Éric Chevillard, Sul soffitto
di Francesca Fiorletta
Dal 22 ottobre in libreria c’è Sul soffitto, per Del Vecchio Editore, un romanzo surreale e divertentissimo di Éric Chevillard, vincitore di numerosi premi e riconoscimenti in Francia, e autore del blog, molto seguito, L’autofictif.
Di seguito, un breve estratto del testo, che racconta la storia di un uomo che ha scelto di vivere con una sedia costantemente rovesciata sulla testa, e di come questo particolare ameno gli abbia necessariamente cambiato ogni prospettiva.
(L’allegoria è perfetta.)
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Una precisazione necessaria: non sono per niente soggetto a manie di persecuzione, credo che i rondoni non siano incaricati di sorvegliarmi, che il Sole non sia un proiettore puntato sulla mia persona, che non sia perché pensa a me che la tigre ha fame, piuttosto soffrirei di questa indifferenza della natura nei miei confronti, e delle cose stesse che non afferrano mai la mano che tendo loro, ma sembrerebbe, al di là dei dissidi irriducibili che alterano i rapporti fra gli uomini, che l’accordo sia stato raggiunto su un punto, con una bella unanimità tanto improbabile, attorno a me, contro di me, tacitamente, che sia in verità un dovere per ognuno applicarsi a rovinare la mia tranquillità, il solo ideale che unisca, rovinare la mia tranquillità, l’opera comune che suggella la riconciliazione tra i popoli, tra i sessi, tra le età, l’ingiunzione irresistibile, l’unica legge senza oppositore né contraddittore, come se questa fosse proprio la condizione prima di qualsivoglia progresso, innanzi tutto rovinare la mia tranquillità, impresa per cui i volontari non sono mancati, molto numerosi e zelanti, non retribuiti, alla quale si sono dedicati anima e corpo, e di buon cuore da sempre, con successo, devo riconoscerlo, e il cui accanimento non si allenta, anzi, poiché la Forza Pubblica se ne immischia ora come se la sua missione di mantenimento dell’ordine le imponesse tanto per cominciare di rovinare la mia tranquillità, come se il mondo non dovesse conoscere alcun riposo finché mi godessi anch’io la tranquillità. Eppure mi nascondo per trovarla, mi ritiro, eppure non mi mostro di più quando per fortuna la trovo, sono persino il più piccolo degli uomini allora, quasi invisibile, il meno in vista di tutti malgrado la mia sedia che non costituisce in sé la prova della mia tranquillità, che del resto porto anche quando va tutto male, ma la mia discretezza non mi garantisce niente (perché, certo, capirei meglio questo accanimento collettivo a rovinare la mia tranquillità se la ostentassi senza pudore in mezzo al tumulto o al panico), la mia tranquillità è in ogni caso considerata come inammissibile, intollerabile, essa attenta a qualcosa che ignoro, occorre imperativamente e al più presto porvi fine, ci si adopera, tutte le potenze fino alle forze minori si mobilitano – fossi anche su un’isola deserta, in mezzo al mare, un taglialegna vi sbarcherebbe per abbattere la mia palma e privarmi dell’ombra e poi se ne ripartirebbe verso la sua barca, tornandosene indietro un’ultima volta per sputare nella mia sorgente o per far scoppiare la mammella della mia capra -, non appena mi sistemo da qualche parte, e mi sono trovato un posticino tranquillo, sopraggiunge la perturbazione che mi rende il soggiorno insopportabile e mi caccia via.