Diario parigino 2. Colonia e il “fatto ultimativo”.

[Diario parigino 1]

di Andrea Inglese

Cose inutili da fare: scrivere su una notizia consumata.

 

La notizia l’ho letta in uno dei quei portali qualunquisti, su cui finisci quando ti colleghi ad internet. Potrei fare in modo di finire direttamente sul portale degli atei marxisti favorevoli alla letteratura sperimentale per il resto dei secoli, ma ho paura poi di non avere più anticorpi nei confronti del razzismo, del qualunquismo e della disinformazione ambientali.

Ci sono comunque delle notizie che non vuoi approfondire, ossia non vuoi andare al di là del titolo, anche perché buona parte delle notizie che ingurgitiamo si limitano alla lettura del titolo e del cosiddetto occhiello. Ebbene, io la notizia dei gruppi di maschi nordafricani e arabi che sono andati a molestare le donne in giro per Colonia durante la notte di capodanno non avevo davvero voglia di leggerla. Ci sono notizie come quelle relative alla bicicletta da corsa trovata nella pancia di uno squalo spiaggiato sulle coste australiane. Che la notizia sia stata gonfiata o meno, che sia poco o molto documentata, si sa già in partenza che intorno ad essa non si scatenerà un conflitto ideologico. Con la notizia sulla notte di Capodanno a Colonia si percepisce subito che non andrà così. Il contesto sociale e politico vuole che tale notizia sia considerata da una grande quantità di opinionisti una sorta di prova di realtà solenne e definitiva, come se si trattasse di un fatto ultimativo, dopo il quale nulla di convincente potrà accadere nel mondo che riguardi la condizione dei migranti e quella delle donne, o la struttura delle società europee e la fisionomia delle migrazioni nel primo secolo del nuovo millennio. Nessuno, insomma, se ne potrà stare tranquillo per qualche settimana, dal momento che è intorno alla lettura di quel fatto che si deve decidere il destino del mondo occidentale, della democrazia e dell’ordine sociale, dello statuto universale della donna e di quello dell’aggressore sessuale archetipico.

Ovviamente non c’è nulla di divertente in tutto questo. La notizia è brutta, da tutti punti di vista, e rende pubblico un fatto odioso. E uno non sempre è docilmente disposto a piombare nella tempesta ideologica per due o tre settimane. (Va detto, che se certe notizie assumono di colpo il carattere di fatto ultimativo, in modo altrettanto rapido spariscono poi dall’orizzonte dell’insonne opinione pubblica occidentale.) La mia riluttanza di fronte alla brutta notizia non era frutto di apatia e indifferenza, ma di una certa spossatezza, diciamo, ideologica. Come tutti, ho un’ideologia. (Molte persone credono che l’ideologia la abbiano solo gli altri, come l’avarizia o l’invidia. Gli adepti del pensiero liberal-liberista tacciano di “ideologica” ogni visione del mondo che porti con sé elementi di conflitto e non si accontenti di riconoscere l’economia capitalista come lo stadio ultimo e più razionale di organizzazione del mondo. D’altra parte, molti marxisti considerano che la loro visione del mondo sia senza filtri, cristallina, scientifica, mentre ovunque altrove siamo nel dominio della distorsione e della mistificazione. L’idea che le ideologie siano antropologicamente necessarie a connettere le società umane con se stesse e con il mondo non è ancora molto condivisa. E nemmeno è condivisa l’idea che se tutti abbiamo bisogno di un’ideologia, non tutte le ideologie si equivalgono.) E avere un’ideologia implica un incessante lavoro di aggiustamento tra le prove empiriche quotidiane e i principi dottrinari che, in qualche modo, sono le costanti, gli apriori del nostro sguardo sul mondo. Succede a noi, in piccolo, quanto succede agli scienziati con le teorie scientifiche e la trafila degli esperimenti che dovrebbero confermarle o falsificarle. Ci sono certi fatti che fanno male a certi nostri principi.

I fatti di Colonia facevano male a certi miei principi. Il reazionario della porta accanto potrebbe venire a dirmi: “Certo, non vuoi guardare in faccia la realtà. Vuoi rimanere nel tuo buonismo di persona di sinistra, ecc.” In realtà, quando un fatto ultimativo viene presentato dai media, come Facebook insegna, siamo tutti chiamati a un dovere impellente: ci dobbiamo costruire un’opinione. Inoltre, non sempre sappiamo che opinione farci a partire da un fatto ultimativo. L’ideologia serve per tradurre un fatto in un’opinione, e permetterci di andare avanti per la nostra strada, saldi sulle certezze non dico dell’altro ieri, ma almeno di ieri. Se il fatto di primo acchito non è riducibile in modo automatico a un’opinione, se non siamo nella semplice conferma di ciò che già sappiamo o crediamo di sapere, c’è un minimo lasso di tempo, in cui siamo chiamati a ragionare con la nostra testa più del solito. E questo comporta un certo dispendio di energie e di tempo. Nel caso della notizia sulle aggressioni di Colonia, si è costretti a gettarsi innanzitutto in una ricostruzione critica del fatto, confrontando fonti diverse, aggiornandole, cercando di fare una tara delle suggestioni giornalistiche, ecc. (È quello che ho visto fare, ad esempio, a l’amica Helena Janeczeck sulla sua pagina Facebook, mentre redigeva un articolo che sarebbe apparso su pagina 99. E Helena, per di più, conosce la lingua e la realtà sociale tedesca. Ma se mettiamo assieme lavoro di ricostruzione e lavoro di demistificazione sul fronte dei media, l’impegno richiesto è davvero notevole. Se ne può avere un’idea leggendo un lungo pezzo apparso qui.) E tutto questo nel tentativo di giungere il prima possibile ad una valutazione della notizia, dal momento che la finestra temporale per partecipare alla tempesta ideologico-mediatica è strettissima. Tre settimane se va bene. Quindi uno deve farsi un’opinione il più possibile personale – leggi: in accordo con la propria ideologia – e, nello stesso tempo, deve realizzare una piccola inchiesta per cercare di chiarire le circostanze del fatto stesso, sulle quali poi si baserà la suddetta opinione. Lo spettro delle attitudini intellettuali nei confronti di una notizia comprende poi vari gradi di prudenza critica. (Agli estremi dello spettro, i complottismi opposti. Per gli uni, i gruppi di aggressori erano in realtà figuranti stipendiati dai servizi segreti americani, ungheresi o israeliani; per gli altri, gli aggressori erano in realtà gli esecutori di un vasto programma d’aggressione contro la civiltà Occidentale, perpetrato direttamente dai rifugiati.) Quando alla fine si ha conquistato una propria opinione, il grosso del lavoro è fatto, e la notizia entra subitamente in una fase, diciamo, “digestiva”.

Da dove viene questa ingiunzione a farsi un’opinione, e eventualmente a difenderla sui social network, in quello spazio ibrido tra privatezza e spazio pubblico, in cui siamo ormai largamente immersi? Innanzitutto c’è una sorta di dovere di contro-propaganda. Il tasso ordinario di mistificazione della realtà intorno a certe questioni chiave che assillano l’Europa è in crescita costante. L’impotenza politica dell’Europa di fronte all’emergenza storica provocata dal flusso migratorio di questi ultimi anni, aggravato dai diversi scenari di guerra nel mondo arabo, non fa che alimentare esorcismi di propaganda. Ciò appare chiaro nel caso italiano, dove anche organi d’informazione tradizionalmente moderati come “La Stampa” e “La Repubblica” possono permettersi interventi allineati con la peggiore stampa razzista. Ma soprattutto è importante cogliere l’aspetto caratteristico di un discorso propagandistico che viaggia costantemente sul filo dell’esorcismo, del diniego della realtà. Esso non può che rimestare l’immaginario, il pozzo dei fantasmi, tutto ciò che va nella direzione opposta rispetto agli obiettivi che dovrebbero essere della politica, ossia il lavoro di mediazione tra istanze diverse, contradditorie, articolate. L’esorcismo di propaganda deve compensare questa mediazione fallita con un’immediatezza di successo. Esso deve sostituire alla difficile ragione politica, che agisce sul terreno della realtà storica, dosi di immaginario galleggiante in limbi senza tempo. Deve opporre al dialogo complesso tra soggetti, circostanze sociali e culture diverse finzioni semplici e rassicuranti. Non c’è allora da stupirsi che emerga, in Italia, un prepotente immaginario colonialista datato anni Trenta-Quaranta, che se ne stava solo provvisoriamente addormentato.

La stanchezza ideologica, di cui parlavo all’inizio, dipendeva appunto da questa necessità di “saltare” il fatto specifico – un alto numero di aggressioni sessuali e di furti realizzati da gruppi di uomini in gran parte nordafricani e mediorientali contro delle donne in giro per Colonia durante la notte di Capodanno – per concentrarsi sulla decostruzione della propaganda nutrita di vecchi fantasmi colonialisti e razzisti. Il paradosso del “fatto ultimativo” è che ti spinge costantemente verso il limbo dell’immaginario, dove sei ogni volta confrontato con spettri del passato, senza mai poterti concedere il lusso di pensare non di rimbalzo, non per fare, con la tua opinione più o meno sana, da contrappeso all’opinione malata. Ciò che ho apprezzato nell’intervento di Žižek (Gli attacchi di Colonia erano una oscena versione del carnevale) è proprio la sua volontà di perforare l’effetto rimbalzo, per cercare di cogliere – come lui stesso scrive – l’elemento di verità specifico dei fatti di Colonia, basandosi sulla ricostruzione documentaria al momento più plausibile. Nello stesso tempo, a voler essere davvero ottimisti, mi dico che il lavoro di rimbalzo nei confronti della propaganda, soprattutto di questo tipo di propaganda agitatrice di biechi fantasmi culturali e nazionali, costituisce anche un’occasione importante di misurare la maturità, almeno, di una parte delle società europee.

Non era nel ’46 né nel ‘48 che la coscienza degli Italiani si sbarazzava una volta per tutte di un immaginario coloniale, in cui era rimasta a bagno per decenni. L’oblio della Prima Repubblica ha permesso, come sempre accade in casi simili, di conservare i fantasmi ideologici del passato in forma letargica, ma dotati di una perdurante freschezza. Appena li si sollecita, infatti, dilagano con estrema virulenza. Guardando, però, anche solo dallo spioncino nostro, nazionale, si vede come la contropropaganda sui fatti di Colonia sia stata fatta in prima persona da donne, variamente e lucidamente armate contro il sessismo – di casa o d’importazione – e da persone che sono nate in epoca post-fascista, e che hanno avuto modo di dissipare con strumenti storici e critici i fantasmi e le mitologie dell’epoca coloniale.

Ecco, ho scritto dell’altrove, ora dovrei – per rispetto allo schema diaristico preso da Kafka – parlare della mia lezione di nuoto. Dovrei parlare del mio qui. Del posto dove sto, dove abito, delle ore che passo in questo posto, di come è fatto, con tanti angoli, ma non troppi, e delle strade, fuori casa, che percorro, sempre le stesse, della monotonia, che è una monotonia da paradiso terrestre, con i caloriferi caldi, sia nel soggiorno-cucina che in camera, e anche nel piano di mezzo, perché dovrei parlare di una casa che non è null’altro che una serie di stanze aggrappate a una scala, perché abito in una casa-scala, con molte finestre, ma sono poi le stesse finestre, con gli stessi paesaggi stagionali, e in questa monotonia c’è ogni giorno la doccia con l’acqua calda, e poi ci sono le ore di lavoro, la monotonia del lavoro, che fortunatamente c’è, mese dopo mese, senza doverlo rincorrere e costruire ogni giorno, ed è questa la prima realtà, assolutamente insufficiente, una fantasmagoria di oggetti che si prendono in mano e si posano ogni giorno, come un bicchiere o un coltello. C’è tutta una serie di cose, di persone, di incontri, che stanno in questa vicinanza, come l’armadio con dentro i vestiti, un elegante armadio anni settanta, comprato usato, di legno pregiato – quale? – con delle maniglie rettangolari di metallo, questo armadio è sempre lo stesso, per delle ore intere, giorno dopo giorno, una montagna di ore, quell’armadio entrato qui dentro, entrato nella camera da letto che è anche il mio studio, è lo stesso, impassibile, anche se qualcosa pure in lui invecchierà, non si scorge nulla ad occhio nudo, sì, della polvere, che si deposita sulla parte superiore, l’unica cosa che lentamente si muove, si accumula, ne modifica appena la fisionomia.

Perché mai ho voluto scrivere di Colonia? Il fatto ultimativo è già stato consumato. Quando queste pagine acquisteranno una prima forma pubblica sul blog collettivo a cui collaboro, i fatti di Colonia saranno già passati nella fase digestiva, perché nel mondo, e persino nella piccola Italia, esistono centinaia di fatti che fanno notizia ogni giorno sopra uno straordinario mareggiare di fatti che non fanno alcuna notizia e, tra i fatti che fanno notizia, ce n’è sempre qualcuno che verrà scelto per assumere le fattezze del fatto ultimativo, in cui si gioca il destino di un’intera civiltà. D’altra parte questa scrittura è nata in ritardo, e sarà sempre in ritardo, e la sua insufficienza è anche ciò che ne costituisce il programma. Ho parlato delle aggressioni di Colonia, perché il fatto ultimativo mi permette di agganciare lo sterminato e spettrale “qui” della vita quotidiana a queste sporgenze di realtà, una realtà in maiuscolo, solenne, cotta al calor bianco del conflitto ideologico. Questa cosa è difficile da dire, me ne rendo conto. Vi è la continuità di vita, con una vicinanza di affetti che possono essere fortissimi, ma anche la presenza di piccoli tormenti, sentiti come attraverso un sistema d’amplificazione, le configurazioni familiari del mondo dentro cui stiamo ed evolviamo materialmente, fisicamente, ogni giorno. Tutto questo si svolge in una dimensione incalcolabile del tempo, che a volte acquista la luce ferma, definitiva, della morte, mentre lontano da noi qualcosa assume la forza di un accadimento perentorio, dentro cui sembriamo essere trasportati e trasfigurati, come nel corso di una cerimonia. È l’accadimento che promette mondo, e realtà più luminosa, incandescente. Ritroviamo appartenenze, corpi collettivi, e un unico territorio, dentro cui delle vicende sembrano delinearsi non troppo lontano da noi, in una zona che pare malleabile per un istante alle nostre possibilità d’azione. A volte invece, più silenziosamente, più raramente, siamo semplicemente catturati tra due visioni spettrali: la vicinanza di tutto ciò che controlliamo quotidianamente, e che ci controlla in modo inesorabile, e la lontananza di ciò a cui vorremmo appartenere, un mondo reale, popolato, saturo di senso, che che tende a dissolversi non appena il nostro officiare si fa più stanco, disorientato, disilluso.

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6 Commenti

  1. Forse. Le notizie e l’opinione che di esse dobbiamo farci: siamo circondati di notizie, come di “cose”, ma anche quelle cose-notizie dobbiamo imparare a disporle a nostro modo, farle entrare in una coerenza, come le cose della coppia di Perec erano costantemente sistemate, collocate…

  2. La violenza. Ogni donna, ragazza sa dalla violenza.

    Dobbiamo tutte essere unite per fare sentire la nostra voce.

    Nessuno non deve mettere in pericolo la nostra libertà di festeggiare, di camminare nella strada.

    Quelle che è accaduto a Cologne mi ha sconvolta.

    Maschi che hanno deprezzo per donne.
    Negli anni 70 le donne hanno combattuto per il rispetto del corpo della donne.
    Uno stupro è uno stupro.
    A vedere: l’amour violé un film che racconta il combattimento di una donna per fare riconoscere lo stupro che ha subito.

    Le donne non sono colpevoli.

    Sono in rabbia quando leggo articoli che cercano da trovare scuse.

    La libertà delle donne è fragile. Avrei voluto che tutte le donne in Europa dimostrino solidarità con donne di Cologne e tutte le donne che subiscono violenza nel mondo.
    Penso che il femminismo è attuale.

  3. La stanchezza di leggere dice molto…L’impossibilità di vedere, di sentire come il corpo di una donne possia essere devastato.
    Come essere una donna puo significare avere paura e avere male: stupro, morire durante un aborto, subire violenza durante anni, correre nel buio.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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