Brutti, sporchi e cattivi
di
Attilio Del Giudice
( Da: “Epistolario povero”)
Addì 24 Dicembre 1966
Cara madre io sto bene come spero di voi. A Darmstadt fa molto freddo e la mattina che è notte sull’impalcatura le mani si fanno di ghiaccio. La paga ce la danno domani che è Natale e ci danno pure una fetta di torta che fanno qua e un pezzo di cioccolata. Nicola Cardone, che è il capogruppo nel mio capannone per fare un omaggio ai padroni dopo la messa che si fa stesso nel capannone canta una canzone napoletana. Io ci ho consigliato quella che cantavi pure tu quando ero piccolo cioè Vierno che friddo into a stu core che a me mi veniva da piangere però Cardone vuole cantare fatt fa fatt fà fatt fotografà. Ti mando 18 mila lire per Ninuccio che ci compri il cappotto e le scarpe, che però deve studiare ce lo devi dire se no fa la fine mia che si deve faticare assai assai pure se c’è il vento di tramontana che sopra i pontili dell’impalcatura si sente brutto e nessuno parla per non fare entrare l’aria gelata nei polmoni. Cara madre, ho conosciuto una ragazza di qua che dice che se mi lavo bene sono bello. Però non sono sicuro che ha detto questo perché parla il tedesco che io non tanto. Però pure che non l’ha detto io domani che è Natale mi faccio il bagno col sapone tedesco che addora di cannella.
Un abbraccio a tutti voi e auguri per il Santo Natale dal Vostro figlio Rafele Aversano di Carmela Monaco e fu Ciro Aversano
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Rafele Aversano di Carmela Monaco, il giovane operaio immigrato, pieno di nostalgia per la sua terra, vorrebbe che a Natale, nel “capannone”, si cantasse una canzone malinconica, triste, evocativa. Il capo invece, ne preferisce un’altra, allegra, pena di doppi sensi, godereccia.
Immigrato di più vecchia data, avrà acquistato gli anticorpi necessari a vincere “l’appocundria”, quella specie di saudate napoletana, descritta in questo piccolo gioiello.
Basta la data (Addì), ed una sola parola ci porta immediatamente indietro di cinquanta anni.
La rievocazione della personalità, della psicologia e della capacità narrativa di un giovane immigrato meridionale di quegli anni è perfetta: le insicurezze, le incertezze, le sofferenze comuni ai giovani emigrati si leggono tutte in questo commovente racconto.
Un racconto veramente strappacòre, questo di Attilio Del Giudice. La lettera di Natale di un emigrante che fa il manovale in Germania. Uno scritto straziante. La riproduzione fedele di un dialetto ignorante pieno di umanità. E col racconto, una pittata elettronica …stesso di Attilio Del Giudice. Del Giudice è un pittore e un grande raccontatore. Ogni suo scritto è un quadro, ogni ritratto una scheggia precisa di un grande affresco. Umano.
Sono Massimiliano, il figlio di Attilio, e, al di la dei miei sentimenti di figlio, vorrei dire che questo brevissimo racconto mi ha emozionato e commosso.
Ha ricordato la condizione, le difficoltà, i sacrifici veri delle, verosimilmente, ultime generazioni di emigranti italiani troppo precocemente accantonate da chi ha l’età per ricordarle e del tutto sconosciute ai più giovani, con profondità di disamina psicologica ed uno stile asciutto ed incisivo.
Il quadro, o meglio la “pittata”(come papà ama definire i prodotti del suo straordinario talento pittorico), integra la chiave di lettura aggiungendo struggente umanità a questo piccolo gioiello letterario.
Questo racconto ambientato a Darmstadt e datato 24 Dicembre 1966 si colloca nel periodo storico in cui anche la Germania rappresentava una tappa pur momentanea di emigrazione italiana. L’operaio “Rafele Aversano di Carmela Monaco e fu Ciro Aversano “,attraverso la lettera alla madre testimonia tragicamente una vita stritolata da una nostalgia totalizzante anche verso odori e sapori di un’altra madre ,qual è la terra natia. Faticoso viene delineato il percorso verso la realizzazione di un futuro migliore e generoso appare il desiderio del protagonista di alleggerire le precarie condizioni anche di Ninuccio,con l’invio di diciottomilalire L’auspicio è che il danaro serva anche all’acquisizione di un titolo di studio,rimedio ritenuto salvifico .Rafele appare un uomo ammanettato,che risparmia palpiti di felicità,per annotare ogni lira. Ma nel suo mondo di solitudine autentica,balena una luce,nella quale si innalza liberamente l’inizio di un sentimento verso una ragazza recentemente incrociata . Tematiche antiche ed attuali e sentimenti nobili e malinconici vibrano fondendosi in questa narrazione elegante ed illuminante…silvana
Io a Rafele Aversano lo conosco buono assai pecché fatichiamo insieme. Ma pure pecchè stiamo di casa nella stessa baracca. Questo fatto è importante pecché ci fa sparagnare una cosa ‘e sorde. Chi tiene famiglia manda quello che guadagniamo tutto a casa. Chi invece no, si astipa tutto, pure cinque lire e a fine settimana si compra ‘nu buttiglione di vino e se lo pazzea tutt’a nuttata. Ci sta pure si va a sfogare con una puttana, quelle a buon mercato come ci stanno da noi abbascio a la Marina o sopra i Quartieri Spagnoli. In baracca siamo in dodici di noi. Tutti che veniamo dal sud Italia. Questo fatto che veniamo tutti a ll’abbascio, cioè ‘o Sud Italia, non è un caso. Ci stanno i calabrisi, i siciliani e nuje napulitan’. Ci stanno sei brandine di là e sei di qua. Per pisciare e cacare usciamo dobbiamo uscire fuori. Fa talmente freddo che quando pisci o cachi senti ancora più freddo. Qui la vita nostra è come il cesso fuori la baracca, cioè freddo e schifoso. Ma noi a turno lo laviamo, altrimenti fa più schifo ancora. Quando torniamo dal lavoro strada facendo raccogliamo rami secchi e appena rientriamo accendiamo la stufa, cioè un bidone scamazzato del cantiere. Appena accendiamo la stufa e il calore si allarga nella baracca, anche noi incominciamo a scioglierci e a parlare e a ridere e ci sta pure chi si mette a cantare come Totore Sala. Lui dalle nostre parti faceva il cantante ai matrimoni, ai battesimi e pure alle cresime, ma però un giorno, anzi una notte è scappato da Napoli pecché si teneva la mugliera di Marcello ‘o Delinquente. Finché la cosa era rimasta segreta tra Totore e ‘a mugliera d’o curnuto, tutto filava liscio, poi Giggino ‘o guardamacchine ‘na sera vide ca donna Giuliana ascette da dentro la macchina di Totore e facette a spia. E chella notte stessa, doppo ‘a telefonata di Giuliana, Totore senza perdere ‘nu minuto facette e valigge e venette ccà Stutugart. Isso ogni tanto me raccunt’ e accussi a sera, doppo ‘na jurnata ‘e fatica, stanchi muorti, c’addurmentammo mentre accummencia ‘nu sfaccimmo ‘e friddo pecché ‘o fuoco d’a stufa se cunzuma.
E’ sorprendente la facilita’ con la quale riesci a presentare il personaggio sia nella forma linguistica che nello spirito dell’emigrato
Complimenti.
Sembra una delle tante lettere che mio padre spediva a Melfi da una baracca svizzera dove faceva il muratore, e che una mano troppo frettolosa ha eliminato dopo la sua morte.
Forse manca un certo senso di emarginazione che in qualche modo sentivo nei racconti di mio padre e che adesso mi capita di scorgere nelle facce dei muratori rumeni che incontro nella metropolitana di Roma il mattino presto.
L’odore che avverto seduto al loro fianco è lo stesso che sentivo addosso a lui quando tornava dal cantiere e guardandoli vedo lui in Svizzera.