Denaturalizzare il corpo femminile. Futurismo e femminismo, tra utopie e tecnologie
Nel suo recente saggio Cyborg philosophie Thierry Hoquet, filosofo delle scienze naturali, si propone di far interagire studi di genere e biologia. Nell’introduzione, si esprime in questi termini:
«Dire che il soggetto del femminismo è “Cyborg”, è dire che la donna non è il polo “naturale” e puro che la tecnica del maschio viene a fuorviare. È dire anche che la condizione femminile è fatta di una parte di biologico con il quale occorre mediare e di un’altra parte di tecnica con la quale occorre mediare.[…] Dire che il soggetto del femminismo è “Cyborg”, è ammettere che nessun ritorno alla natura ci salverà e che bisogna procedere per approfondimento della cultura e della civiltà, ossia della tecnica. Se il femminismo si è appropriato della figura di Cyborg, è soprattutto in relazione con le tecniche della riproduzione e con la questione dell’umanità che si fa carico della propria riproduzione. Non si tratta solo di controllare le nascite, cioè di limitare la popolazione umana da un punto di vista quantitativo; si tratta anche di un cambiamento qualitativo nel modo di produrre gli umani. Cyborg pone la seguente domanda: la gravidanza è un piacere, un privilegio del Femminile che bisognerà assolutamente preservare, o è un residuo arcaico del passato barbaro della specie? In altri termini, l’Utero artificiale e i sogni di Ectogenesi (sviluppo dell’embrione fuori dal corpo di donna) sono il segno della potenza maschile che vuole strappare alle Donne il loro segreto e il loro privilegio, o sono lo scopo che le femministe devono fissarsi come termine ultimo della Liberazione? La tecnica che interviene nella procreazione è alleata delle donne e della loro emancipazione? o al contrario, il loro peggior nemico e fonte di guai e rovina a venire?»[1] (Hoquet 2011, 14-15)
Gli interrogativi di Hoquet sono anche i nostri quando riassunti attorno a due punti nodali: la tecnica permette di superare l’essenzialismo e la riconduzione alla natura? cosa implica una riproduzione non più legata al corpo della donna? Sono problematiche che abbiamo affrontato negli ultimi anni in relazione al dibattito italiano sulla procreazione assistita, ma ispirati inizialmente a riflessioni sulla visione dell’uomo nuovo nell’universo futurista[2]. Ne sviluppiamo qui alcuni elementi, per mettere in prospettiva e inquadrare meglio la riflessione attuale sull’impatto delle tecnologie sulle prerogative di genere e più precisamente sul «naturale» connubio tra donna e maternità.
Utopie futuriste
Il futurismo, si sa, non temeva il progresso, anzi, manifestava un’adesione incondizionata e fervida fiducia nei progressi della scienza e nelle potenzialità della tecnica, auspicando del resto l’avvento di una società tecnologica, di un’umanità nuova, con sensibilità e potenzialità moltiplicate. Il futurismo elabora nel primo ventennio del Novecento un’utopia di Ricostruzione futurista dell’universo (titolo del manifesto di Balla e Depero, 1915) basata oltre che sull’antipassatismo, sull’imperativo del nuovo: dare vita a un uomo nuovo in un mondo nuovo. Dare vita, e non solo metaforicamente. I futuristi sono andati delineando, nella produzione letteraria, teorica, politica e ideologica, modalità di riproduzione alternative alla maternità e al concepimento naturali. Ricordiamo almeno il Manifesto di fondazione del futurismo (1909), nel quale Marinetti descrive metaforicamente la sua ri-nascita futurista, fuoriuscendo da una macchina-ventre dopo un incidente stradale come da un utero di lamiera.
La sua precedente pièce, Il Re Baldoria (1905), si presentava come una metafora della reincarnazione: per assicurare la rigenerazione della specie, sudditi e regnanti di un paese da cui le donne sono state cacciate rimettono al mondo uomini precedentemente divorati, espellendoli da orifizi vari o addirittura subendo tagli cesarei addominali. In cerca di un sostituto al corpo riproduttivo femminile, Marinetti allude in modo esplicito a gravidanze e a parti maschili incarnati. Nel romanzo allegorico Mafarka il futurista (1910) racconta invece la nascita dell’uomo nuovo, Gazurmah, imperituro perché meccanico figlio artificiale del re Mafarka, messo al mondo grazie alla forza della volontà paterna: «vi annuncio prossima l’ora in cui gli uomini dalle tempie larghe e dal mento d’acciaio figlieranno prodigiosamente» (Marinetti 1910, 5). L’uomo-dio Gazurmah si è affrancato dalla necessità naturale di uscire da un ventre materno, ma anche da quella altrettanto naturale di essere concepito dall’unione di un uomo e di una donna.
Marinetti ridefinisce la natura e la genesi del nuovo maschio futurista in alcuni testi teorici successivi, tra cui il significativo L’uomo moltiplicato e il regno della macchina. In un mondo futurista in cui la bellezza meccanica avrà già sostituito quella femminile, la macchina oltre a essere l’amante voluttuosa dell’uomo, ne diventerà la creatura. Creatura, oltre che creazione, poiché l’uomo ne sarà «costruttore […] padre» (Marinetti 1911, 298): tra uomo-padre e macchina si instaura un rapporto di filiazione. Il medesimo testo esplicita che l’uomo futurista avrebbe subito un’evoluzione fisica che gli avrebbe consentito di trasformarsi in un tipo non umano e meccanico, dotato di organi inaspettati, ovvero un essere dalle molteplici e possenti funzioni, alieno da malattie e deperimento, grazie ai suoi pezzi meccanici ricambiabili e aggiustabili. Un essere in cui le funzioni sessuali sarebbero state dissociate dall’erotismo e dal sentimento, destinate alla sola riproduzione della specie.
Attorno alla questione della riproduzione si svolgono le vicende del romanzo di fantascienza L’Ellisse e la spirale, film + parole in libertà del futurista Paolo Buzzi (1915). Alla fine di una sanguinosa guerra tra i due sessi, donne e uomini vivono separati in due regni distinti. Le donne hanno lasciato sopravvivere pochi uomini provvisori per fecondare le contadine. Gli uomini hanno bruciato le donne ma quando si rendono conto di aver bisogno di «uteri» per la continuità della specie, si mettono in cerca degli ultimi esemplari di sesso femminile. Nei mondi immaginari di Buzzi, il fare figli è disdegnato sia dalle donne che dagli uomini, giudicato da entrambi una mansione naturale purtroppo necessaria, perciò devoluta ai ceti più bassi, in attesa che la tecnologia offra altre soluzioni.
Una soluzione la suggerisce un altro futurista, Ruggiero Vasari, nella più tardiva pièce teatrale L’Angoscia delle macchine (1923). Negli anni Venti il clima ideologico è cambiato, com’è cambiata la percezione del progresso e della tecnica che cominciano a ispirare timori. Il suo regno delle macchine è abitato da uomini meccanici, potenti e solidi che, lasciate nel vecchio continente le donne, definite «sesso inutile», si autoriproducono artificialmente. Hanno rinunciato a riprodursi naturalmente perché i sentimenti e il piacere dell’accoppiamento sessuale sono incompatibili con il loro mondo tecnologicamente avanzato. Vasari va oltre in Raun (1927), un dramma ambientato in un mondo meccanico ormai così pianificato che il destino di ogni ragazza è affidato a una «gine-macchina» che ne decide la funzione sociale; le alternative sono maternità, lavoro, prostituzione.
Alla produzione futurista fanno eco altri testi, né futuristi né italiani, ma coevi, cui va accennato per sottolineare come la procreazione tecnologica, associata alla disumanizzazione, stesse diventando, tra le due grandi guerre, un’utopia inquietante: nuovi mondi che si pretendevano ideali per la nuova umanità si rivelavano terrificanti… Vasari, che frequenta gli ambienti artistici nordeuropei, molto probabilmente conosceva la pièce RUR (1920) del drammaturgo ceco Karel Capek, inventore della parola robot, che immaginava la rivolta e la vittoria delle macchine contro gli uomini che le avevano concepite e realizzate; ma nel suo nuovo mondo, i robot non sanno come riprodursi… Una decina di anni dopo, il romanzo Brave new world (1932) di Aldous Huxley, si apre, non a caso, sulla descrizione di una sala di fecondità. Pare che Aldous Huxley si sia ispirato agli esperimenti dell’inglese J.B. Haldane, che aveva coniato il termine ectogenesi per definire una sorta di macchina-utero da lui ideata (un bell’esempio di scambio di saperi tra un genetista e uno scrittore di fantascienza…). Nel nuovo mondo tanto perfetto quanto terrificante di Huxley, esseri umani tutti ugualmente compiuti ma agghiaccianti nascono da macchinari ai quali sono delegate tutte le fasi procreative; solo qualche essere considerato primitivo è ancora il risultato di svilenti procreazioni fisiologiche. Per Capek come per Huxley, la scienza e la tecnica avrebbero sostituito le donne-madri, mettendo fine alla riproduzione naturale, biologica e affettiva, ma con un risultato che incute spavento: la disumanizzazione.
Tornando ai futuristi, osserviamo in sintesi che la loro aspirazione a valicare i limiti della riproduzione naturale rispondeva a due esigenze: sottrarre alla donna il potere di assicurare la conservazione della specie e rendere così il maschio autosufficiente; eliminare il genere femminile, veicolo di debolezza, sentimenti e mortalità (insomma, la natura) per sostituirlo con il genere maschile, sinonimo forza, nonché di scienza e tecnica (la cultura). La fiducia assoluta che i futuristi riponevano nei progressi della modernità li portava a credere che la tecnologia avrebbe dato all’uomo (o meglio, al maschio) enormi potenzialità. Osserviamo che per risolvere il problema della riproduzione, centrale nell’utopia di una nuova umanità, i futuristi immaginano di dislocare le funzioni fisiologiche fuori dal corpo umano, dissociando il sesso dal piacere e dai sentimenti, distinguendo corpi produttivi e corpi riproduttivi, e auspicando che gli organi diventino sostituibili e modificabili. In altri termini, preannunciano la frattura tra corpo umano e funzioni fisiologiche.
Si tratta di un’utopia elaborata dagli uomini futuristi. Le donne futuriste non si sono cimentate nell’immaginare nuove modalità di riproduzione, imperniando riflessione e creazione sull’identità della donna del futuro: idealmente, non sarà madre, e neppure moglie, ma artista o guerriera o amante. Benché le futuriste non abbiano elaborato proposte collettive, esprimendo anzi posizioni sfaccettate, un punto comune è il doppio rifiuto di concezioni essenzialistiche e di un determinismo biologico attributivo di prerogative femminili o maschili secondo l’appartenenza sessuale. La più nota delle futuriste, Valentine de Saint-Point, delineava nel suo Manifeste de la Femme futuriste (1912) e nel seguente Manifeste futuriste de la Luxure (1913), una donna forte, autonoma, sensuale e intellettuale; a sua volta, Rosa Rosà, in articoli pubblicati sull’Italia futurista (1916-1917) e nel romanzo Una donna con tre anime (1918), auspicava una profonda metamorfosi che avrebbe permesso alla donna del futuro di emanciparsi e liberarsi sessualmente, intellettualmente e artisticamente. Anche Enif Robert riteneva che la donna futurista dovesse innanzitutto rigettare il destino femminile naturale, per potersi realizzarsi in quanto artista; la donna futurista avrebbe trovato un nuovo equilibrio, a metà strada tra maschile e femminile, e una nuova armonia tra corpo e anima. Significativo al proposito Un ventre di donna (1919), romanzo composto da testi suoi e da lettere di Marinetti, la cui protagonista vive un’esperienza tragica ma fondatrice: a causa di una grave malattia, subisce l’ablazione dell’utero, operazione che le permette di sopravvivere e, insieme, di compiere un desiderato processo di trasformazione. Il messaggio è chiaro: la donna non si riduce all’utero, anzi, solo libera da esso può diventare una futurista, ossia una donna creativa e intellettualmente virile.
Proprio Enif Robert, una decina di anni dopo, avrebbe reagito alla proposta di un ex futurista riconvertito al fascismo, Mario Carli, che voleva far istituire per legge una sorta di procreazione femminile obbligatoria[3]. Nel 1929 i tempi erano cambiati; l’utopia futurista del nuovo mondo aveva lasciato il passo al nuovo ordine pragmatico-ideologico del regime, e il regime aveva un problema demografico-economico-occupazionale cui la proposta di Carli intendeva dare soluzione. Del resto, all’indomani della guerra, il futurista Blangino aveva già avanzato un’idea simile, il «figlio di stato» (1919)[4], una specie di affidamento dei neonati allo stato che avrebbe permesso alle donne di essere al contempo lavoratrici e madri, in un momento in cui il paese aveva bisogno sia di braccia che di nuove generazioni.
Tra scienza e fantascienza
Ci siamo allontanati dal cuore del problema, senza tuttavia perderlo di vista, anzi: la deviazione verso rappresentazioni della donna nuova è significativa, come lo è il nesso ricorrente tra problematiche di genere e procreazione. Di fatto, in ambito futurista, a una maniera tutta maschile di pensare l’uomo nuovo in un universo monosessuato o asessuato, tecnologico e disumanizzato, sfruttando le soluzioni riproduttive offerte dalla (fanta)scienza per superare i limiti imposti dalla natura, si contrappone la visione delle donne che imbastiscono una complessa dialettica tra creazione e procreazione, cercando vie di uscita al determinismo vigente. Le futuriste rifiutano di essere ridotte a fattrici, vogliono affrancarsi dalla maternità, incentrando i loro sforzi sulla trasformazione di ruoli e prerogative tradizionalmente attribuiti ai generi. Non delegano la funzione riproduttrice né all’uomo né alla macchina, non la separano dal corpo, non si affidano fiduciose alla tecnica; la maternità è accettata ma demistificata, considerata evento incidentale e non decisivo nella vita di una donna. Obiettivo, si noti, facilmente realizzabile, con un ricorso limitato ai progressi della scienza, ma con un più impegnativo cambiamento culturale.
Constatiamo invece, a distanza di un secolo – e qui veniamo ai nostri giorni – che pare tornare d’attualità la proposta futurista in versione maschile, riportata in primo piano non tanto da proiezioni dell’immaginario, quanto dalla realtà che, come si suole dire, supera gli ardimenti della fantasia. Con gioia, con stupore, o con terrore, si apprende che certe utopie sono realizzabili o realizzate. La genesi senza il concorso della donna, la procreazione fuori dal ventre femminile, l’autorigenerazione, la sostituzione di organi, la delega di funzioni alla tecnica, non appartengono al mondo della fiction, ma sono gestite dalla branca della scienza chiamata biotecnologia della riproduzione e tenute sotto controllo da esperti di bioetica. È interessante osservare che oltre all’offerta tecnologica di possibilità procreative, la gamma delle filiazioni possibili è ampliata dall’evoluzione delle mentalità e dei comportamenti: l’elenco non esaustivo delle alternative al ciclo riproduttivo naturale comprende la clonazione, la preselezione dei feti, la fecondazione in vitro, il trapianto ovulare, l’inseminazione artificiale e la maternità surrogata (affitto di utero). Se si aggiunge l’adozione monoparentale e omosessuale, si ottiene una casistica complessa e dilatabile, in cui fare un figlio non corrisponde ad avere un figlio, con implicita scissione tra la maternità e/o la paternità sessuale, affettiva, giuridica, genetica o biologica.
Si è detto che le prime ricerche sull’ectogenesi avevano ispirato il romanzo Brave new word di Huxley. Anche il libro L’utero artificiale (2005), definito dall’autore, il biologo francese Henri Atlan, un mezzo-saggio, tra lo studio e la fiction d’anticipazione, si è ispirato a ricerche scientifiche sull’ectogenesi condotte con risultati concludenti da alcune equipe di medicina riproduttiva in varie parti del mondo[5]. Sulla base di questi risultati, Atlan spiega come il ciclo procreativo potrà presto compiersi interamente fuori dal corpo femminile, grazie a macchinari sostitutivi delle fasi che vanno dal concepimento al parto. Atlan vede in questi macchinari una conquista femminile d’emancipazione, il logico seguito della dissociazione tra procreazione e sessualità iniziata con la pillola contraccettiva e proseguita con l’aborto e le tecniche di procreazione assistita. Atlan insiste proprio su questo punto: l’utero artificiale, inizialmente destinato a risolvere patologie, sarà inevitabilmente considerato una possibilità offerta alle donne per evitare le scocciature fisiologiche della gestazione, e si iscriverà così tra i diritti delle donne sul proprio corpo. Atlan non parla degli uomini, noi notiamo che la realtà fisica della maternità secondo ectogenesi assomiglierebbe molto alla paternità, che non implica gestazione. Comunque sia, per Atlan, la liberazione della donna verrebbe dalla scienza, che oltre a risolvere il problema della deformazione della gravidanza e del dolore del parto, metterebbe in discussione il vecchio valore della maternità. In altri termini, la scienza e la tecnica trionferanno per il bene generale dell’umanità e per il bene particolare delle donne[6]. Le funzioni riproduttive, al pari di organi e componenti del corpo umano, saranno sostituibili e il prodotto sarà perfettibile.
Non è questa la sede per analizzare quali imperativi di ordine sociologico, culturale, demografico o ideologico, incoraggino il prosperare di domanda-offerta di biotecnologia, sebbene crediamo non si debbano sottovalutare gli interessi economici della commercializzazione di organi e funzioni corporali[7]. Soffermiamoci qui su altri aspetti. Nel febbraio 2004, in Italia è entrata in vigore una legge sulla procreazione assistita da molti giudicata troppo restrittiva e perciò oggetto di un referendum abrogativo che ha avuto esito negativo. Nel dibattito svoltosi all’occasione, spentosi in seguito, diverse voci femminili avevano attirato l’attenzione sul principale oggetto (soggetto?), ossia la donna, il corpo della donna, alcune per mettere in discussione una sottesa mistica della maternità che vorrebbe le donne pronte a ogni sacrificio pur di essere madri, altre per stigmatizzare la delega della procreazione alla scienza, ossia al potere istituzionale e maschile. Due posizioni critiche che, portate alle estreme conseguenze – rifiuto o esaltazione della maternità come momento costitutivo della natura femminile – non sono prive di contraddizioni, e ricordano del resto l’opposizione storica del femminismo italiano tra emancipazioniste e differenzialiste.
A pensare queste problematiche, attualizzandole e radicalizzandole, e cercando di uscire dall’impasse della dualità, è stato soprattutto il femminismo cyborg. Il testo di riferimento è Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985), pubblicato in italiano nel 1995. A differenza dell’utopia futurista, l’utopia femminista ispirata al pensiero di Haraway costruisce mondi e figure liberi da determinazioni di genere sessuale; è una ridefinizione dell’identità umana che «legge nella tecnologia potenzialità radicali di cambiamento per le donne in un’ottica che definisce di femminismo socialista postmoderno. Il/la cyborg è figura centrale della sua teoria, proprio in quanto ibrido di macchina e organismo che consente di superare le dicotomie tra umano e meccanico, natura e cultura, maschile e femminile, normale e alieno, psiche e materia» (Balestra).
Sulla scia di Haraway, la filosofa Rosi Braidotti ha riflettuto su come la donna possa non subire la scienza e la tecnica, ma usarle a proprio vantaggio, anche per confutare l’essenzialismo e l’assioma donna-madre. In particolare nei saggi Nuovi soggetti nomadi (2002) e Madri mostri e macchine (2005), Braidotti oltre a elaborare la proposta di un nuovo femminismo e di una nuova soggettività politica femminile, operanti in un contesto di tarda postmodernità segnato anche dalle nuove tecnologie, configura una rinnovata utopia della donna nuova, riassumibile in due formule: «meglio cyborg che dea» (Braidotti 1991) e «le femministe sono le donne post-donna» (Braidotti 2002, 121)[8].
Braidotti sostiene insomma che occorre pensare la donna in modo diverso, inventare nuove rappresentazioni, ridefinire modelli, codificazioni, appartenenze. L’identità di genere non è fissa e fissata una volta per sempre, ma trans, transitoria e molteplice. A partire da questi presupposti concettuali, si interroga sull’interconnessione tra corporeo e tecnologico, sulla mercificazione del corpo, sul corpo-macchina. E, ovviamente, sulla procreazione. Ovviamente, tanto più che nell’esaminare la recente produzione artistica di genere fantascientifico, un genere che prospetta mondi del futuro esprimendo quindi «l’inconscio politico» della nostra cultura, secondo la formula di Jameson da lei citata (Braidotti 2005, 37), Braidotti constata che «la fantascienza produce rappresentazioni di sistemi alternativi di procreazione e di nascita […]. Le nascite extra-uterine sono un elemento centrale dei testi di fantascienza» (Braidotti 2005, 44). Cosa scaturisce dall’inconscio politico della nostra cultura? Nei mondi futuri, ci sono corpi di donna-robot, amplessi donne-macchina, parti maschili, inseminazioni da parte di alieni…
Si potrebbe ribattere che anche nel passato emergevano fantasie ricorrenti di bambini o mostri o robot nati da uomo, dal suo corpo, dalla sua mente o grazie alle sue pozioni magiche o alle sue invenzioni: ieri come oggi, parte dell’umanità sogna di potersi riprodurre da sé e comunque fuori dal ventre femminile. Il problema è che oggi qualcosa è cambiato, non solo perché diventa possibile oltrepassare maternità e paternità incarnate, ma anche perché gli studi femministi e di genere hanno contribuito a consapevoli distinzioni tra appartenenza sessuale, orientamento sessuale, prerogative di genere. Il «tentativo di disimpegnare il bambino, il feto, l’embrione e perfino l’ovulo dal corpo della donna» (Braidotti 2005, 52), pensano alcuni, potrebbe avere un impatto positivo se mettesse fine all’esclusivo potere femminile di generare; l’identità femminile ancestrale, uterina e materna si sgretolerebbe:
«C’è anche un versante positivo della nuova interconnessione tra madri, mostri e macchine e questo versante ha a che fare con l’abbandono di ogni definizione essenzialista della femminilità e perfino della maternità. […] si potrebbe celebrare il declino del significato unico che si attribuiva alla esperienza della maternità come un segno di crescita della libertà femminile» (Braidotti 2005, 105)
Sul versante negativo dell’interconnessione tra carne e metallo, oltre a pratiche come la mercificazione dei corpi, la preselezione della progenie, la priorità della finalità riproduttiva sull’atto e sul piacere sessuale, Braidotti osserva – è questo un punto molto importante – un rovesciamento della situazione rispetto agli anni ’70, quando le donne sembravano aver preso il controllo della propria fecondità. Si chiede (retoricamente) se sia un caso che la scienza abbia compiuto progressi enormi nel campo della procreazione «esattamente nella fase storica in cui altri soggetti stanno lavorando alla ridefinizione della sessualità in termini differenti» (Braidotti 2002, 147). Di fatto, la riappropriazione femminile del corpo che ha caratterizzato il femminismo degli anni ’60 e ’70 è stata di breve durata perché soppiantata da sofisticate tecnologie, gestite da specialisti all’interno di appositi spazi. Lapidaria, Braidotti riassume: «Con la pillola antifecondativa possiamo fare sesso senza procreare, con le Ntr possiamo avere bambini senza fare sesso» (Braidotti 2002, 146).
Una decina di anni dopo, molto più severa, Sara Ongaro osserverà come «molte rivendicazioni femministe siano state integrate dal discorso scientifico come giustificazioni delle innovazioni [… e] hanno potuto probabilmente essere manipolate e strumentalizzate per un discorso per molti aspetti lontano, se non opposto, rispetto ai loro desideri di cambiamento» (Ongaro 2001, 43).
Tornando a Braidotti, un’altra sua riflessione, sulla connessione carne-metallo e sulle possibilità di ricambio delle singole parti del corpo con pezzi di laboratorio o di officina, ci riporta all’utopia marinettiana dell’uomo meccanico e moltiplicato. L’odierno sapere scientifico e razionale non ammette scarti dalla norma perché ha l’obiettivo di eliminare ogni possibile produzione difettosa, assecondando desideri di perfezione, di reincarnazione, di salute e di giovinezza eterna, spesso traducibili nella genesi di maschi sani di razza bianca. La riproduzione diventa produzione higt-tech. Per contrapporsi alla visione spaventevole di un’umanità perfetta generata dalla tecnica, Braidotti elogia la mostruosità, la difformità rispetto al canone, incoraggiando un uso deviato delle possibilità tecnologiche. Inoltre, se corpi e funzioni sono scambiabili, perché non possono esserlo anche le identità sessuali? Braidotti rivendica nuove forme identitarie come la transessualità, l’ibridismo, l’indefinito, la cyberdonna. E compie un ulteriore passo: se un utero vale una macchina, se un corpo vale un altro, perché non immaginare «Gravidanze maschili. Macchine femminili» (Braidotti 2002, 158)?
È un interrogativo che prendiamo come salutare provocazione più che come nuova utopia. I percorsi cyborg qui tracciati assolvono infatti un’utile funzione. Di fronte all’affermarsi del biopotere tecnologico, Haraway, Braidotti, Hoquet e altri si sforzano di pensare un’umanità nuova, reinventando, e incoraggiando a reinventare generi e attribuzioni di genere, a costruire identità plurime e mescidate, convinti che non abbia senso ancorarsi a malfermi ruoli secolari, e tantomeno non abbia senso rifiutare le nuove tecnologie. È interessante notare, tuttavia, che il corpus artistico su cui Haraway e Braidotti fondano le loro riflessioni è perlopiù di produzione anglosassone e di fine Novecento. Invece, in questi primi anni Duemila in cui sta diventando scientificamente possibile oltrepassare maternità e paternità incarnate, la questione della riproduzione fuori dal ventre femminile e della conseguente de-essenzializzazione della donna sembra, quantomeno in Italia, sottrarsi alla sfera della fantasia e dell’invenzione, per proporsi in termini politici, antropologici, sociali, etici, etc. L’impatto delle nuove tecnologie sui corpi ha dato luogo, e dà luogo, a dibattiti impregnati di convinzioni etico-religiose o di asserzioni scientifiche, mentre le creazioni dell’immaginario stentano ad appropriarsi della questione.
L’articolo completo, con bibliografia, è uscito sulla rivista Italogramma, Università di Budapest, vol. 9/2015: http://italogramma.elte.hu/articoli/letteratura-e-spettacolo/denaturalizzare-il-corpo-femminile-futurismo-e-femminismo-tra-utop
[1] Nostra traduzione dal francese.
[2] Alcune pagine del capitolo successivo, «Utopie futuriste», sono riprese, rimaneggiate, dal mio saggio «Procreazione e creazione: utopie del ventesimo secolo, biotecnologie del ventunesimo», menzionato in bibliografia, dove pure sono menzionati altri due lavori in cui affronto simili problematiche.
[3] Enif Robert, Maternità e economia, lettera pubblicata su L’Impero, 6 febbraio 1929.
[4] Il progetto di Arturo Blangino è interamente trascritto da Marinetti in «Orgoglio italiano rivoluzionario e libero amore», testo pubblicato dapprima su L’Ardito, n. 20, I, 1919, poi in Democrazia futurista, Milano, Facchi, 1919.
[5] Per uno studio più recente e scientifico sulla realizzabilità dell’ectogenesi e sulle implicazioni mediche ed etiche, si veda: Carlo Bulletti, Antonio Palagiano, Caterina Pace, Angelica Cerni, Andrea Borini, Dominique de Ziegler, «The artificial womb», in Annals of the New York Academy of Sciences, n. 1221, 2011, pp. 124-128. E si noti che gli autori dell’articolo, pubblicato in inglese in una importante rivista internazionale, sono fisiopatologi o tecnobiologi della procreazione che lavorano in strutture italiane e francesi.
[6] A favore della tecnoscienza e contro l’imperativo biologico si era espressa suscitando polemiche anche la francese Marcela Jacub, il cui saggio è stato prontamente tradotto in Italia: L’Impero del ventre. Per un’altra storia della maternità [2004], Verona, ombre corte, 2005.
[7] Sara Ongaro osserva che in Italia questo aspetto è sottaciuto, meno nei paesi anglosassoni dove non si nascondono gli enormi profitti che si possono ricavare e il grande vantaggio per l’avanzamento della ricerca. Peraltro, Ongaro ritiene che le tecnologie riproduttive siano un estremo caso di riproduzione convertita in produzione: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della riproduzione, Soveria Mannelli, Rubettino, 2001 (cf. in particolare il capitolo «La riproduzione tecnologica: dove sono sparite le donne?», pp. 27-43.
[8] Sull’utilizzazione delle nuove tecnologie a favore delle donne si veda anche il volume a cura di De Ruggieri e Puglies, Futura. Genere e tecnologie (2006) nella cui introduzione leggiamo che gli studi raccolti hanno l’ambizione di «presentare e analizzare il duplice significato che la tecnologia riveste per la soggettività femminile, nel suo essere allo stesso tempo strumento sia di negoziazione creativa dell’identità di genere e di azione politica di riforma delle concettualizzazioni di genere e di identità ; sia di esclusione e di reificazione di un’immagine stereotipata del femminile» (p. 10).