Overbooking: Carolina Cigala
di
Tommaso Ottonieri
Nota critica alla raccolta Respiri di Carolina Cigala (ed. Tullio Pironti). Prefazione di Vittorio Paliotti. Disegni di Marisa Ciardiello e Armando De Stefano
Sull’asse di visione e invocazione si polarizza – in modo (e moto) rescindente fin dall’intimo – il dire della poesia, il suo flatus. Perché, se nel vocare essa convoca il proprio oggetto o desiderio (l’altro, o insomma l’oscillare della sua ombra), s’appella a esso – destinatario invisibile – così esponendo, intiera, la marca sintattica di quella interrogazione: una interlocuzione senza possibilità di risposta; la visione invece lascia che la figura (forma e persino materia) improvvisa irrompa a rivelarsi, senza intervento a essa esterno, trasmessa dal lato interno della voce, come in una trance. Qui, la parola (la posizione-soggetto, sua ineluttabile) non si rivolge al destinatario della sua, evocante, invocazione, ma è rivoltata e fatta essa stessa oggetto, è chiamata a divenire tramite dell’immagine che verbalmente si forma e rivela: che ciò avvenga per via esplosiva o invece per via accumulatoria, come sulla carta di riso di un haiku, come nello spiegarsi di un foglio di montaggio. E sbalza, la parola, la plastica dei contorni, da sgorgarsi fuori-di-sé: per il mezzo della lingua, liberi dalla lingua; (perché il fine della parola in poesia non è altro che quello di sciogliersi, il fiato divenire aria, seminare l’aria).
L’approssimarsi di Carolina Cigala allo spazio della poesia si estende su ambedue questi estremi, senza avvertirne l’intimo dissidio, anzi quasi poggiandoli l’uno sull’altro, come in equilibrio di frana, blocchi scoscesi che mutuamente si sostengano dopo l’esplosione.
Eppure, visiva, ancor più che vocativa, è la tensione che anima la sua parola; e prova a bucare il foglio, dissi- pare la pagina, da essa lasciar tralucere solamente la figura che, intanto, va incendiandosi sul proprio lato interno: all’attacco della lingua o ancor prima, più giù, nel vibrare sordo – incessante – delle corde, giusto al seme della voce, nell’emissione di fiato. Se una parola è autentica in poesia, sa che da sé, o forse in sé, non basta: che per trasmettersi, per divenire spazio e segnale, ha bisogno di trasferirsi in solido: tridimensionale: carne d’immagine, sua pulsazione profonda. Scolpendosi – appunto – respiro su respiro. Qui, colta nel formarsi da un intreccio di respiri, nella cornice bianca, nella vergine superficie della pagina, (la parola) deposita/giustappone sequenze, uno strato sull’altro, a imprimere l’immagine invisibile sul fondo; e pure, fatalmente si ringoia nello spazio della invocazione. Quasi che l’immagine, incrostazione dell’assenza, si fosse formata solo per protendersi verso la persona seconda dell’interlocutore: persona invisibile, e inaudibile: muta fantasima del nulla, e per sempre scomparsa. Sì che la parola insomma voglia riappropriarsi entro sé, nel fremere della propria carne, dei fantasmi che ha oggettivato intanto e proteso sopra il silenzio stesso del foglio, rischiando tutto, persino il proprio fallimento – la voragine d’una resistente letterarietà (educazione al linguaggio) giusto entro quei confini del corpo, in cui essa (la lettera) si assorbe e vanifica.
Ed è il training suscitato dall’opera, posizionata a specchio, di due artisti di pregio nelle loro soluzioni diverse e consonanti, ciò che nel ritmo dei Respiri sa spingere la pa- rola al di là di quella lettera, che basta sempre di meno.
È questa la tensione che anima il dire di Carolina; nel dire e dirsi-altro, sottotraccia alla lettera, il suo dono da svelare, la sua più sicura promessa.
Una poesia
di Carolina Cigala
III
18.08.2013
Scheggia di luce assali il cristallo
come lampo in agguato.
Frena l’ardito bagliore
all’offerta della preda dimessa
disperdi il morso impietoso
nel corso febbrile del cosmo.
Mira alla bionda fiammella
che lenta si muove a conoscere
infinite pause in fugace presenza.
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Sull’asse di visione e invocazione si polarizza – in modo (e moto) rescindente fin dall’intimo – il dire della poesia, il suo flatus. Perché, se nel vocare essa convoca il proprio oggetto o desiderio (l’altro, o insomma l’oscillare della sua ombra), s’appella a esso – destinatario invisibile – così esponendo, intiera, la marca sintattica di quella interrogazione: una interlocuzione senza possibilità di risposta; la visione invece lascia che la figura (forma e persino materia) improvvisa irrompa a rivelarsi, senza intervento a essa esterno, trasmessa dal lato interno della voce, come in una trance. Qui, la parola (la posizione-soggetto, sua ineluttabile) non si rivolge al destinatario della sua, evocante, invocazione, ma è rivoltata e fatta essa stessa oggetto, è chiamata a divenire tramite dell’immagine che verbalmente si forma e rivela: che ciò avvenga per via esplosiva o invece per via accumulatoria, come sulla carta di riso di un haiku, come nello spiegarsi di un foglio di montaggio. E sbalza, la parola, la plastica dei contorni, da sgorgarsi fuori-di-sé: per il mezzo della lingua, liberi dalla lingua; (perché il fine della parola in poesia non è altro che quello di sciogliersi, il fiato divenire aria, seminare l’aria).
OTTONIERI… MAMMA MIA! DOPO QUESTA RECENSIONE A “RESPIRI” IO NON RESPIRO PIU’!