La battaglia al contrario

nave_guerradi Romano A. Fiocchi

(La battaglia” è il titolo del capitolo numero Sei di un bi-romanzo di trentaquattro capitoli ancora work in progress. Bi-romanzo in quanto si tratta di due romanzi intrecciati dove i capitoli si alternano sino a confluire in un unico finale. Quello descritto non è uno scontro qualsiasi ma la battaglia navale che determinò il trionfo dell’Occidente sull’Oriente. Era il 2 settembre del 31 a.C. Con il mio intervento letterario ne ho fatto una battaglia al contrario, nel senso che ho capovolto storicamente le sorti dell’evento. In fondo è così anche nel mondo reale: basta un nulla per cambiare il corso di una civiltà. r.a.f)

* * *

Mio padre odiava la guerra, disse il giovane marinaio.

La odiavamo insieme, disse Catullo.

Allungò il braccio, l’indice teso verso una striscia scura che affiorava sull’orizzonte. La costa dell’Acarnania. Gli occhi di lattuga di mare erano trasparenti:

Laggiù c’è Azio, – disse.

Era un altro tassello della sua idea monolitica: la battaglia di Azio. L’odore di quella battaglia sul mare si era perso nei secoli ma Catullo sapeva che era lì che il mondo aveva voltato pagina. Era davvero l’unica battaglia che avesse avuto un senso nella storia dell’umanità, per quanto l’umanità e la sua storia potessero averne. Il nonno di suo nonno vi aveva partecipato. Oppure era stato il padre del nonno di suo nonno. Chiunque fosse, il suo avo aveva calcato la terra del promontorio di Azio al seguito delle legioni di Publio Canidio Crasso e vi aveva perso la mano destra, dilaniata da una catapulta e poi amputata. Fu allora che pronunciò la storica frase: “Cazzo, ecco l’occasione per provare la forza dei mancini!” Era un uomo che pensava positivo. Il fantasma dell’eroica mano amputata ossessionò per generazioni la famiglia di Catullo come se la battaglia di Azio si riducesse a quell’unico episodio. Era il fantasma di una mano che prima di essere dilaniata aveva risposto al cenno di Antonio quando aveva dato il via alla battaglia. Le grida di comando si erano propagate di nave in nave e avevano rotto il silenzio che regnava sul mare. I tamburi incominciarono a pulsare come cuori nei ventri degli scafi. Gli scalmi gemettero sotto lo sforzo dei remi che battevano all’unisono la superficie e sollevavano piccole onde di schiuma. La flotta di Antonio e Cleopatra lasciava il golfo di Ambracia. Il nemico l’attendeva al di là del promontorio. E con il nemico, la Storia. Qualche giorno prima, la squadra di Gaio Sosio aveva approfittato della nebbia ed era uscita per valutare la situazione. La sortita improvvisa aveva permesso a Sosio di assalire la squadra di Arrunzio ma il luogotenente di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa, si era precipitato in suo aiuto e aveva costretto l’aggressore a ripiegare nel golfo. Anche Canidio, con le sue legioni che controllavano l’imbocco del canale e i piedi del promontorio, aveva confermato il blocco navale. La flotta di Ottaviano tagliava i rifornimenti via mare, ben sapendo che via terra sarebbero stati impossibili. Era un gatto davanti alla tana del topo. La battaglia navale divenne inevitabile. Occorreva spazzare l’ingresso del golfo e riprendere il controllo del mare.

Si alzò una leggera brezza. Scendeva dalle coste dalmate e investiva tutta l’Acarnania. Le navi scivolavano via con i loro rostri taglienti. Fendevano le onde sul pelo dell’acqua. L’aria sapeva di morte. Antonio pensava alle vele che aveva caricato a bordo e che molti avevano guardato con sospetto. Nessuno porta con sé le vele per una battaglia, in battaglia si usano i remi. Sapeva che i paurosi lo credevano pronto ad una fuga, i valorosi all’inseguimento delle liburne di Ottaviano molto più leggere delle sue quinqueremi. Ecco perché le vele. L’Antonias, nave ammiraglia di Cleopatra, navigava dietro di lui accompagnata dalle sue sessanta quinqueremi da guerra. Antonio ne distingueva il vessillo che garriva contro il cielo azzurro. Avrebbe preferito un vento da sud, che gli portasse l’odore di Alessandria, l’aroma dei legni bruciati sul Faro, i profumi salmastri del lago Mareotide. Ma Alessandria era lontana. Soprattutto per lui, che cominciava a sentirla come la sua città.

Davanti al golfo apparve lo schieramento delle navi di Ottaviano. Erano quasi tutte triremi e liburne, imbarcazioni che nulla avrebbero potuto contro le possenti quinqueremi della flotta egizio-romana. Antonio sapeva che da parte delle navi di Ottaviano sarebbe stata, più che una battaglia, una scaramuccia continua fatta di incursioni giocate sull’agilità di manovra. Piccole e insistenti ferite che avrebbero potuto dissanguarlo. Doveva aggirare il nemico, bloccarne il movimento con le sue fortezze galleggianti.

La flotta romana era disposta in semicerchio, da meridione verso settentrione. Le squadre dell’ala destra erano comandate da Marco Lurio, al centro Lucio Arrunzio, a sinistra Agrippa. Con Agrippa c’era la nave di Ottaviano. Antonio dispiegò le sue navi di fronte a quelle romane, anche lui in semicerchio. Sosio al comando dell’ala sinistra, di fronte a Lurio, e Lucio Gellio Publicola a destra. Le spalle di Publicola erano coperte dalla quinquereme di Antonio. Al centro, gli antoniani Marco Insteio e Marco Ottavio insidiavano le squadre di Lucio Arrunzio. Le navi di Cleopatra erano anche loro in posizione centrale, nelle retrovie, pronte a forzare il blocco. Gli equipaggi di entrambi gli schieramenti si guardavano in silenzio. I tamburi tacevano. Cigolii di corde e di legni impregnavano l’aria. I rematori riposavano prima dello sforzo supremo. Sembravano tutti cose già morte. E la morte era lì, con la sua enorme falce, in compagnia delle Parche. Tra non molto avrebbe regnato su quelle imbarcazioni. Soltanto allora Antonio si rese conto che stava spingendo la propria gente contro la propria gente. La nuova Roma d’Oriente contro la vecchia Roma d’Occidente. Era una battaglia contro se stesso. Comunque fosse andata, avrebbe perso. La vera vittoria poteva appartenere soltanto a Cleopatra.

Un grido. I tamburi della squadra di Sosio incominciarono a pulsare, le pale dei remi a tuffarsi. Sosio costrinse Lurio a ripiegare stringendo il cerchio. Anche Agrippa, sull’ala opposta, retrocesse sotto la pressione di Publicola. La flotta di Antonio abbracciò la flotta romana in una morsa. La linea delle imbarcazioni si sgranò lasciando scoperto il centro. Fu allora che Cleopatra si introdusse nel cuore della flotta nemica dando inizio alla battaglia. Lo speronamento con i rostri acuminati aveva già fatto le prime vittime nelle squadre di Ottaviano. Alcune triremi affondavano miseramente tra le urla dei rematori rinchiusi nei ventri delle navi e quelle dei legionari che affogavano sotto il peso delle corazze. I rostri delle navi di Ottaviano non riuscivano a fare altrettanto: le quinqueremi di Antonio erano rinforzate con fasci di legname e placche di ferro. Il genio di Agrippa sfoderò allora l’arma segreta: il corvo, enorme rampone d’arrembaggio. Le sue navi affiancavano quelle nemiche e lo lasciavano cadere sul ponte avversario sfasciando i parapetti e conficcando gli uncini nella tolda. Sulla passerella del corvo scorreva gridando un fiume di legionari pronti al combattimento. La battaglia da navale si trasformava in terrestre. Intanto dalle torri di triremi e quinqueremi gli arcieri scatenavano una pioggia di frecce. Il cielo era solcato dai proiettili infuocati scagliati dagli onagri. Uomini squarciati dai dardi delle baliste. Braccia troncate. Carni trafitte. Corpo a corpo cruenti. Sangue che sprizzava. Grida di aiuto e di dolore. I corvi azzannavano le navi nemiche con velocità sorprendente ma la flotta di Antonio stringeva sempre più le sue mascelle proprio sull’ala sinistra, quella di Agrippa. Gli arcieri di Cleopatra offuscavano il cielo di frecce cosparse di pece accesa. Ovunque urla, fumo, incendi. Sempre più limitate nei movimenti dalla morsa egizio-romana, le liburne e le triremi di Ottaviano non riuscivano ad evitare gli speronamenti. Il mare ribolliva di morte. La superficie era ricoperta di rottami, cadaveri, pezzi di legno fumanti. Tutto, nel giro di qualche giorno, sarebbe finito sulle coste dell’Acarnania. Il mare rigetta ciò che non gli appartiene, compreso il dolore. La trireme di Ottaviano, colpita dal rostro di bronzo della nave di Publicola, imbarcava acqua. Ottaviano si trasferì sulla liburna di Agrippa. Ma fu lì che Cleopatra, a bordo dell’Antonias, lo vide. La splendida regina alzò le braccia al cielo e invocò la forza del dio Serapide, più potente di tutti gli dei di Roma perché concentrava in sé la rabbia di Osiride Api Dionisio Zeus Esculapio Plutone. Poi chiamò forte Alessandro, protettore dei Lagidi e di tutti gli abitanti della città da lui fondata. Dal mare emerse lo spirito di un guerriero con la causìa in testa, dietro di lui migliaia di altri spiriti guerrieri che diedero forma alla terribile falange macedone. Un grido di battaglia e le onde si sollevarono sotto una forza impetuosa travolgendo le flotte. Le imbarcazioni di Ottaviano, più leggere, furono scagliate in tutte le direzioni. I corvi piantati da Agrippa nelle quinqueremi avversarie furono strappati alla base, i remi spezzati, affondate le navi in avaria. La tempesta travolse tutti ma le navi delle flotta egizio-romana, grazie alla loro stazza, mantennero il controllo e riuscirono a restare in formazione. Quando la violenza del mare cessò, i legionari di Antonio e le truppe egizie di Cleopatra fecero il resto. Assalite le navi avversarie, ormai disorientate e divise, ne massacrarono gli equipaggi risparmiando soltanto chi giurava fedeltà ad Antonio. Agrippa, avvertita la disfatta, si gettò sulla propria spada. Arrunzio si arrese e fu costretto schierarsi con Antonio. Lurio morì colpito dal dardo di una balista. Il corpo di Ottaviano non fu mai ritrovato.

Intanto a terra, le legioni di Canidio venivano trasbordate dalle squadre di Sosio sull’altra sponda del canale e sbaragliavano le legioni di Tauro, terrorizzate dalla voce della disastrosa sconfitta navale e decimate dalle diserzioni. Tra i vincitori si contarono alcuni morti, qualche ferito e una mano destra dilaniata da una catapulta.

La notizia del trionfo di Antonio e Cleopatra raggiunse Alessandria. Antonio fu proclamato Imperatore. Fu una festa sfrenata sino a notte fonda.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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