Ilio (o il bar dell’incrocio)
di Gabriele Drago
Quel pomeriggio mi ritrovai a camminare scalzo sulla vecchia mulattiera abbandonata.
La strada percorre tangente il paese e arriva precisa all’incrocio dove avrei dovuto incontrare Ilio per il caffè della domenica. È ormai chiusa al traffico e tra le pietre incastonate a terra è germogliata l’erba.
Se prendi questa strada, cinque minuti ci vogliono per arrivare al bar dell’incrocio. Passa proprio accanto alla piazza del Giudice, non c’è traffico e puoi anche camminare scalzo perché le pietre di basalto sono pulite e lucide e nessuno ti talìa, come diceva Ilio.
Il bar dell’incrocio è modesto e da quelle parti non passa molta gente. I clienti sono pochi, vanno e vengono in fretta, con gli occhi sfuggenti, senza salutare.
La prima volta che mi fermai al bar dell’incrocio fu per caso. Tornavo esausto da un lungo viaggio di lavoro. La stanchezza mi aveva messo addosso anche una certa tristezza ed entrando al bar riuscii solo ad accennare un sorriso per la cortesia del salutare.
Mi accasciai sul bancone, chiesi un caffè a Ilio e lui, svelto e sorridente, completamente a suo agio nelle piroette che compiva passando dalla macchina al bancone, mi piantò il caffè sbattendolo sul lastrone di marmo che quasi la tazzina non si spaccava. Poi si girò di spalle e io bevvi il caffè in silenzio.
Feci in fretta. Quel modo così grossolano di servire i clienti mi aveva irritato. Lasciai gli spicci sul tavolo, salutai senza essere ricambiato e uscii dal bar per mettermi di nuovo in macchina.
Poco dopo aver lasciato il bar dell’incrocio, durante il tragitto fino a casa, mi successe qualcosa che non riesco bene a descrivere. Sentii crescere in me una specie di potenza, di energia. Mi si rilassarono i muscoli del viso, la pelle divenne più chiara, più liscia, mi sentivo forte e pulito, presente, attento. Quando arrivai a casa avevo ancora il sapore del caffè in bocca e un vigore del tutto nuovo tanto che a mia moglie venne il sospetto che forse in quei due giorni fossi stato in vacanza invece che a lavoro.
Le strinsi i fianchi, la portai in camera da letto e facemmo l’amore per tutto il pomeriggio, come venticinque anni fa.
«Può mai essere che un caffè mi abbia rimesso al mondo in questo modo?», pensai quando mia moglie mi lasciò solo sul letto.
Non conoscevo ancora Ilio. Dietro i suoi modi semplici nascondeva una complessità nera e potente come le miscele che preparava.
Tornai al bar dell’incrocio il giorno seguente ma era chiuso come se fosse chiuso da chissà quanti anni. La porta era impolverata e le tendine ingiallite. Dietro i vetri opachi si poteva leggere un breve messaggio su un cartellino storto appeso lì quasi per caso: “ogni domenica, dalle cinque alle”.
Mi capitò infatti di tornarci la domenica successiva che erano le cinque e dieci e l’avevo trovato chiuso. La domenica successiva ancora alle cinque in punto ed era aperto. Ci tornai ancora, sempre di domenica, alle cinque e venti ed era aperto, la domenica successiva alle cinque e un quarto ed era chiuso.
Insomma “dalle cinque alle” significava che era meglio arrivarci alle cinque precise se volevi trovare il bar dell’incrocio aperto e Ilio disponibile a sottoporti la miscela giusta.
Di questa somministrazione ragionata io ne sono quasi dipendente ormai. Ilio mi aveva iniziato ai misteri del caffè e avviato a mia insaputa ad un percorso spirituale lungo e difficile ma necessario a detta sua.
Infatti, se fino a prima di conoscere Ilio mi reputavo una persona forte e coraggiosa, adesso non ho più certezze e anche le cose più innocue possono mettermi in crisi. Basta una parolina detta male da qualcuno che mi partono lunghi concatenamenti di immagini e riflessioni disordinate su me stesso, sul perché dell’esistenza e sul significato delle cose. Mi si fa il respiro corto, frullo talmente tanto di cervello che sembro fatto di solo pensiero, un ramo che si spezza a un chilometro posso sentirlo e sto sempre all’erta per il timore che ho di abbandonare definitivamente il mio corpo.
Queste sensazioni scomparivano quando prendevo il caffè di Ilio però. Dopo pochi sorsi la mia mente si fermava, tornavo a essere tutto in uno e potevo vedere chiaramente me stesso e il mondo con una comprensione pressoché infinita.
Ilio sosteneva che le mie crisi sono necessarie se voglio capire a fondo la realtà delle cose. La pratica del caffè è come un’operazione chirurgica, serve a sradicare anni di false credenze ed è normale che sia doloroso.
Il caffè aiuta ad avere la concentrazione giusta e a trovare un punto saldo da cui osservare il flusso delle sensazioni senza farsi coinvolgere. Accedere alla realtà delle cose senza l’aiuto del caffè sarebbe come lanciarsi in battaglia con una spada non affilata.
Ilio diceva anche che un giorno, molto presto, avrei trovato un punto di una fermezza assoluta dentro me stesso, un punto saldo, immobile, dove avrei coinciso perfettamente con i miei desideri reali e i miei bisogni più profondi. Avrei trovato la pace vera, il nirvana, diceva Ilio, e non avrei avuto nemmeno più bisogno del caffè. Ma fino a quel giorno non avrei dovuto saltare mai una domenica al bar dell’incrocio perché interrompere la pratica sarebbe stato molto pericoloso.
Quella domenica perciò dovevo andare al bar come ogni domenica da qualche mese ormai, ma un non so cosa si introdusse in me come una possessione diabolica, scuotendomi e rimescolandomi tutto che non ci capii più nulla di me stesso, del mondo e di ciò che mi stava succedendo. Quella domenica al bar dell’incrocio ci arrivai per fortuna, senza sapere come.
Ricordo che camminavo scalzo su quella strada vecchia perché, poco dopo pranzo, fui costretto ad allontanarmi dalla veranda per digerire sia l’abbondante pasto e sia certi discorsi che avevano compromesso la mia delicata peristalsi.
Da quando ho cominciato la pratica ho anche problemi di digestione. Ilio diceva che sono dovuti ad anni di abitudini scorrette nel modo di pensare e che alla fine del percorso non avrei dovuto più soffrirne. «Ogni nostro pensiero», diceva Ilio, «coincide con un punto del corpo e questi disturbi digestivi non sono altro che una reazione psicosomatica. Quando per mezzo del caffè avrò sciolto tutti i nodi che irrigidiscono la mia mente anche il corpo troverà sollievo», sosteneva Ilio.
Intanto come palliativo camminavo scalzo sulle pietre lisce della mulattiera perché, sin da piccolo, avevo scoperto che procurano un massaggio sotto i piedi e, ammorbidendo l’intero corpo, per un po’ la collera che stringe lo stomaco fluisce verso gli argini della strada, tra le fessure dei muri a secco.
Perciò mi tolsi le scarpe. Trattenevano i miei piedi gonfi come io durante il pranzo trattenni certe parole soffocandole in gola con grossi bocconi di pastasciutta. Bocconi avvelenati questi, che contribuirono senz’altro a impegnare oltremodo il mio intestino.
Ilio me lo diceva sempre, «la prima digestione avviene nella bocca», «e mangia lentamente, gustandoti il cibo in un posto silenzioso e rilassato prima di bere il caffè».
Quella domenica però, durante il pranzo, un continuum di rumore sollecitava il mio sistema nervoso.
Fu una difficile domenica in famiglia. La morte della nonna aveva scavato crepe profonde e ogni parola pronunciata in quel pranzo sgretolava in nostri rapporti in frantumi asimmetrici e taglienti. I miei parenti avevano aperto una faida tirando fuori le armi della memoria e tutti, figlie, zii e nipoti, si tolsero talmente tanti sassolini dalla scarpa da costruire solidi palazzi di colpa dentro i quali rinchiudere chi non aveva assolto agli obblighi indiscutibili dell’istituzione famigliare. Quella domenica, tra un boccone e l’altro, ognuno si difendeva nel tribunale messo su in veranda. Tutti erano allo stesso tempo giudici e imputati, si creavano fazioni e scissioni interne, si votavano mozioni, mentre il cibo masticato sfuggiva dalle fauci inferocite impastato a parole avvelenate.
Da come mi aveva istruito mia moglie sapevo che il pranzo avrebbe assunto delle pieghe pericolose per il mio intestino. Ilio diceva che non dovevo farmi coinvolgere troppo dalle cose, che sono un tipo emotivo e lo stomaco ne risente. Certamente mi ero fatto prendere dal circolo di quelle male lingue ma poi ci aggiunsi il bis del primo e il bis del secondo e a prescindere dalle emozioni il mio stomaco ne avrebbe risentito comunque, forse.
Ero ancora all’inizio della pratica e dubitavo di tutto come non avevo mai dubitato. Anche della pratica stessa dubitavo ma non potevo farne a meno. Tutto mi sembrava così assurdo che non sapevo più quali fossero le cause effettive del mio malessere e maledicevo il giorno in cui mi ero fermato al bar dell’incrocio. Tuttavia, quando prendevo il caffè di Ilio, trovavo sul serio per un momento la pace e questo rafforzava in me la volontà di proseguire il percorso con lui.
Quella domenica a pranzo non capivo se i dialoghi ai quali assistetti furono solo giochi sofistici oppure se l’urgenza di provare la propria innocenza prudeva sulla lingua e veloce univa il pensiero con la parola.
In anni di convivenza non avevo mai visto applicare tanta logica a mia moglie nel dedurre le cause dagli effetti. Mia cognata creò trame così perfette da descrivere l’animo umano come romanzieri dell’ottocento.
Mai avevo assistito a tanta onestà. Dalla bocca di mia suocera, donna all’antica e severa, uscì addirittura un “minchia fricuniata” talmente appassionato che sembrava fosse l’etichetta definitiva per descrivere quell’uomo “scunchiurutu” che aveva sposato sua figlia: io.
Non reagii a nessuna provocazione, mangiavo convulsamente le mie portate con gli occhi bassi anche se la fame mi era passata. Nel frattempo i bambini urlavano rincorrendosi tra le sedie, la zia urlava rincorrendoli tra le sedie, tutti gli altri urlavano scivolando e riaggrappandosi alle sedie. Le parole si mescolavano al frinire delle cicale e le sedie erano l’unica cosa stabile, silenziosa e rilassata in quel pranzo insano.
Le voci di suocere e mogli e cognati e figlie si intrecciavano in retoriche complesse corredate di prove, documenti e tabelle d’ospedale. L’eredità della nonna defunta passava di mano in mano e i notai erano pronti a firmare ovunque si poggiasse il merito.
L’istruttoria proseguiva incalzante. Quanto e come? Chi era stato vicino alla nonna durante la malattia? Quanto era costata la casa di riposo? Quanti minuti al giorno e quanti giorni a settimana togliendo le domeniche, gli impegni di lavoro, la noia, la partita, la febbre, avevi trascorso con la nonna, con la mamma, con la figlia? E poi dov’eri nel momento del bisogno? Pensi di meritare la rendita, il lascito, l’eredità e addirittura l’amore dei figli?
A queste domande i corpi dei parenti reagivano con brevi sospiri che si bloccavano nell’addome e spalancando gli occhi interrogavano la corte e loro stessi con un maiuscolo e stupefatto «io?». Non era possibile infatti che esempi di tanta abnegazione potessero mai apparire fallibili. Ognuno aveva di sé un’immagine perfetta e integerrima che riassumeva tutte le qualità morali necessarie per essere non uomini ma dei.
La veranda era diventata un Pantheon ma la realtà era che a nessuno andava di occuparsi della nonna senza allo stesso tempo volgere un pensierino alla casa al mare, agli appartamenti dati in affitto in città, al conto in banca, ai vitigni di contrada Nissoni che la nonna visitava mensilmente e appena qualcuno toccava questo punto debole ma reale, insinuando negli altri l’infamia di un calcolo utile sulla pelle della nonna, succedeva il putiferio.
Dal canto mio, quel giorno, pensavo solo di dover andare al bar dell’incrocio entro le cinque e a dir la verità non me ne fregava nulla di tutte quelle storie. Io amavo veramente la nonna e per quanto mi riguarda si potevano prendere tutto.
Il mio stomaco era ormai rigido e gonfio. Sapevo che quel pranzo mi avrebbe fatto male, mia moglie me lo aveva detto.
Infatti, prima che arrivassero i parenti, avevo chiuso le persiane della camera da letto per non disperdere il fresco. Avevo preparato un rifugio d’ombra per tenere a bada il mostro che si sarebbe accovacciato presto nella pancia.
Misi il condizionatore a quindici, poi lo abbassai fino a dieci e cominciai a pregustare quel dolce assopimento che cala zavorrato da un ventre pieno e soddisfatto. Una sorta di ricompensa per essere riusciti a strafogarsi di cibo nel caldo mezzogiorno d’estate. Inoltre Ilio diceva che il pisolino prima del caffè prepara alla purificazione e io seguivo precisamente le indicazioni di Ilio.
Questo progettino semplice ma concreto, mi aiutava a sostenere qualunque offesa durante il pranzo. Dopo mi sarei alzato e sarei andato a incontrare Ilio al bar dell’incrocio. Purtroppo, però, un vile sabotaggio del programma mi costrinse a dileguarmi dalla veranda prima del previsto come un ninja obeso che agisce nell’oscurità.
Successe che le mie due cognate, senza avermi consultato, decisero che i bimbi dovessero rimanere a giocare rinchiusi in camera mia. Io provai a ribellarmi facendo appello al mio sacrosanto diritto al riposo ma le mie proteste sembrarono lallazioni infantili senza senso e vennero ignorate immediatamente. Dovetti rassegnarmi alla loro decisione e capii solo dopo che l’occupazione della mia camera faceva parte di un disegno strategico per tenermi sveglio fino al momento della sentenza che mi toccava.
Appoggiato quindi impotente al muro della veranda osservavo senza intervenire il teatro tragico della mia famiglia.
Cominciai a sudare, il battito cardiaco mi era aumentato, il baccano intorno mi faceva girare la testa e dovevo sforzarmi per capire chi dicesse cosa a chi.
Solo quando il medio tra i tre fratellini che ronzavano intorno al tavolo si fermò con il triciclo di fronte a suo papà, nella veranda calò per un attimo il silenzio.
Dalla sua piccola boccuccia apprendemmo che zio Antonio piscia seduto come le femminucce e che il portiere e la mamma si erano abbracciati nell’ascensore per tutto il tempo del black out.
Dopo questa sparata una specie di terrore paralizzò i nervi dei parenti perché, sebbene tutti eravamo interessati ai fatti privati di ognuno, nessuno era in grado di sostenere anche quell’arbitrio così genuino in una battaglia che già di suo andava per colpi bassi.
Per cui, tra risatine sotto i baffi e sguardi taglienti che si incrociavano come sciabole, i bambini vennero deportati tutti in camera mia affinché potessero giocare, menarsi e urlare senza disturbare il gioco dei grandi.
È vero però che i grandi non stavano giocando perché non rispettavano nessuna regola e un gioco senza regole, oltre a non essere un gioco, è altrettanto vicino alla natura dei capricci infantili.
I grandi si ritrovarono a esser seri, seri e angosciati come quando si perde la fede, come quando le credenze traballano e i legami certi dell’amore in famiglia mostrano il meccanismo dell’incaprettamento.
Sembrava infatti che le nostre cure reciproche mascherassero da sempre una logica dell’interesse secondo la quale al tempo e all’affetto donato bisognava ricambiare con maggiore affetto, maggiore tempo o maggiore quota d’eredità.
Non ci si poteva più fidare. Chi ti aveva accarezzato, abbracciato, baciato, sorriso, adesso ti stringeva la corda al collo in una specie di bondage morale.
La situazione degenerava irrimediabilmente. I discorsi erano come dei maiali che cercano di pulirsi rotolandosi nel fango.
Solo l’arrivo del caffè, per un lungo momento, diede loro l’idea di un fronte comune. La miscela era un regalo straordinario di Ilio. Di solito lui non voleva che il suo caffè uscisse dal bar dell’incrocio ma questa miscela me l’aveva regalata per il mio compleanno. «È una miscela leggera questa, da bere in famiglia», disse quella volta Ilio.
Quando mia moglie arrivò con il vassoio l’attenzione di tutti passò dal dettaglio del delitto alle tazzine colme e traballanti. Zia Franca e Giada, la nipote, dal disordine cieco della furia si ritrovarono a collaborare per far spazio sul tavolo e Domenico smise di calare pugni. Come sosteneva Ilio, «il caffè invita alla meditazione e al discernimento, all’armonia e all’equilibrio».
Anche se era una miscela leggera io non presi il caffè, aspettavo di andare al bar. La pratica prevedeva dei momenti ben precisi e situazioni supervisionate. Loro invece si avvicinarono tutti al vassoio e con gli occhi bassi si passarono di mano in mano lo stesso cucchiaino per mescolare lo zucchero al caffè. Il caffè gli concesse una tregua che disciplinò l’isterico sbracciare nei movimenti attenti, delicati e silenziosi del portare la tazzina alle labbra e da villani quali erano divennero dei lord. La loro mente, fino a un momento prima in preda all’angoscia di dover difendersi o attaccare, fu risucchiata nell’attenzione esclusiva di quella sensazione bollente e pastosa che si inoltrava per tutta la bocca. Il caffè aprì una dimensione condivisa di piacere riportando la calma nell’assemblea e quando ripoggiarono le tazzine sul tavolo erano visibilmente cambiati.
Ci furono addirittura delle scuse, qualcuno riconosceva di aver esagerato, qualcuno comprendeva la noia di dover trascorrere l’unico giorno libero della settimana nella sala d’attesa del dottore per accompagnare la nonna.
Due cugini si spostarono dalle sedie alle sdraio, lo zio accasciato sul dondolo si alzò la camicia dandosi delle piccole pacche compiaciute sulla pancia. Nessuno si curava più degli altri e per un attimo sembrò il post-pranzo di sempre: sonnolento, sazio e spaparanzato.
Senonché, tornando dal bagno ancora agguerrita e carica dei pensieri formulati nella solitudine della toilette, zia Antonietta, l’unica a non aver preso il caffè, percorse veloce il corridoio.
Vestita come una madonna a lutto volava a pochi centimetri dal pavimento con il suo indice innervato verso il cielo che scaricò dritto sul mio muso.
«Tu», urlava zia Antonietta. «Tu che ti sei allisciato la nonna fino alla fine, dov’eri la notte del venticinque quando ti chiamava rantolando sul letto della casa di riposo? Dov’eri?»
Sembrava che la sua figura fosse diventata enorme e che un velo nero come un burqa le coprisse il viso. La sua voce tuonava dal profondo con il timbro di un demonio.
Io mi spaventai. Lo sforzo per escogitare una via di fuga fu disumano. Sapevo che zia Antonietta non me l’avrebbe fatta passare liscia e il suo furore fu tale che innescò un ritorno di fiamma in quella bolgia di spiriti in veranda.
Al che, una finta chiamata di lavoro al cellulare di gomma con trombetta che strappai dalle manine di Rosa mi salvò dalla condanna definitiva e dall’onerosa formulazione della mia discolpa, consapevole che un’alzata di spalle a zia Antonietta non sarebbe bastata.
Riuscii a non farmi trascinare in quel caos di cattive parole e mi defilai dalla veranda, veloce ma discreto, come un geco.
Scesi le scale fino in fondo e mi intromisi sulla strada vecchia il cui imbocco era lì vicino. Pensai ai massaggi e mi tolsi le scarpe.
Era pomeriggio presto. In quel periodo della giornata la gente, come per mettersi a riparo da una premonizione catastrofica non uscirebbe mai di casa, si serra dietro le persiane e hai l’impressione che ti osservino dalle fessure. La strada era talmente deserta e silenziosa a quell’ora che riconobbi le voci di ognuno anche a decine di metri di distanza.
Io me ne andavo verso il bar sicuro di aver lasciato la mia difesa nelle mani di ottimi avvocati ma quelli che pensavo fossero miei alleati mi tradirono trapassandomi le spalle con la lingua.
Mia figlia, il mio alleato più fedele di sempre, non perse l’occasione per elencare le mie mancanze di genitore assente, di persona che aveva senz’altro contribuito al fiorire delle sue nevrosi, la causa prima dei suoi fallimenti.
Mi sentii come Cesare nella congiura. La strafottenza che mi imputava, la quale altro non era se non vigliaccheria o scudo bardato di “che me ne fotte” per proteggermi dalle ingiurie del mondo, mi abbandonò paralizzandomi nelle parole d’amore mai pronunciate, negli abbracci rimandati, nella credenza che per essere padre bastasse il pensiero, un sms con gli auguri di Natale. Mia figlia sostenne che io non le avessi mai detto quanto mi mancasse, quanto mi piacesse stare con lei, quanto le volessi bene. Diceva che la nonna più che affetto provava compassione per me, come del resto tutta la famiglia.
In preda alle assurdità che avevo ascoltato mi venne di stringere il telefonino di gomma che avevo ancora in mano e dal nulla, ma da un nulla evidentemente pieno, mi si riempirono gli occhi di lacrime.
Mia figlia aveva spalancato le finestre e la tempesta mi entrò dentro. Demoni provenienti da molto lontano mi assalirono come un vento forte.
Cominciai a vagare in preda all’angoscia per la mulattiera desolata. Le cicale impazzite non cantavano più, le cose si fermarono, faceva una caldo assurdo.
Se il diavolo dovesse manifestarsi sceglierebbe quest’ora del pomeriggio mentre vapori caldi esalano dell’asfalto come fumi di zolfo, altro che la mezzanotte.
A un certo punto la mente cominciò a interrogarmi chiedendo soluzioni immediate e non sapevo più dove stavo andando. Il caffè, Ilio, mia figlia, la nonna? Cosa dovevo fare?
Tenevo ancora il cellulare di gomma in mano e non capivo perché. Le voci dei miei rimbombavano come echi in una cattedrale vuota, domande antiche mozzarono le radici del senso dell’essere padre, marito, figlio, uomo, vivente.
Stordito come una mosca che sbatte sui vetri mi inoltrai in vicoli ombrosi e sconosciuti dentro ai quali l’umidità dava la vita a mucillagine, muffe e vegetazione rampicante. Poi esausto mi sdraiai sotto un fico nato dalle fessure di un muro e mi addormentai.
Dopo non so quanto tempo, forse ore o forse minuti, mi pervase un calmo dormiveglia e una luce, una luce morbida come un balsamo, mi si appoggiò sulle palpebre.
Mi ritrovai seduto al tavolino di un bar. Riconobbi Ilio che mi parlava piegato su di me a un palmo dalla faccia ma non capivo cosa mi stesse dicendo. Aveva una mano poggiata sulla mia spalla e una sul suo ginocchio.
«Robbè, tutt’apposto?», credo mi avesse detto.
Ero ancora diviso, confuso, con pensieri sparpagliati e immagini sovrapposte di pranzi, parenti, tavolini e vicoli sconosciuti. Me ne stavo seduto sulla sedia con le braccia lungo i fianchi, intorpidito.
«Robbè, ma che minchia ti è successo? Perché sei scalzo?». Ilio non era preoccupato, sapeva che ogni tanto me ne andavo con la mente in luoghi lontani e sconosciuti.
«Tieni, prendi questo, prendi il caffè Robbè, prima che si fredda». Girai lentamente il collo e notai sul tavolino la tazza fumante. Era vero che stava lì ma prima di prenderla dovetti descrivere a me stesso quella visione come per assicurarmi che fosse reale. Le cose mi sembravano mute ed enigmatiche. Sussurrai inebetito le parole tazza, caffè, tavolino, senza muovere un dito. Tornai con gli occhi al viso di Ilio che mi fissava sorridente.
Ritornavano le parole di mia figlia, di mia suocera, di mia zia, la vecchia mulattiera che ormai però non esiste più. Il piano dell’immaginazione e quello del reale si sovrapponevano mescolandosi. Ricordai la morte della nonna ma ero quasi sicuro che non fosse mai successa. Tuttavia quella idea, come una specie di enorme lastra nera, calava su di me dal cielo spremendomi sulla sedia e io me ne lasciavo schiacciare senza reagire, come a voler volontariamente annegare.
«Robbè! Svegliati!», urlò Ilio, e con i suoi modi semplici e diretti mi mollò un ceffone che mi fece girare gli occhi all’indietro.
Stavo cadendo dolcemente nel buio. Se quel planare dentro l’oscurità era la morte non si capisce perché la si tema. Tuttavia, quando me ne accorsi, i miei polmoni si svuotarono immediatamente e gli occhi mi fuggirono dalle orbite per cercare di aggrapparsi di nuovo alla luce della vita.
Dovetti afferrarmi ai braccioli della sedia per resistere al desiderio, così vivo, di scomparire per sempre.
Per tornare al bar, per riagganciarmi al presente, feci uno sforzo enorme.
Mi riaccorsi della tazza sul tavolino, stavo ricadendo in quella specie di torpore ma improvvisamente, innervosito da quella idiozia ebete, afferrai la tazza, la portai alle labbra e bevvi il caffè in un sorso.
Me lo sentii scorrere per tutto il corpo, dalla trachea agli alluci. Al suo passaggio si schiudevano i vasi sanguigni e i pori della pelle. Emersi da un’apnea della coscienza la quale si rianimò come un pupo dell’Opera.
«Bene Robbè, ce l’hai fatta a tornare», disse Ilio. «Adesso ce ne prendiamo un altro che ancora siamo all’ingresso della selva».
«Queste furono le ultime parole che gli sentii dire, da quel giorno non l’ho più visto. Lunedì sono passato davanti all’incrocio e al posto del bar c’era una scuola.
«Non lo so dottore, non so più nulla io. Le disfunzioni nel pensiero mi sono aumentate e non riesco a darmi pace».
«Non si preoccupi, ha fatto bene a venire in clinica, vedrà che adesso la aiuteremo a trovare la sua serenità. Intanto beva questo, senza zucchero però».
Bevvi senza fare storie un brodino nero e amaro che solo a pensarci mi si stringono le labbra. Tutto intorno cominciò a farsi liquido, le forme si mescolavano come su una tavolozza di pittore. Mentre il mondo che mi stava davanti si storceva in spirali colorate riuscii a notare il cartellino del dottore che ciondolava appeso al camice ma quando lessi il suo nome lo stordimento fu più forte delle stupore che mi prese e credo che svenni o mi addormentai.
«Perché, come si chiamava il dottore?»
«Scombussolato come ero voglio credere di essermi confuso e qualora il dottore si fosse chiamato veramente Ilio non mi interessa e non lo voglio sapere».
«Ma non sei più tornato alla clinica?»
Una tazzina di caffè precipitò dall’alto sbattendo sul bancone, non se ne versò nemmeno una goccia ma il rumore interruppe il discorso e l’attenzione si disperse nel bar.
[…] [Questo testo è comparso su Nazione Indiana, il nove febbraio duemilasedici https://www.nazioneindiana.com/2016/02/09/ilio-o-il-bar-dellincrocio/%5D […]