les nouveaux réalistes: Ivan Ruccione
Stabat Pater
di
Ivan Ruccione
Papà era fatto di suoni. Era il trillo della prima sveglia, l’urlo della cinghia sotto il cofano. Papà era tutto quello che veniva un’ora prima della mia vita, brevi tuoni di realtà in mezzo ai sogni. Se ne andava lasciando un bacio sulla mia fronte, che avvertivo di rado, e quando i miei piedi calpestavano lo scendiletto lui stava già timbrando. Nessuno sapeva più niente dell’altro fino al tardo pomeriggio, ma non importava; le mie giornate erano le giornate di uno scolaro e le sue giornate erano le giornate di un magazziniere e i nostri stati d’animo pressoché uguali.
Tornavo da scuola e mamma chiedeva com’era andata mentre mi scaldava la pastasciutta al microonde. Rispondevo sempre “bene” anche se mi ero annoiato a morte, perché col tempo ho capito che se gli ingranaggi della routine girano senza incepparsi vuol dire che è stata una buona giornata. Dopo aver finito di mangiare mettevo il piatto nel lavandino, tenevo un poco tra le mani la tazzina ancora tiepida dove papà aveva bevuto il caffè e poi andavo in camera.
Intorno alle 17.30 c’erano lo scatto del cancello automatico che si apriva, il ronzio delle ruote che correvano adagio lungo il binario, le tre manovre nella stretta via per poter entrare in retro in cortile, tutti suoni con i quali il babbo faceva giungere il mio cuore a un parossismo vulcanico.
Ma mento se riduco la mia eccitazione a questi soli suoni feriali e prossimi al crepuscolo, perché a fare loro compagnia, la sera, c’era la voce che mi leggeva i passi dei libri che amava, tra un bicchiere di vino e l’altro, e poi c’era il canticchiarmi all’orecchio “Lontano lontano” di Tenco quando, le domeniche di sole, lui sul sellino, io in piedi sulla pedana e le mani aggrappate alle curve del manubrio, vagavamo con il Ciao nelle stradine della campagna lomellina, tra risaie e campi di granoturco, le verdi acque delle rogge.
Adesso papà non c’è più. Se n’è andato di casa quattro anni fa e lo vedo poco. Se n’è andato perché beveva troppo e mamma si è stufata. Papà, nonostante i problemi con l’alcol, non ha mai dato in escandescenza. È un tipo placido, timido e malinconico. Passava quasi tutto il suo tempo libero a leggere, ascoltare musica e bere, e beveva per tentare di sciogliersi e risollevarsi, ma la malinconia e la timidezza non gli davano mai tregua, erano blocchi di materia insolubile che lo schiacciavano a letto. Non ho mai sentito litigare i miei vecchi, solo discutere la domenica in cui siamo caduti dal motorino e mi sono rotto un braccio.
Papà se n’è andato il giorno dopo, senza fare storie, in silenzio, come un pupazzo di neve che deve arrendersi all’evolversi delle stagioni.
Ieri ho bigiato la scuola, ho preso il treno e sono andato a trovarlo. Alloggia nel reparto protetto di Villa Rosa, un ospedale psichiatrico di Modena. È il suo secondo ricovero in quattro anni, tutti e due spontanei e con l’assenso di uno specialista. Eravamo un po’ preoccupati per il primo fallimento, ma l’equipe terapeutica della struttura ci ha detto che è frequentissimo ricadere nel vizio dopo la prima degenza.
Sono salito al secondo piano e ho suonato il campanello. Mi hanno chiesto chi fossi e io gli ho risposto e hanno schiacciato l’interruttore per aprire la porta. L’infermiere dietro il vetro della portineria era Jimmy, un ragazzo di colore molto alto, con i dreadlocks e un sorriso imperituro. Ci siamo stretti la mano e ci siamo chiesti come andava e abbiamo detto “bene”.
In camera papà non c’era. Ho salutato Gianfranco, il suo compagno di stanza, che vive a letto perché si è frantumato le ossa e le budella dopo aver tentato il suicidio dal quarto piano di un palazzo. Ho dato un’occhiata nei corridoi e poi sono sceso in giardino. Papà era lì coi suoi nuovi amici, seduti sulle sedie di plastica bianca. Quando mi ha visto si è alzato di scatto, ha spalancato le braccia ed è corso a stringermi. Ci siamo tenuti ben stretti per una ventina di secondi e poi mi ha presentato Cristina, Sergio e Tommaso. A parte lo stomaco gonfio, i tremori delle mani e qualche capello bianco in più sulle tempie, papà mi è sembrato piuttosto in salute. Si è avvicinato un signore sulla sessantina, con le scarpe scalcagnate e l’andatura da zombie, che fino a un momento prima stava seduto in un angolo a parlare da solo, e mi ha chiesto una sigaretta. Papà e gli altri amici lo hanno cacciato in malo modo e ho chiesto loro perché. Mi hanno risposto che ha il comodino pieno di sigarette perché i suoi familiari gliene portano una stecca alla settimana e ciononostante va avanti a scroccare. Poi io e papà abbiamo salutato gli astanti, siamo saliti da Jimmy e con il suo permesso siamo usciti dall’ospedale.
Abbiamo preso l’autobus e siamo scesi in centro. Ci siamo fermati a pranzare “da Danilo” e abbiamo preso dell’acqua gassata, del crudo con lo gnocco fritto e poi dei ravioli di magro. Tutto molto gradito. Mi ha chiesto come andava a scuola e con mamma, e io ho risposto sempre “bene”. Poi gli ho chiesto io come andava e lui ha risposto alla stessa maniera, e ha preso a spiegarmi di che disturbi soffrono i suoi nuovi amici. Cristina, se non ricorda male, è un cardiochirurgo con un master a Boston che soffre di depressione per aver subito violenze carnali da bimba, e tutte le volte che si mette a piovere sta a letto con le coperte fin sopra la testa finché torna il sole; Sergio è uno scappatodicasa con problemi di alcolismo e Tommaso è lì per darci un taglio con l’eroina.
Finito di pranzare abbiamo fatto una passeggiata. C’era un bel sole e abbiamo cantato Tenco. Siamo andati in libreria e papà ha preso Cheever e ho dovuto insistere per regalarglielo. Dopo un po’ ha detto che doveva rientrare, così abbiamo preso l’autobus e siamo tornati a Villa Rosa. L’ho accompagnato in reparto e Jimmy gli ha dato il contenitore per la raccolta delle urine per controllare che non avesse bevuto alcolici. Ho aspettato che andasse in bagno, consegnasse il contenitore a Jimmy e poi ci siamo abbracciati forte per salutarci.
Alla sera sono arrivato a casa, ho dato un bacio a mamma e sono andato a letto senza appetito. Ho portato con me alcuni libri, i libri di papà, come faccio sempre prima di dormire, e ho iniziato a sfogliarli per scegliere quale leggere. Ho scorso i lemmi che papà non conosceva, da lui elencati a matita sui risguardi, e mi sono perso a cercare i significati sul dizionario.
Il cancello automatico, quando si apre, fa lo stesso suono. Ma ad aprirlo ora è Carlo, il nuovo compagno di mamma. Ora che lo sento, d’istinto un ricordo mi fa sussultare di gioia, ma dura un attimo. Carlo entra, saluta mamma, apre la porta della mia camera e ci salutiamo allegramente. È un bravo uomo, ma mi dà noia questa allegria forzata.
L’altro giorno ho parlato con mamma e le ho detto che mi sembra di non avere più niente nella vita, e lei ha detto che non è vero, se mi sembra niente avere diciotto anni e un mare di libri da leggere, e forse ha ragione. Eppure mi pare di non sentire più niente perché non ho più niente da sentire, e così me ne sto notte e giorno sotto le coperte, a riposare, come della frutta raccolta ancora acerba.
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È un racconto interessante e scritto anche bene. Solo, trovo incongruente che nella stessa storia compaiano un microonde, che ha avuto il suo boom di vendite dal 2000, e un ciclomotore Ciao, che sciamava sulle strade degli anni Settanta; è una cosa che stride un pochino.
È un appunto minimo, l’incongruenza non toglie interesse al racconto che, ripeto è interessante.
bello!