Do you remember George Best?

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di

Francesco Forlani

C’è qualcosa d’ipnotico in un gol; liddentro deve esserci per forza qualcosa di simile all’incantesimo di una fiaba, per fare in modo che la ripetizione della scena, dell’azione, il replay, riesca a suscitare la stessa meraviglia provata per la prima volta dallo spettatore. Ecco perché nel periodo natalizio, oltre ai famosi Totò e Peppino trasmessi  a getto continuo o alla Vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra, nelle case del Sud si ripassano a memoria i gol di Maradona attraverso canali dedicati o malridotte VHS riposte in un vecchio armadio e tirate fuori, per l’occasione, insieme all’impolverato videoregistratore.

Così il gol diventa doppiamente ipnotico se consumato in Rete, su internet, facendo però ben attenzione a non “farsi rovinare” le feste dalle playlist, tipo i migliori dribbling di tutti i tempi, le migliori punizioni, ecc; il flusso vitale, ininterrotto, deve essere monografico, non necessariamente organizzato in ordine cronologico, al massimo orientato da micro percorsi tematici, tipo assist, pali traverse, dribbling e appunto gol. Come in ogni flusso di coscienza è fondamentale, nella narrazione, prevedere dei salti, flashback, condensazioni, travestimenti, esattamente come accade nei sogni.

Riuscire a raccontare un sogno, gran bella impresa! Lo sappiamo tutti avendo almeno una volta sperimentato la difficoltà a “rendere” se non vera, almeno verosimile l’esperienza allucinatoria appena trascorsa. Eppure Duncan Hamilton, autore di questa biografia romanzata riesce non solo a “renderci” i dati di quella esperienza ma a trasmetterci la stessa energia. Ci sono delle vite che potrebbero indubbiamente raccontarsi da sole e quella di George Best è sicuramente una di queste; sono delle vite per certi versi esemplari, come quelle dei dandy in cui l’opera è la vita, e dove un semplice aneddoto apre una breccia nell’immaginario collettivo. Quello che riesce invece a Duncan Hamilton ed è grazie allo stile e alla passione della sua scrittura (eccellente la traduzione di Francesca Benocci e Roberto Serrai ), è la variazione su uno stesso tema, quello della caduta e ascesa di una popstar, oltre che campione sportivo, capitolo dopo capitolo, passaggio dopo passaggio; variazioni che si reggono attraverso innumerevoli rimandi, musicali, cinematografici, televisivi talmente essenziali che in più di un caso si lascia la pagina scritta per riascoltare i 10cc – I m Not In Love,   o vedere per intero il film più amato da George Best, diretto e interpretato da Albert Finney, Charlie Bubbles.

George Best è stato un’icona Pop a tutti gli effetti con un successo che gli esplode letteralmente tra i piedi in occasione della finale della coppia dei campioni, giocata a Wembley tra il Manchester United e il Benfica.

“Qualcuno gli allungò una copia di «Bola» col titolo in prima pagina stampato in nero e rosso. Lui chiese che glielo traducessero. «Un Beatle chiamato Best distrugge il Benfica» risposero – e il paragone con il gruppo, che aveva già venduto centocinquanta milioni di dischi in tutto il mondo, da quel momento gli rimase addosso per sempre. Diventò il «Quinto Beatle».

Icona che una vita spesa bene, tra macchine, abiti e belle donne contribuì a mantenere a lungo ben oltre i successi sportivi e nonostante il deterioramento fisico e psicologico causato dall’alcol. Il confine tra artista e professionista è superato d’un solo balzo, la parola che accompagna il guado è maudit.

Glass fu anche testimone della stima che circondava Best. In un ristorante di Londra fu avvicinato, in maniera molto cortese, da un uomo con i capelli lunghi e scuri, gli zigomi prominenti e il naso sottile. Fece un profondo inchino a Best e si scusò sinceramente per averlo disturbato durante la cena. «Lei è un vero artista» spiegò l’uomo, come preludio all’inevitabile richiesta di un autografo. Come sempre, Best firmò volentieri. Quando l’uomo se ne fu an- dato Glass gli chiese:

«Lo sai chi era?».
«No» rispose Best, perplesso. «Rudolf Nureyev».

Eppure George Best è stato innanzitutto un grande calciatore, e Duncan Hamilton ce lo fa vedere attraverso descrizioni di vera e pura letteratura come quando racconta il fotogramma che ritrae il campione in mezzo al campo:

george-best-jaguar“La fortuna di Best erano i lineamenti, almeno quanto i piedi. L’obiettivo adorava il suo volto. Ironia della sorte, in una delle foto più intense che gli siano mai state scattate quel volto non si vede. Best è mezzo girato, col numero sette bianco ben in vista sulla schiena. La maglia gli cade larga sui pantaloncini. Ha i calzettoni abbassati. Il braccio destro è alzato in segno di vittoria e per celebrare il proprio successo. Guardare quella foto permette di vedere quello che Best vide quella sera, mezzo secondo dopo aver segnato il gol a Wembley. La curva alla fine del tunnel, la massa informe del pubblico sugli spalti, i numeri bianchi e sfocati del tabellone, in procinto di scattare, le ombre tozze proiettate dai riflettori, le strisce di prato del campo, ognuna che si stringe verso il proprio punto di fuga. Quella foto ritrae il momento più alto nella carriera di Best, anche se allora nessuno avrebbe potuto prevederlo. Adesso, sapendo cosa ne è stato di lui, all’immagine è sotteso il dolore di qualcosa di perduto, e finito da tempo. Best non proverà mai più una gioia simile. Per lui non ci saranno né il secondo né il terzo atto. Nient’altro, nella sua vita, supererà quel momento. Busby non vincerà mai un altro trofeo. Best non vincerà mai un’altra medaglia.”

Gli anni sessanta e settanta  sono un gorgo che separa il vecchio dal nuovo. Bastava confrontare lo stile di vita dei calciatori della generazione immediatamente precedente con quella di George Best o degli olandesi capitanati da Cruyff per coglierne il distacco. Per capire la portata e l’energia di quei movimenti c’è un passaggio nel libro in cui si fa riferimento ai troubles dell’Irlanda del Nord che proprio in quegli anni scavarono un solco tra protestanti e cattolici. George Best era irlandese e protestante, ragione per cui a causa della sua notorietà fu costretto a giocare sotto protezione per via di minacce alla sua vita da parte degli attivisti dell’Ira. Così Duncan Hamilton ci racconta uno strano aneddoto che a mio avviso mostra come in quegli anni accadessero cose in grado di contraddire ogni posizione di campo soprattutto se dettata dalla sola ideologia.

Come scrive Teddy Jamieson in Whose Side Are You On?, uno studio sullo sport e i Troubles: «In Irlanda del Nord potevi essere arancione o verde, ma potevi comunque essere rosso». Paddy Crerand una volta vide il filmato di una sassaiola tra bambini da una parte all’altra di un muro che separava i quartieri cattolici da quelli protestanti. Da entrambi i lati c’era il lampo rosso inconfondibile di una maglia dello United con lo stemma della squadra.

Forse l’immagine finale Schermata 2015-12-23 alle 18.24.32per tutta questa storia andrebbe una volta di più cercata tra le strade dell’immaginazione del fuoriclasse, figlio della working class di Belfast, più che tra le registrazioni in studio delle ultime interviste a un uomo a cui nessun trapianto chirurgico era riuscito a sedare il demone che lo aveva consumato. Vi si rappresenta l’ «otw». Era l’acronimo di Over the wall, al di là del muro, e alludeva a ciò che per lui era «La grande fuga». La sequenza è nel film che abbiamo citato, Charlie Bubbles (L’errore di vivere).

 Bubbles si sveglia, infelice e giù di corda, vuole allontanarsi da tutto e tutti. Tira le tende della camera da letto del remoto cottage dove abita, e vede una mongolfiera senza equipaggio ormeggiata in un campo vicino. La superficie striata della mongolfiera è di un arancio luminoso, simile a una zucca, sembra quasi che quella mattina stiano sorgendo due soli. Senza dire una parola, Bubbles esce di casa e punta con decisione verso la mongolfiera, con un’idea precisa in testa. Monta nella cesta di vimini e comin- cia a sciogliere gli ormeggi e a gettare fuori i sacchi di sabbia che la tengono a terra. La mongolfiera si alza lentamente verso l’azzurro intenso del cielo, e sale verso le nuvole sfilacciate finché non sembra più grande di un puntino. «Pensavo sempre di fuggire così,» disse Best «e andare dove nessuno sarebbe riuscito a trovarmi».

https://www.youtube.com/watch?v=LtPOBK74KCU

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
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francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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