L’assedio
di Cristiano Denanni
Mentre fuori spiove.
E ogni volta che nel mondo è giovedì.
Mi siedo al pianoforte.
E suono.
Avevo preso lezioni da bambino, mi mandava mia madre da una signora che aveva fatto il conservatorio e per vivere faceva la parrucchiera e poi insegnava a suonare il pianoforte a casa sua, naturalmente allora non me ne importava nulla, ma siccome a scuola avevo risultati sconsolanti, una soddisfazione, una qualunque, una a caso dovevo pur dargliela a mia madre. La musica mi pareva la forma più alta, e la più bella, di ciò che in seguito imparai a chiamare compromesso. Solfeggiare mi risultava cosa ripetitiva quanto noiosa, però una volta innanzi ai pesanti tasti bianchi e neri e a quei strani eppure misteriosi segni sul pentagramma tutto prendeva aria, e capivo che da qualche parte si poteva volare.
Volare.
Già allora, inconsapevole dei dolori di poi e di alcune delle mattine incandescenti d’amore che sarebbero venute, intuivo che non è vero che tutto nasce e muore rimanendo sempre solo coi piedi al suolo.
Già allora.
Mia madre non lo sapeva, o almeno credo, ma mi aveva dato in pasto a una conquista.
Il peso dei tasti, dicevo. Il peso dei tasti è stato motivo sempre di piacere nel confrontarmi con il pianoforte. E’ come sentire, fisicamente, sotto la pelle, un corpo, il corpo che ti darà appagamento, la musica.
Il peso.
Il peso delle cose è ciò che distingue un giocattolo da una cosa seria. Una tastiera da un pianoforte. La massa d’aria che ci si trova a smuovere. Il valore che diamo ad azioni comportamenti parole, distillandone profondità, o al contrario scostandole distrattamente come fossero pioggia da un parabrezza, moscerini dal viso.
Il pianoforte.
Fra le innumerevoli sue peculiarità, possiede questa lignea profondità. Il primo timbro che ne ascolti, tu che suoni, è quello del tasto che scende sotto la pressione delle dita, il secondo quello del martelletto sulla corda che produce la nota.
Il timbro.
L’esatta, univoca voce di una nota prodotta da uno specifico strumento, sia esso la voce umana o un violino, un tuono, un uccello, un frusciare intimo di vento, oppure quella gonna, ora nell’armadio, quando l’avevi indosso, o la fiamma quando prende, gli odori della notte nel bosco, quando tutto deve ancora accadere, o la calma dell’onda sulla battigia oscura di pochi spilli di stelle.
La calma.
Quella che possiedo, o devo possedere, per suonare sapendo di non raggiungerti, se non con il pensiero sensibile della musica. Quella che perdo, o devo perdere, per suonare sapendo tutto ciò che so di noi.
Noi.
Eri bambina quando mi accorsi d’essere un uomo migliore, perché tuo padre. Mi colorasti una vita che per quanto avessi amata e non poco odiata mi pareva sazia. E invece, invece di tutte le questioni aperte e mai chiuse, quali nella vita in gran parte se ne incontrano, tu risultasti dalle prime ore la più prodigiosa. Quando mamma se ne andò, quando allora, nella calca dei fatti mi accorsi che un altro uomo e un altro paese del mondo non erano un omicidio ma in fin dei conti una delle tante eventualità delle cose, e attorno alle cose delle persone, e attorno alle persone dei sentimenti, e attorno ai sentimenti del tempo che trascorre e a noi piacendo o meno evolve, temetti un olocausto fra il respiro e la spina dorsale del mio essere semplicemente un uomo nel mondo. Ma così non fu. Rimanemmo in due, dal due ch’ero assieme a tua madre, al due che siamo noi. Noi. Rimanemmo tu e io, Andreja del tempo e di giorni che non avrei voluto pensare di te senza, in due, per i motivi che ora conosci perfettamente, imposti da mamma, vissuti da noi.
Due.
Il primo numero dopo l’uno dal quale si può cominciare a vivere più a lungo che della propria vita, evitando l’abbaglio della solitudine. L’unico modo, ad esempio, affinché un libro possa essere scritto, e letto. Da persone che non siano la stessa. L’unico modo, insomma, di dargli un senso, dargli una vita.
I libri.
Ce n’erano oltre un milione e mezzo alla Biblioteca Nazionale e Universitaria della Bosnia Erzegovina di Sarajevo, la Vijećnica, e c’erano centocianquantacinquemila edizioni rare e preziose, assieme a quattrocentosettantotto manoscritti, quel giorno d’agosto del 1992, il 25, quando la storia, la nostra storia, e quella più grande, quella con la maiuscola, la Storia, s’incepparono. Eri coi tuoi amici, eravate a studiare e a giocare, a parlare, a vivere, probabilmente ad amare, quando dalle colline i serbi spararono le prime bombe, e per tre giorni non smisero, fino a che di Vijećnica non rimasero che uno scheletro spettrale e malinconico, e tutti quei calcinacci. Ti unisti anche tu ai vigili del fuoco, a cittadini, volontari, bibliotecari per mettere al riparo libri e parole, memoria e cultura, le maestranze più strenue che possiede il mondo, al servizio della vita contro la morte. Aida morì, Aida Buturović, una delle bibliotecarie, colpita da una scheggia di granata, aveva 32 anni, so come e quanto la ricordi, ma tu quel giorno non facesti in tempo a vederla al suolo, quando un’altra scheggià colpì alla testa anche te. Non ti uccise, nulla è riuscito a farlo mai, figlia mia, ma quando arrivasti in ospedale eri già in coma, e così rimanesti per oltre un anno. Soltanto Sarajevo stette in coma più a lungo, sotto quell’assedio, quell’assedio infinito.
Il coma, Andreja.
Quello stato di incoscienza durante il quale il mondo, per te, scompare. Del tutto? Fino a che punto? E tu cosa capivi, cosa sentivi, cosa desideravi? Sognavi? Fu infinito quell’assedio, Andreja. Infiniti sono i giorni nei quali la vita viene centellinata, e scappa. Fugge un poco alla volta, e fa paura, e per tutto il tempo nel quale assisti a vite dopo vite che ti abbandonano il terrore s’ingigantisce, il terrore di vedere svuotarsi una città, di vederla spogliarsi, come faceva Sarajevo, come facevi tu, pregando che almeno una esistenza resistesse, una luce rimanesse accesa, per non morire, Sarajevo, Andreja, amore mio. Ma non moristi. Non moriste.
L’assedio.
Quello su Sarajevo durò oltre quaranta mesi, il più lungo nella storia moderna, un’infinità, una tortura, una condanna. Quello su di te durò anni, da quel giorno d’agosto nella Biblioteca Nazionale a quando tornasti a poter compiere sognare costruire una vita normale. Attraverso giorni, mesi, anni di fisioterapie, esercizi di resistenza, di morale, di carattere, di vita. Perché è lì che risiede la questione, l’esercizio alla vita. L’assedio bellico e quello morale. Fosti una donna accerchiata, ti furono negate le vie d’avvicinamento e d’allontanamento ai sentimenti, agli abbracci, agli aiuti, alle parole, agli sguardi. Ti vennero precluse le azioni e le speranze, eppure non cedesti, eppure fosti tenace, eppure ti ergesti, a mò di città che s’illumina nelle tenebre all’ennesima notte di distruzione, perché consegnasti alla tua indole la mappa della fuga, e quella della conquista. Il destino proprio, l’architettura dell’esistenza, questa la tua conquista. Alla Vijećnica si andava per vivere, chissà di questo, oggi cosa rimane. Si andava per ripararsi dal freddo, per tutte le persone che non avevano riscaldamento in casa. Si andava a gareggiare, chi aveva letto più libri? In biblioteca si andava a cercare i collegamenti, quelli di cui abbiamo necessità per comprendere, o almeno tentarvi, cosa siamo rispetto ciò che siamo stati, dove siamo rispetto dove siamo partiti, dove le nostre premesse sono cominciate. I collegamenti, Andreja. Quelli che tu cercavi, e mai hai smesso di fare. Attraverso l’esercizio strenuo e proficuo della resistenza, attraverso l’indagare quelle connessioni, attraverso l’indole, la morale, la fiammella riparata nel tuo cuore, ti sei salvata. Lo sai, figlia, non dovrai chiedere permesso, concedere compenso, rischiare compromessi con alcuno, alcuno che non sia tu stessa.
Una fiammella.
Per molto tempo non v’è rimasta che quella. Per centinaia di giorni non abbiamo potuto che riparare il tuo cuore dai suoi acerrimi nemici, bombe, freddo, batteri, virus, infezioni, odio, codardìa. Ma tu ti chiami Andreja, non codardìa. E questo ti è sempre stato chiaro, ci è sempre stato chiaro. Noi tutti sappiamo cosa significhi il nome che porti, noi tutti abbiamo assistito all’incarnazione che ne sei divenuta, alla sua epifania.
Il tuo cuore.
Quello che ti ha permesso di crescere, e divenire donna. Anche su quel letto crescevi, anche quando tutto pareva fermo, in te e attorno, anche quando ci dicevano della tua presenza nel mondo soltanto delle macchine e dei segnali elettronici, tu, Andreja, crescevi. Nel tuo corpo fermato, nel tuo fisico stremato, nelle lievi deformazioni che un letto di mesi causa a un essere umano, attraverso crepe e spiragli che solamente tu rintracciavi, crescevi. Concedesti a scampoli di luce di filtrare, permettesti a rantoli di respiro di annuire o rifiutare, riconoscesti la forza e la separasti dalla vigliaccheria, nutristi ogni singola tua cellula con motivi di vita e mai ti confidasti alla morte, e in qualche modo componesti una musica, una partitura complicatissima e contorta, e certo, una sonata rispettosa di silenzi e di corone sulle note consolanti, e quell’armonia, allora, ti diede tempo e modo di mettere per lungo istanti che potevano apparire spenti o vuoti, ma che così non furono mai. Fu la tua melodia, Andreja. La musica di una forma di vita che cresce nel mondo in profondità, in un luogo preciso del pianeta Terra, come radici di un albero, come la pianta che sa, e non scorda per un momento, che la sua fermezza è la sua potenza, che il suo movimento è quello delle stagioni e dei viventi che le ruotano attorno. Crescesti anche allora, e forse, in qualche anfratto della tua partitura come una cartografia, crescesti più di sempre, più che mai. Fino a liberarti.
La tua libertà.
Quella che ti permise di sfidare le mani atrofiche della morte e dei giudizi, e di prepararti finalmente a partire, un giorno. Che arrivò. Così andasti. A raggiungere il motivo per il quale studiavi, e per il quale rischiasti di morire, sotto quelle bombe, con quei libri nell’abbraccio delle tue mani. La costruzione di una scuola nella Repubblica del Congo. L’insegnamento. La radice quadrata della nostra virtualità. Là, dove vivi ormai da anni, tento di perderne il conto, tento di non decifrare. Da dove qualche volta mi scrivi, raccontandomi poche righe di te ma tante tracce di vita, l’ultima lettera è di due mesi fa, la tua grafia è ferma sulla carta: “Papà, stai bene? Non è solo una domanda, lo sai, vero? Io sì, sto bene. Il clima, come sempre, è impegnativo, ogni volta che mi sembra d’averci fatta l’abitudine, mi accorgo che me la ero inventata! I bambini sono in gamba, alcuni appena imparato a scrivere l’alfabeto riempiono intere pagine di quaderno con le lettere una dietro l’altra, a caso! E non ti dico se li faccio venire alla lavagna!… Suoni sempre? Suona sempre, la musica dice più di tutto il resto. E non far finta di niente, attendo che mi rispondi una buona volta che hai conosciuto una donna. L’amore è l’unica cosa possibile, sempre. Smettila di andare a piedi per il mondo, va bene? Ti allego una fotografia che mi son fatta scattare assieme alla mia classe di mostriciattoli che si mangeranno il mondo, santo cielo se lo faranno! Io sono quella al centro, dietro tutti quanti. Sì sì… quella lì… tua figlia, ti ricordi di me?, ah ah!.. Ti mando un abbraccio con cui puoi farci tutto quello che vuoi. Mi piacerebbe però che ci entrassi dentro, fra una cosa e l’altra. Ciao papà, Andreja”.
Andreja.
Il tuo nome in slavo significa coraggiosa. Non avremmo potuto battezzarti in modo più consono, tua madre ed io. Sei tu. Sotto assedio, tu lottasti. Quando pensavo fosse perso tutto, tu resistesti. Durante le notti e i giorni di coprifuoco, nelle lungaggini dell’agonia, tu respiravi. Lentamente, ostinatamente, ritmicamente, rabbiosamente, respiravi. Negli istanti in cui pensavo fosse insensato persino sopportare, prima ancora che combattere, tu respiravi. Mentre l’intorno moriva, tu respiravi. Dove le bombe cadevano, negli interstizi tra le raffiche dei cecchini, tu e Sarajevo respiravate. Negli istanti in cui la storia e la Storia impietrivano, tu, caparbiamente, dolcemente, sinuosamente, silenziosamente, respiravi. Ti sedusse, l’eternità, ma tu respiravi. Andreja, mia figlia, figlia mia, contro di te la morte non ha avuto scampo. Il coraggio implica la paura, come la musica il silenzio, ma dall’antitesi genera una bellezza necessaria al mondo dei vivi. Ci sono persone, in questo mondo non in un altro, che hanno corso con dei libri fra le braccia sotto le bombe, erigendo memoria e civiltà all’altezza delle proprie vite. Fra queste persone ci sei tu.
Coraggio sinonimìa con donna. Quello che ti condusse, come una marea, a quel giorno di settembre del 1993, il 16, un giovedì.
Di giovedì.
Ti risvegliasti, guardandoti attorno come l’ultimo cucciolo rimasto in un nido da cui tutti han preso il volo. Ci vollero ore perché potessi gemere di gioia al suono della tua voce, spenta da oltre dodici mesi. Ma poi giunse, quella goccia che spacca il silenzio come in una cava tenebrosa, e dicesti “dove siamo, papà?…”, e in quel plurale mi abbracciò la conferma della vita, e nella vita dell’amore, e nell’amore della resistenza, e nella resistenza della fragilità, e nella fragilità di una luce, prima striscia di sole sopra la neve. Ti strinsi la mano, contemplando il tuo viso gonfiato ma con gli occhi rimasti giocosi, aggrappati all’albero maestro nella notte dell’uragano. Guardai fuori, e difatti spioveva. Tornai a casa, quella sera, e per la prima volta dalla dismissione della mia adolescenza, da prima dell’assedio della vita, suonai il vecchio pianoforte a muro che acquistammo mamma ed io, chissà se di terza o di quarta mano, da un vecchio artigiano in una viuzza nella parte ottomana della città. Pensavo a Vedran Smailović che suonava l’adagio di Albinoni col suo violoncello fra le macerie della Biblioteca Nazionale, appena l’anno prima, ogni giorno, per ventidue giorni consecutivi, in memoria dei ventidue civili uccisi mentre facevano la fila per il pane. Pensavo a lui ma non volli cercare le note di Albinoni, e la prima anima che mi venne alla mente, dopo la tua, Andreja, fu quella di Bach. Faceva già freddo, nonostante fosse solo settembre, ma la lenta e incessante musica tua e quella di Bach mi scaldarono. E così, da allora non ho più smesso.
Mentre fuori spiove.
E ogni volta che nel mondo è giovedì.
Mi siedo al pianoforte.
E suono.
(foto di iva_keser, da pixabay)
Nothing to say. I have nothing to say.
Niente da dire, non ho nulla da dire!!!
[…] già apparso sul sito Nazione Indiana il 2 novembre […]