L’ordinarietà che sorprende. Qualche considerazione sulla ricezione di Carol
di Ornella Tajani
Sul piano della qualità filmica Carol di Todd Haynes è un prodotto medio, e forse è giunta l’ora di abituarsi al fatto che un film che racconta una storia omosessuale non deve necessariamente battere un qualche primato, per farsi strumentalizzare e prestarsi a vessillo dell’una o dell’altra barricata, ma può serenamente collocarsi nel larghissimo spazio che sta tra il capolavoro e il disastro, senza disturbare nessuno dei due estremi.
Le due protagoniste Cate Blanchett e Rooney Mara sono brave e convincenti, e alcuni tocchi di regia, alcune inquadrature sfumate tra il bluastro e il verde sono molto gradevoli. Detto ciò, il film risente dell’operazione di taglia e cuci cui deve averlo costretto l’adattamento dal romanzo di Patricia Highsmith: il filo della trama, ora esitante ora precipitoso, si svolge fra lacune e qualche incongruenza, e i dialoghi risuonano a volte così scontati da suscitare nello spettatore un’immediata sensazione di déjà-vu; ma forse è proprio questo effetto che, per quanto riguarda la ricezione, costituisce un punto di forza del film.
Come è stato già notato, Carol ricalca il modello cinematografico hollywoodiano anni ’50 e ci si potrebbe sbizzarrire nel ritracciare il palinsesto di un plot che è un po’ la copia di mille riassunti, come cantava Samuele Bersani. Tuttavia, proprio muovendosi all’interno di uno spazio formale già noto, il film riesce a raccontare una storia d’amore senza nulla concedere ai temi solitamente trattati dalle narrazioni di coppia omosessuali, rifiutando inoltre lo schema dell’extra-ordinario e adottando quello dell’ordinarietà. Nessuna delle due protagoniste, ad esempio, si ritrova di colpo intimamente o dolorosamente costretta a fare i conti con l’attrazione per una donna: non lo fa Carol, seppur sposata e madre, né la più giovane Therese, nonostante abbia al suo fianco un fidanzato che la spinge a partire da New York per l’Europa. Questi due personaggi non sono donne eccezionali, non appaiono particolarmente ribelli, non hanno gusti o stili di vita sopra le righe che avrebbero potuto portarci a concludere che, negli anni ’50, un’attrazione omosessuale fosse possibile solo fra donne fuori dal comune; anche nel look e nei modi, sono in tutto e per tutto aderenti al modello femminile dell’epoca. Inoltre, Carol e Therese si desiderano senza esitazioni di sorta, e si vengono incontro in maniera determinata, senza fretta ma anche senza dubbi. Non esiste nessuna presunta scusante biografica o sociale alla loro voglia di stare insieme, non si indugia sul loro passato, non si precisano le passate esperienze dell’una o dell’altra con particolare zelo. Nessuna molla sofisticata fa scattare l’attrazione e il loro colpo di fulmine è di una semplicità che impedisce ogni eventuale congettura. Non c’è spazio, insomma, per le facili etichette e il rapporto tra le due donne si cristallizza in una dimensione sospesa e cangiante, non dissimile da quella rappresentata dal loro viaggio in auto, che non prevede una destinazione precisa ma non è nemmeno una classica fuga, e la cui principale ragion d’essere sta proprio nel creare la condizione dell’incontro.
L’unico momento in cui lo spettro della morale fa la sua comparsa è pienamente giustificato, concreto, poiché per le protagoniste il fatto di essere due donne comporta – in maniera quanto mai attuale – un ostacolo di ordine giuridico, ossia l’affidamento a Carol della figlia che il marito vuole sottrarle. A questo punto lo spettatore prevede di assistere al solito epilogo vintage fatto di rinunce squisitamente “femminili”, di madri-coraggio declinate all’americana, e inizia ad assaporare il gusto di paglia di una conclusione infelice, perché “erano solo gli anni ‘50” e l’emancipazione aveva ancora tanta strada da fare. Invece Carol non cede a nessun ripiegamento identitario e, con una mossa da non sottovalutare, il film serve sul piatto l’happy end, la cui portata politico-culturale è considerevole: il messaggio che passa, infatti, è che, nonostante siano due donne, la loro storia può finire bene, e anche lo spettatore estraneo alle tematiche gay esce dalla sala, io credo, intenerito e rassicurato dal lieto fine – lo stesso lieto fine che nelle grandi produzioni cinematografiche della Hollywood di metà secolo serviva a confermare l’ordine sociale precostituito.
Carol è una storia per il grande pubblico costruita su un abile paradosso, perché rappresenta l’amore omosessuale senza ghettizzare, rovesciando come un guanto il modus narrandi del grande mélo, scardinando il ruolo da protagonista della coppia eterosessuale e spostando la narrazione in un’epoca un po’ lontana ma visivamente, cinematograficamente nota e ben riconoscibile. «Il pubblico vuole riconoscere, più che conoscere, perché riconoscere è meno faticoso», ha detto una volta Jean Cocteau.
Naturalmente la realtà può essere molto più complessa e faticosa della finzione, ma forse di tanto in tanto non è un male ricordare che potrebbe anche essere più semplice di com’è. Nella prefazione a Tricks (1979) di Renaud Camus, un diario di incontri sessuali occasionali, Roland Barthes scrive che il libro «prova a raccontare il sesso omosessuale («l’homosexe») come se si trattasse di una battaglia già vinta, come se i problemi che un tale progetto comporta fossero già stati risolti: lo racconta tranquillamente». Il caso del film Carol è in parte simile poiché, pur non rinunciando a far scorgere i problemi che le due protagoniste sono costrette ad affrontare, lascia sullo sfondo il discorso sulla condizione omosessuale, riducendo gli ostacoli a elemento esterno alla coppia, a fattore di crisi necessario alla trama; così la coppia appare in tutta la sua interezza, in tutto il suo essere, in fondo, “socialmente possibile”, e lo spettatore ne ricava un sapore di familiarità.
Volendo ipotizzare un punto d’arrivo simbolico nel percorso di rappresentazione e ricezione di narrazioni omosessuali al cinema, io, sparigliando un po’ le carte, proporrei il seguente: che la definizione stringata di un film come Via col vento fosse «È una storia d’amore tra un uomo e una donna» e non soltanto «È una storia d’amore», polverizzando così il consacrato predominio eterosessuale sull’amore per antonomasia. In quest’ottica un film qualitativamente medio come Carol segnerebbe una tappa significativa proprio nel suo essere, semplicemente, una storia d’amore tra due donne.
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Grazie per l’articolo. Volevo vedere Carol questo week-end, ma il vento mi ha fatto rimanere a casa con un libro.
Spero vederlo.
Mi hanno piaciuto La vie d’Adèle, La belle saison.
L’amore tra due donne diventa visibile.
Finalmente.
Negli anni 50 e 60 negli Usa c’era una notevole produzione di libri commerciali sul lesbismo.
Per trattare l’argomento omosessuale era però in atto un dispositivo che permettesse di scavalcare l’intervento della censura.
Per cui per esempio: niente lieto fine, introduzione di figure maschili in atto di spiare, ritorno all’eterosessualità…
Qui un link sull’argomento del lesbo-pulp
http://www.cinemagay.it/dosart.asp?ID=29272
grazie per il link, molto interessante
Condivido. Il film non l’ho ancora visto, ma non ha importanza rispetto a quel che si scrive nell’articolo. Mi è venuto in mente un vecchio libro di gioventù, di Teresa De Lauretis, sulla costruzione dell’immaginario. Il titolo era Sui generi.
A me non è parso per nulla medio, per le ragioni che dici tu: non è mai stato facile raccontare l’amore che succede e basta, il desiderio di felicità che investendo proprio quell’altro/altra, è comunque una forza sovversiva che entra in conflitto con altri desideri e anche altri amori, come quello di Carol per la figlia. Ancora più difficile è pensare a un lieto fine alternativo alla tragedia, e questo non perché la scelta sia dimostrativa di un messaggio universale ma perché risponde semplicemente alla capacità di quelle due donne singole di assecondare ciò che più desiderano.
[ricopio la risposta data nel commento al post su fb]
beh, io ho detto complessivamente medio, non mediocre. Per me non è un capolavoro (e di capolavoro sento già parlare, gli Oscar eccetera), perché nella prima metà il ritmo è altalenante e narrativamente si sente la condensazione; e perché parte dei dialoghi a me son sembrati banali. Non mi pare che ci sia grande introspezione sui personaggi, e anche il conflitto tra l’amore materno e quello per la partner mi sembra trattato piuttosto rapidamente. Certo, c’è da rispettare i tempi del film, ma qualcosa nella prima metà si poteva tranquillamente tagliare (sempre secondo me). Detto questo, la storia tra le due riesce lo stesso a coinvolgere.
In ogni caso il mio intento era solo quello di fare qualche considerazione sulla ricezione, e non sul film in sé; quando ad esempio parlo del lieto fine, ne parlo da questo punto di vista e non da quello artistico: e qui secondo me sì, c’è un “messaggio” che arriva al pubblico (vedi anche il link di Nadia, che lo conferma per contrasto col discorso della censura di allora, che proibiva l’happy end).
Condivido in pieno con i commenti tecnici di Ornella (dialoghi incerti e alle orecchie di chi vive negli USA quasi sgrammaticati) Medio, non mediocre. Adattamento incerto.
Ottima recitazione. Rende l’idea della ghettizzazione Al tempo di Mary McCarthy e il suo indimenticabile romanzo Il gruppo. Non sono sicura del motivo X cui Carol abbia fatto tanto scalpore in Italia e ringrazio Ornella X avermi chiarito le idee.
Carol, il famoso film su un aitante marito innamorato (Harze) e un aitante fidanzato innamorato (Richard) che vengono bistrattati e abbandonati dalle rispettive donne solo perché hanno perso la testa l’una per l’altra:-)