Va bene anche così

falenadi Mirfet Piccolo

 

Lo so che è sciocco ma mi è successa questa cosa. Una cosa piccola e solitaria, dal peso leggero. Era primavera, un pomeriggio brinoso e friabile; la luce troppo bianca portava con sé la nostalgia del cielo cupo dell’inverno e io non sapevo più cosa temere, se il freddo che per mesi mi aveva amputato il respiro o la luce che mi avrebbe accecata, bruciata in un niente.

Sono entrata nella stanza senza illusioni, con la certezza che tutto quanto sarebbe durato giusto il tempo di qualche convenevole, di qualche prassi eseguita con meccanica sapienza. Ci siamo stretti la mano. Poi con un gesto mi ha fatto cenno di sedermi e anche tu ti sei seduto; tra di noi, la tua scrivania arruffata aveva residui dei pazienti che mi avevano preceduta. Mi dica come sta, mi hai chiesto, mi dica come si sente, e nella tua voce non c’era presunzione né fretta, non c’era l’attesa della fine. Allora ho capito che fermarmi non sarebbe stato un pericolo né una sconfitta, ho capito che potevo farlo, e ti ho raccontato.

Del dolore ad ogni passo, della luce troppo forte e della stanchezza attanagliante, ti ho raccontato del freddo che non mi abbandonava, del mio viso ubriaco e degli specchi in cui non volevo più riflettermi. Poi ti sei alzato, mi hai fatta sdraiare sul lettino. Distesa, quel primo pomeriggio di quella prima visita, ho desiderato di poter chiudere gli occhi e dormire a lungo, svegliarmi nuova e ricominciare la mia vita di sempre. La mia vita senza fissa dimora, il mio girovagare esperto e inconcludente. Lo so che non si direbbe, a guardare i miei passi di oggi – stanchi, sorretti da un bastone indossato troppo presto -, ma ero una che camminava sempre; divoravo chilometri di città metropolitane con la musica nelle orecchie, con la voglia di vedere dove sarei andata a finire, senza cedere al tempo che passava. Quel pomeriggio mi hai chiesto di farti vedere esattamente dove provassi male. Poi mi hai domandato di descrivertelo, il mio dolore, e io ho fatto del meglio per dargli una forma riconoscibile, palpabile; ho cercato parole spesse, parole che tu potessi incidere con un bisturi e dissezionare. Ancora non sapevo che da quel momento in poi, fuori da quella stanza, non avrei più smesso di cercare parole migliori e inequivocabili per spiegare agli altri il male che sentivo; la curiosità amorevole di chi mi voleva bene e quella morbosa di chi non mi conosceva, ancora non sapevo che ogni mio tentativo si sarebbe risolto in un fallimento.

Hai misurato ogni centimetro della mia pelle, il mio cuore il mio respiro. Hai guardato la mia lingua e dentro i miei occhi, hai rovistato tra i miei capelli. Hai fatto due passi indietro e hai osservato il mio viso con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto: la testa un po’ inclinata da un lato e poi dall’altro, i tuo piccoli occhi attenti, pronti ad accogliere ogni possibile visione. E ancora non sapevo che tu, quel pomeriggio, sulle mie guance e sul mio naso avevi visto posarsi l’ombra di un bozzolo, di una farfalla in divenire, e non era felice. Ancora non sapevo molte cose. Poi mi hai fatta rivestire e sei tornato alla tua scrivania, le tue dita hanno battuto con forza sulla tastiera. Lettera dopo lettera, quel ticchettio pestato dai tuoi polpastrelli arginava il tempo trascorso da che ero entrata, ed era stato tanto, misurava il tempo rimasto, e mi sono sorpresa a pensare che fosse stato troppo poco. Hai scritto tutto. Sei stato preciso e completo, e lo saresti stato ad ogni visita successiva, ed io ogni volta avrei amato questa tua capacità di imprimere così tante parole, ciascuna con un suo peso specifico e una sua specifica angolazione, su un comune foglio bianco.

È cominciata da lì, questa cosa sciocca che mi è successa, è cominciata quel pomeriggio di primavera di dieci anni fa. Mi dica tutto e io che ti parlo, le tue dita che battono e io che rivesto il mio corpo diventato l’involucro di un imbarazzo inaspettato.

Mi hai allungato l’elenco degli esami diagnostici da fare. La fede nuziale al tuo dito brillava, la mia sarebbe arrivata l’estate successiva. Cominciamo con questi, hai detto, ed erano così tanti che ho temuto non mi sarebbe bastata la vita per farli tutti e mi sono vergognata anche della mia paura. E invece mi è bastata, e dopo sei mesi di una vita sospesa nel limbo – di analisi, di scomposizione del mio sangue, di prelievi della mia pelle – tu gli hai dato un nome nuovo. È una malattia cronica e sistemica, mi hai detto, ma si può trattare.

Ho letto che succede, che per voi medici è uno dei rischi del mestiere; ho letto che per il paziente, di solito, è tutta un’invenzione, un immaginarsi l’altro come una specie di salvatore, di guaritore di tutti i mali. Ho letto che quasi sempre va finire in un niente, e solo ogni tanto si ha il privilegio amaro di una storia torbida e inconcludente. Ho letto che accade così di frequente che temo la mia storia, questa cosa sciocca che mi è successa, non abbia niente di speciale.

Senza che tu te ne accorgessi, senza che tu facessi niente per farlo succedere. In tutti questi anni, arrivare a darsi del tu è stata l’unica distensione dei rigidi schemi di una professione secolare. Solo una volta, era forse un anno che ci incontravamo con regolare cadenza trimestrale, avresti accennato ad un secondo figlio arrivato troppo presto, alla confusione delle cose.

Io non ti conosco e credo non esita alcun guaritore di ogni male. Eppure a capodanno di quello stesso anno in cui tu hai dato un nome nuovo alla mia vita giovane – non ero ancora diventata un dovere da accudire, una madre troppo stanca per correre; ogni degenerazione doveva ancora accadere – la mia amica di sempre mi ha allungato una scodella di lenticchie bollenti e io come risposta le ho detto, quasi quasi m’infatuo del mio medico. Quasi quasi. E ho sentito le mie mani finalmente scaldarsi, dimenticarsi cos’erano diventate.

Vedi, quindi, lo vedi bene anche tu – è un fatto certo, basta fare qualche calcolo, mese più mese meno – che questa cosa sciocca è iniziata prima di tutto. Prima che io mi sposassi e il mio matrimonio felice diventasse un ricordo piccolo steso su un tavolo ogni giorno sempre più grande; prima che io smettessi di essere una donna e diventassi un corpo, al massimo una madre da compatire. Perciò credimi se ti dico che questa cosa sciocca, questa voglia che ho di te, non ha il peso di una tristezza.

Per anni, ad ogni nostro incontro dettato dalle circostanze, ho cercato di misurare la vastità di ciò che sentivo. Mentre verificavi l’estensione delle piaghe sul mio viso, e contavi le macchie rosse che come cicche di sigarette infossavano le mie braccia, mentre con dita leggere stimavi la perdita dei miei capelli, il mio respiro rotto e il cuore aritmico, ho continuato a sentire questa cosa puerile, quest’imbarazzo accidentale ed avulso dal lento deformarsi del mio corpo.

Tu leggevi la conferma dei miei anticorpi corrotti, con l’indice seguivi il loro dispiegarsi sul figlio – antinucleo e anti-DNA e anti-ENA e anti-fosfolipidi, e poi la VES alta e globuli bianchi bassi (mi hai insegnato molte cose, molte più di quante tu possa immaginare) -, ed io mi preoccupavo che in tutti questi anti, in questa guerra del mio corpo contro se stesso, mi preoccupavo che il tremore dei miei pensieri fosse arrivato fino al nucleo delle mie cellule, fino all’infinitamente piccolo, e che tu, sempre così attento, sempre così scrupoloso, lo avresti letto e biasimato.

Mi hai dato un armadietto pieno di sponde a cui aggrapparmi. Il mio Plaquenil e il Medrol e l’azatioprina e le vitamine, con le mie pillole di ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, ho imparato a costruire dei ponti per non affondare allo scorrere di una natura capovolta. Ho imparato a galleggiare, a pensare che la malattia fosse solo un fatto accidentale e non la mia vita intera. E ai tuoi ciao-come-stai ho imparato a rispondere che a volte andava meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funzionava e quell’altro funzionava poco, ma che era pur sempre trattabile e che tutto sommato andava bene anche così.

Ma poi è arrivato il giorno che tu sei andato via. Era ottobre, il mese in cui le foglie marciscono sulla terra umida e il freddo inizia a nascere senza chiedere permesso. Sei andato a lavorare in un altro ospedale e io sapevo dove, esattamente dove e quando, e i tuoi turni e il numero di ambulatorio, sapevo tutto e non sono mai venuta dove ti avrei certamente trovato. Perché pensavo che peggio di come stavo non sarei mai potuta stare, pensavo di avere già ingoiato la fetta di malasorte che mi spettava. Perché il mio corpo, quell’ottobre di quell’anno che te ne sei andato, era gravido di vita e quindi forte, un corpo che alla fine ce l’avrebbe fatta. E non volevo, in tutto ciò non volevo questa cosa sciocca che mi è successa e che non capivo. Non la volevo.

Per questo, mentre tu non c’eri, io ti ho tradito con tanti. Senza mai cercati eppure trovandoti ogni volta: questo era un medico frettoloso e tu no, quello non aveva capito e tu si, quell’altro non mi chiedeva come stavo e tu lo facevi sempre. Ti ho tradita specialmente con uno. In un ospedale di provincia ho incontrato un dottorino con la faccia da copertina patinata e denti troppo bianchi per essere veri. Dopo la lettura distratta di qualche foglio, quel dottorino ultimo, mi ha detto che la falena che nel frattempo era nata sul mio viso – quelle ali bruciate sulle guance, quel tronco ricoperto di piaghe sul mio naso – non avrebbe mai spiccato il volo ma che forse, forse per il resto, per le miei mani sempre fredde e il dolore che da anni trasformava i miei sogni in incubi madidi di sudore, forse quello avrei potuto curarlo se solo avessi davvero voluto, se solo avessi almeno provato a controllare la mia ansia, la mia depressione inconscia. Tutto quel dolore di cui parla è organicamente ingiustificato quindi lei, signora, lei non sta poi così male come vuol far credere.

Allora io, in quella stanza di un ospedale di provincia con l’ultimo dottorino qualunque, ti ho immaginato seduto sulla sedia al mio fianco e che insieme ridevamo. Ridevamo dei suoi zigomi contraffatti, ridevamo di quell’ospedale qualunque. Ho immaginato che mi dicevi, non prendertela lui non ti conosce come ti conosco io, e allora io quel giorno ho respirato piano, profondo e piano, e allora la frustrazione non si è accesa, e allora io non ho pianto.

Dopo tre anni di tua essenza e di miei tradimenti nervosi, dopo sei tornato a casa. La nostra casa che non è una casa e soprattutto non è nostra. È un ospedale dove si nasce e si muore, dove la gente come me sopravvive agli esiti amari di esami estenuanti, agli sbalzi d’umore nei bagni sempre troppo angusti e sporchi, bagni non adatti a ripulirsi dal dolore.

Così, la sera prima, mi sono preparata al nostro incontro con la stessa minuziosa inquietudine con cui ci si prepara ad un appuntamento amoroso. Ho controllato che sulle mie gambe non ci fossero peli irriverenti e che il mio inguine fosse pronto ad un’eventuale accoglienza; ho indossato la mia biancheria migliore immaginandola ai tuoi piedi, e che le tue mani sulla mia pelle nuda non avrebbero disegnato alcuna imperfezione. Ho guardato la mia lingua, ancora sana e porosa, e ho pensato a tutte le cose che avrei potuto dirti senza spaventarti. Riflessa allo specchio non ho avuto paura di ciò che ho visto, e ho raccolto i miei capelli stanchi sulla nuca e poi li ho lasciati di nuovo cadere, perché mi sembravano belli nonostante tutto, perché tu forse li avresti sollevati piano piano e lungo la mia schiena avresti trovato la tua strada. Perché da qualche parte si dovrà pur cominciare e io volevo lasciare a te la possibilità di farlo.

La sera prima del nostro ritrovarci, sono andata a dormire ingannando me stessa con una romanzo di Thomas Hardy, nascondendo la certezza che non mi sarebbe piaciuto.

Eri tornato ed io pure. Davanti alla porta di quell’ambulatorio che conoscevo così bene ho atteso il mio turno con finta diligenza. Ho contato a quanti altri tuoi pazienti ero in coda, e un istante erano troppi e l’istante dopo erano troppo pochi. Ogni volta che uscivi e invitavi il prossimo ad entrare, io guardavo lontano da te e dalla tua porta, cercavo un posto immune ai disinganni. Poi è rimasta quell’ultima paziente ed è entrata, una donna anziana con le mani di cartapesta che per tutto il tempo della sua attesa aveva sfogliato una rivista nel senso contrario. Dopo ci sarei stata io, tutto poteva finire e io non avrei potuto porvi rimedio, riavvolgere il nastro.

Hai chiamato il mio nome ed io sono entrata. Ho chiuso la porta alle mie spalle e quando ho alzato lo sguardo mi hai sorriso e detto, ciao come stai, come avevi sempre fatto. Mentre camminavo verso la scrivania oltre la quale tu ti eri già seduto, ho avuto la certezza che il mio passo claudicante non sarebbe mai stato in sincronia con il tuo quasi amichevole saluto. Mi sono seduta. Ho visto la tua fede nuziale diventata stretta attorno a qualche chilo messo su negli anni, i tuoi capelli spessi accorciati di recente, gli stessi occhi piccoli e scaltri che dieci anni prima mi avevano osservata con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto.

Sei tornato, e anche la cosa sciocca è tornata.

Ciao-come-stai, dal giorno del nostro ritrovarci è diventata una domanda alla quale non riesco più a rispondere senza desiderare che tu me lo chieda incondizionatamente. Ciao-come-stai, come lo si chiede ad una persona che ci è cara davvero. Per sapere come sto al di là di tutto, al di là di questa vita alla quale tu un pomeriggio hai dato un nome che ho imparato a conoscere. Per sapere cosa sono ancora capace di fare.

Perché se quel giorno arrivasse, io finalmente potrei rispondere e tu, dimmi tu come stai. Parlami della birra che hai bevuto con gli amici nel fine settimana, raccontami se aveva il sapore fruttato delle cose belle quando stanno per nascere, e tutto è possibile e non hai scelte da fare, e allora puoi ridere con la frivola certezza che la tua vita, tutta ancora da scoprire, sarà più consistente del fumo della prossima sigaretta che penderà dalle tue labbra. O forse quella birra aveva il sapore amaro delle cose già tutte dette, già tutte fatte, e non rimane altro da fare se non il burattino di una giostra ormai deserta. Dimmi quanti caffè bevi ogni mattina ripromettendoti che dal giorno dopo, sempre dal giorno dopo, ne berrai uno in meno. Dimmi che peso hanno i tuoi giorni e a quale punto di quel tuo sogno, sempre lo stesso dannatissimo sogno, le tue notti si ostinano a morire. Raccontami di chi sei l’orgoglio, l’investimento ripagato; e dimmi anche se è questo ciò che hai sempre desiderato fare: camminare a ridosso del dolore di persone sconosciute, dare loro la mano facendo attenzione a non lasciarsi contaminare. Come stai. Parlami della musica che ti piace, e di quella che ascolterai oggi in auto verso casa, quali parole sceglierai per accompagnare i pensieri di tutte le cose che avresti potuto fare e non hai fatto, oppure che avresti potuto fare meglio, o non fare affatto perché tanto, a conti fatti, la vita di un corpo è un mistero e tu sei solo un uomo.

E poi raccontami, parlami, dimmi se sotto la doccia – dentro il vapore, fuori le urla dei tuoi figli e la delusione muta della persona che hai sposato – succede anche a te, certe mattine bastarde, di desiderare di essere solo un pesce tra tanti e da cui nessuno, in fondo, si aspetta un granché.

Dimmi se anche tu senti male, e dove, e come si chiama il tuo dolore la tua vita di tutti giorni, e se posso io toccarti, dirti che è trattabile e che starai meglio, dirti che andrà tutto bene.

E allora vedi, lo vedi anche da solo, che questa cosa sciocca che mi è successa è un incesto, un incontro inopportuno tra il mio corpo malato e il desiderio non autorizzato che ho di te.

Quindi forse dovrei alzarmi e andarmene con questa consapevolezza, andarmene con la mia malattia ben trattata, arginata, con la mia cassaforte di pillole collaudate. Non entrare. Alzarmi da questa sedia diventata scomoda in una sala d’attesa orami vuota. Perché se ne sono andati via tutti; uno dietro l’altro i tuoi pazienti si sono succeduti in silenzio e io non sono riuscita a tenere il conto del tempo ancora a mia disposizione.

Mi alzo, mi devo alzare perché hai aperto la porta e detto il mio nome. Entro. Mi guardo attorno e penso che in fondo è tutto come sempre. La stessa scrivania arruffata, lo stesso computer, le stesse due sedie, lo stesso appunto appeso in bacheca. E anche la cosa sciocca è la stessa.

Ciao come stai, mi domandi. E capisco che anche oggi sarà com’è sempre stato in questi dieci anni, e che è necessario che sia così affinché funzioni. Anche oggi tornerò a casa e farò buio per ripararmi dall’ostinazione del giorno, e questa cosa sciocca che mi è successa sarà sul mio collo, dentro la mia bocca, la sentirò scivolare sulle natiche, mordermi i seni piccoli e rifugiarsi tra le mie gambe. Sentirò il mio respiro risvegliarsi senza dolore. Perché al buio sono ancora perfetta, niente di me cede. Al buio, negli anfratti sani della mia vita, il mio corpo che tocca il tuo non conosce compromessi. Tu mi domandi come sto e io ti guardo e penso che sarà bellissimo, come sempre, che sarà piccolo e leggero e bellissimo. Perciò ti rispondo che a volte va meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funziona e quell’altro funziona poco, ma è pur sempre trattabile e tutto sommato va bene, va bene anche così.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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