai cui lati i cespugli e i graffi del vento portavano tra le case, egli capì che era tardi. Ma tardi per cosa?
Tuttavia, vedere le piante del bosco sradicate dal vento e tutte quelle fosse, come le gengive nude nel palato di un vecchio, e scoprire che le fondamenta delle case poggiano direttamente sulla sabbia, i fiori e la verdura e i bambini che giocano e crescono nella sabbia, e tutto ciò che rotola al mare era perché era sabbia, tutto questo non lo preoccupava più. Non riusciva più a scriverlo, ma neanche questa cosa lo preoccupava più. Forse – restava forse altro? – si poteva sempre scrivere che non si poteva scrivere. Farlo e rifarlo e ascoltarlo da altri, da Walser e da Melville, come faceva la sabbia che ascoltava sempre un altro mare. Come si comincia a tornare a una valle fin da quando si parte, aveva imparato il giorno in cui se n’era andato.
Anche se non era la stagione, riandava spesso su quel vuoto, perché tutto portava davanti a quel muro, pensava, alla prima sabbia bagnata che aveva visto, a quel molo che non era né terra né mare.
Una sera tornò a casa, e quasi in dirittura dei palazzi vide le ruspe. Avevano rimosso un pavimento di mattoni e dissepolto un tratto di tubi arrugginiti. Appariva la sabbia compatta, gialla. Radici filiformi si nutrivano nell’umidità, forse alberi lontani o futuri. Animaletti con antenne, dotati di meccanismi bussolari astronomici che permettevano loro di tornare al mare.
I bambini avevano accampato la sabbia sul marciapiede.
Nell’atrio del palazzo sentì i granelli scricchiolare sotto le suole, e nell’ascensore i granelli unti riempivano i solchetti del pavimento metallico. Prima di entrare si pulì energicamente le scarpe sullo zerbino, in casa se le tolse e si toccò le calze. Le scrollò nel secchio della spazzatura.
Entrò nella doccia. Il pavimento del bagno diventò subito granuloso, l’acqua scorreva e si portava via il sapone e il resto che non apparteneva a lui. Si lavò bene tra le dita. Si asciugò davanti alla vetrata che dava sulle dune. Il mare da lì non si vedeva, nascosto com’era dai palazzi e dagli alberi, dalle dune. A tratti però ne avvertiva il respiro in una raffica di sputi contro la vetrata. Poi tutto taceva di nuovo qualche istante.
Senza entusiasmo, ma come per liberarsi dell’idea di una cosa che bisognava ricordare per forza, si avvicinò alla libreria e cercò gli esercizi di uno scrittore ligure che aveva lavorato a lungo sulla luce. Poi toccò a un altro, Archeologo dei miei giorni, ma sapeva bene che i libri scherzavano.
Si vestì e aprì la vetrata. Uscì sul terrazzo.
Dal porto, il fascio di luce del faro investiva alzo zero le dune. Era scesa la nebbia e le navi entravano segnalandosi con suoni animali, lontani, come di animali al pascolo. Non faceva freddo. Tutto lì. Non faceva ancora freddo quella notte.

 

(questo è il primo testo della raccolta di racconti “Carlos Paz e altre mitologie private”  di Marino Magliani, pubblicato da Amos Edizioni in questi giorni)

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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