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Brevissimo trattatello sull’opportunità o meno di certe categorie teoriche e critiche per comprendere, discutere, fare della poesia (???) contemporanea

Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui, quello di Marco Giovenale qui.

di Andrea Inglese

In queste poche righe vorrei trattare (di corsa) di diverse cose, tutte serissime, con leggerezza. Vorrei dire: 1) a chi mi piacerebbe si rivolgesse questo scritto, 2) che cos’è avvenuto (in sostanza) in dieci anni nel campo della ricerca poetica in Italia, 3) perché m’interessa una categoria come scrittura non assertiva; 4) come credo vadano considerate altre ipotesi critiche di Marco Giovenale.

Vado di corsa perché il mio lavoro non è (né a tempo determinato né indeterminato) quello di realizzare ricerche in campo letterario, quindi il trattato sufficientemente articolato, probante e esplicito lo scriverò semmai muteranno le mie condizioni materiali di vita. Sono leggero, praticamente spensierato quando parlo di “poesia”, perché in mezzo ai disastri dell’epoca qualsiasi problema riguardante la poesia non può veramente essere un cruccio, anche se dal fare poesia (non assertiva o meno) dipende la mia salute.

 

1.

Non avrei voluto parlare alla mia piccola famiglia di amici, alla mia tribù, ai miei amici e compagni di scrittura, qui su NI, e nemmeno avrei voluto parlare a tutti quanti, perché i tutti quanti sono assenti. Mi sarebbe piaciuto parlare a degli scrittori trentenni, non ai critici trentenni, perché questi ultimi molto spesso pensano di saperne già abbastanza – sono pochi e meravigliosi i critici trentenni o meno che non pensano di saperne abbastanza –, e magari mi sarebbe piaciuto parlare a qualche lettore curioso, che crede ci siano ancora delle scoperte da fare nell’ambito della poesia (italiana ma non solo). Dovrò parlare, però, in parte ai miei compagni di scrittura, perché noi si fa tante cose assieme, ma non sempre parliamo di quello che facciamo, o non sempre quando ne parliamo ci intendiamo, e spesso – di questo io sono convinto – non sempre sappiamo con esattezza quello che facciamo. Il succo però di questo trattatello è semplice: ai più giovani, ai coetanei, ai più vecchi, scrivete con libertà, soprattutto in poesia, non avete nulla da guadagnare né nulla da perdere. Scrivete con tutto, perché il regime democratico delle arti e delle lettere (si legga Jacques Rancière a proposito), questo ha reso e rende possibile. Non cercate, soprattutto, di scrivere bene, di scrivere per distinguervi dagli altri, di scrivere per far piacere a qualcuno. Scrivete perché in un mondo malato e drogato come il nostro, scrivere è comunque (niccianamente) una forma di salute, di disintossicazione.

 

2.

In Italia, a farla molto breve e anche molto schematica, è successo questo. Fino agli anni Novanta esistevano dei poeti che esplicitamente e più o meno criticamente si rifacevano alla tradizione delle avanguardie storiche e anche alla pratica contemporanea dei neovanguardisti loro padri. Questi autori erano legittimati nelle loro scelte di scrittura da un insieme di istituzioni letterarie costituite essenzialmente da riviste (Baldus e tutte le altre), da critici che lavoravano in ambito universitario (Luperini, Cataldi e tutti gli altri e le altre), una serie di festival o incontri pubblici in cui presentare i loro testi (Milano Poesia, Roma Poesia, Ricercare, ecc.). Non voglio fare ora la storia di quanto è accaduto a partire dal decennio successivo. Mi basta osservare questo: le generazioni di autori che sono venuti dopo e per cui la tradizione delle avanguardie novecentesche continuava ad essere un punto di riferimento importante, con tutte le elaborazioni critiche e le discontinuità del caso, si sono trovati a muoversi, semplicemente, in un vuoto dal punto di vista delle istituzioni letterarie. Col senno di poi, possiamo dire che tutto ciò ha avuto indubbi svantaggi, ma anche qualche vantaggio non piccolo. In poesia l’area della cosiddetta ricerca è rimasta per molto tempo assai sfrangiata e priva di padrini, anche se diverse persone hanno svolto un essenziale lavoro di trasmettitori (Giuliano Mesa, Biagio Cepollaro, e tutti gli altri e le altre).

(Fermi tutti! Ho scritto “area della cosiddetta ricerca”. Teniamo buono, per convenzione, vi prego, questo termine, anche se funziona più da indicatore e nome proprio, piuttosto che da termine descrittivo. Oppure: appartiene, convenzionalmente, all’area della poesia di ricerca semplicemente chi considera con attenzione e interesse non puramente storiografico o accademico la tradizione delle avanguardie e le pratiche dell’arte contemporanea. Per chi vuol rivangare, sul termine “dubbio”, ma un po’ inevitabile di “ricerca letteraria” qui https://www.nazioneindiana.com/2013/10/17/appunti-sulle-categorie-zombie-e-sulla-nozione-di-gerarchia-nel-campo-letterario/).

Naturalmente, situazione simile era vera, in gran parte, anche per le aree della giovane poesia italiana più distanti o decisamente estranee alle tradizione novecentesche di stampo avanguardistico e neoavanguardistico. Il panorama era fluido, democratico, caotico, competitivo e si stava tutti entrando nell’epoca spossante dell’autopromozione permanente. Anche una sciagurata e universale abitudine come l’autopromozione – che ovviamente non riguarda solo il piccolo mondo della poesia – ha prodotto qualcosa di positivo. Essa ha incitato all’autonomia. In Italia, quindi, una nuova area della poesia –chiamiamola approssimativamente – di ricerca si è precisata attraverso un faticoso fare da sé. (Hai voglia, poi, a parlare di autoreferenzialità. Se avessimo aspettato che le istituzioni (letterarie) fossero venute a noi, oggi saremmo mummie disidratate e autistiche.) Come tanti altri, ce le siamo costruite con le nostre mani, e come meglio riuscivamo: siti, collaborazioni con riviste già esistenti, bollettini telematici, incontri casalinghi e pubblici, collane in case editrici, autoproduzione editoriale, ecc. Abbiamo anche avuto la fortuna d’incrociare sulla nostra strada un certo numero di critici, grosso modo della stessa generazione, che ci hanno aiutato a comprendere meglio che forma letteraria d’esistenza avevamo, o potevamo avere, nel campo della poesia italiana contemporanea. In tutta questa vicenda – di cui una seria storia è ancora tutta da scrivere, e non potranno scriverla ovviamente solo i protagonisti –, il gruppo di animatori, passati e presenti, del sito GAMMM ha avuto un ruolo molto importante, in ogni caso catalizzatore. Questo sarebbe vero anche se i migliori poeti di “ricerca” oggi in Italia non corrispondessero a nessuno degli autori che sono (o sono stati) in GAMMM.

Qui mi fermo perché non voglio mettermi a fare l’ennesima “cartografia”, l’ennesima lista di nomi, per rassicurare tutti che davvero la poesia esiste e anche noi che scriviamo ne facciamo parte. (Una terribile fregola di canoni, antologie, cartografia di poetiche, correnti, tendenze ha preso tutto il mondo della poesia italiana, forse perché talmente insicuro di sé, questo stesso mondo, incerto della propria vita, circondato da così loquaci scavafosse…). Il punto essenziale di questo paragrafo è: un certo numero di persone (tra cui Mariangela Guatteri, Marco Giovenale e il sottoscritto, che interveniamo ora intorno alla formula “scrittura non assertiva”) hanno fatto un notevole lavoro per rendere plausibili e verosimili, sul piano delle istituzioni letterarie, una serie di scritture all’interno di quell’ambiente che è, grosso modo, quello della “poesia italiana contemporanea” – ci piaccia o meno –, ossia all’interno di un campo in cui circolano delle scritture poetiche anche lontanissime dalle nostre e dalle nostre idee di cosa sia una scrittura (poetica o meno). Questo lavoro fatto, a mio parere preziosissimo e fondamentale, ci permette oggi di metterci nel ruolo, a nostra volta, di trasmettitori per tutti coloro che avranno desiderio di confrontarsi, usare o travisare, liberamente e criticamente, quanto abbiamo organizzato, sedimentato, scritto. (Sulla questione della trasmissione e delle minoranze in poesia, si può leggere al termine di questo pezzo https://www.nazioneindiana.com/2015/02/24/fortini-e-la-poesia-come-pratica-di-minoranza/). Questo per quanto riguarda il noi, che per me ha voluto dire una serie di progetti e amicizie, tra cui GAMMM, ma questo “noi” resta tutto da precisare nei suoi confini tutt’ora aperti e frastagliati. Rendendo plausibile una certa poesia di ricerca in Italia, questo “noi” ha fondamentalmente lavorato ad avvicinare la scrittura all’universo dell’arte contemporanea, delle sue pratiche e dei suoi concetti, stabilendo dialoghi, nello stesso tempo, con forme di scrittura specialmente francofona e anglofona, che già da almeno un decennio o più, sperimentavano fecondamente tale prossimità tra scrittura poetica e pratica artistica.

 

3.

Tra le anime del gruppo GAMMM, uno dei motori principali in termini di organizzazione, comunicazione e elaborazione teorico-critica è Marco Giovenale. E non è un caso, che ci si ritrovi qui a riflettere su una sua ipotesi critico-teorica – la scrittura non assertiva – in concomitanza con due occasioni: lo speciale di un numero della rivista svedese “OEI” di prossima pubblicazione e un incontro milanese di autori che leggeranno dei testi all’insegna della “non-assertività”. (Alcuni autori sono presenti in una occasione, ma non nell’altra. Ma questo è un fatto poco significativo.) Quello che a me preme precisare è la differenza tra delle feconde suggestioni critiche e una lavoro critico vero e proprio. Molti dei concetti elencati da Marco Giovenale in questo suo pezzo sono delle suggestioni critiche feconde e generose che hanno contribuito a creare quello spazio di “plausibilità” della poesia di ricerca in italiana nell’ultimo decennio. Non credo però che tutte queste suggestioni critiche abbiano la stessa importanza né la stessa utilità sul lungo termine, ossia nell’ottica di un discorso critico sufficientemente fondato. Di questo lo stesso Marco Giovenale è cosciente e lo sottolinea nel suo pezzo. (Continuo la convenzione della terza persona, anche se potrei rivolgermi a Marco direttamente alla seconda persona. Ma poi ho davvero paura che anche i tre lettori giunti sino a qui dileguino, scoprendosi testimoni di una conversazione intima.) Perché una categoria critica nuova dimostri una sua efficacia deve essere sperimentata in modo abbastanza sistematico su un corpus di testi minimamente significativo. Altro punto importante, una categoria critica nuova è davvero necessaria se non esiste già qualcosa di disponibile all’interno della letteratura critica e teorica esistente, capace di fare un lavoro di analisi e interpretazione analogo. Inutile creare doppioni. Infine è assai rischioso, anche se utile in specifiche circostanze, estrapolare concetti nati in un determinato ambito – come quello delle arti contemporanee – e applicarli per somiglianze a un contesto molto diverso come quello delle scritture letterarie. (Tutto si può fare, ovviamente, ma con i debiti passaggi, le debite definizioni e ridefinizioni.) Veniamo ora alla nozione “non assertività”. Mi sembra che già il pezzo di Mariangela Guatteri, per la sua impostazione, e per i criteri che fa emergere, sia sufficientemente indicativo, di come possa essere usata proficuamente e consapevolmente.

Mi piacerebbe, qui, fornire un esempio elementare di come io renda operativa questa categoria nella lettura di testi poetici. Scelgo di considerare il termine “assertivo” in modo non tecnico, ossia senza riferimento alla specifica teoria degli atti linguistici dei filosofi del linguaggio Austin e Searle. (Ma non è da escludere che una riconsiderazione seria del termine potrebbe svilupparsi a partire proprio da quella teoria.) Partiamo da qualcosa di ampiamente condiviso. Alla voce “asserire” nel dizionario leggiamo: affermare, dichiarare, dare una cosa per certa”, e enumera i sinonimi: “affermare, assicurare, attestare, certificare, confermare, dichiarare, sostenere”. Siamo qui nell’ambito della testimonianza percettiva e in quello dell’espressione di una credenza. Inevitabilmente, il non assertivo ci conduce a una vecchia questione, che non è tanto quella dell’io lirico, ma della tipologia storicamente dominante dell’enunciato lirico (ossia dell’enunciato della poesia moderna). Il termine “non assertivo” sollecita, insomma, un modo più utile e sensato di riflettere (nuovamente) sui limiti dell’enunciazione poetica (lirica). Invece di gettarci a soppesare la quantità di io, di emozioni, di soggettività, espressività, ecc. in un testo poetico, possiamo interrogarci sul rapporto che lega l’enunciato poetico al suo soggetto d’enunciazione all’interno della situazione comunicativa corrispondente. Prendiamo un esempio concreto. Un testo di Massimo Gezzi, dal suo libro Il numero dei vivi (Donzelli, 2015). Ho scelto Gezzi, sia perché apprezzo il suo lavoro sia perché lo trovo distante (se non altro) dalle preoccupazioni critiche e teoriche che ci impegnano qui. Leggiamo un testo del libro:

 

Una signora

Una signora sta giocando a racchettoni.

Indossa una bandana rosso acceso, porta occhiali

da sole. Ogni volta che sbaglia un colpo

getta a terra la racchetta, o rovista

nella sabbia col taglio, blaterando una parola.

Gli altri, un po’ più in là, si scambiano fendenti.

Lei sta giocando contro il muro, da sola.

 

 

Qui abbiamo un tasso di figuralità minimo, la lingua è denotativa, gli avvenimenti descritti banali. Il soggetto non commenta, non esprime sentimenti, non fornisce morali della favola. Che rapporto possiamo stabilire tra l’enunciato e il soggetto dell’enunciazione? Rispondendo a questa domanda, la questione dell’assertività appare pertinente. La situazione descritta è una situazione verosimile. Può corrispondere a qualcosa di cui il soggetto che enuncia è stato testimone, o si presenta come testimone. Se tra tutte le azioni verosimili, o tra tutte quelle di cui ha avuto diretta esperienza, sceglie questa, ciò significa che, pur essendo priva di un significato (una valore) determinato, la sua forza percettiva, la sua sola “presentazione”, sarà in grado di sollecitare nel lettore una qualche attribuzione di significato. Siamo nel paradigma della “testimonianza percettiva”. Ho visto, non so cosa ho visto, ma quello che ho visto te lo voglio dire. Potrebbe anche essere, invece, che questa situazione verosimile, sia stata costruita in termini di finzione narrativa, perché in essa l’autore coglie un emblema. Di fronte a un testo come questo, a basso tasso di liricità, può risultare utile il riferimento alla nozione di “assertività”. Il patto implicito con il lettore, è che l’autore potrebbe farsi carico dell’enunciato espresso dal soggetto dell’enunciazione all’interno del suo testo. Egli ha deciso di ritagliare nell’universo (verosimile o percettivo) una figura e di valorizzarla attraverso una descrizione elementare. Il tasso di assertività nel caso di Gezzi può in realtà variare a seconda di quanto il lettore si persuada delle dimensione emblematica del soggetto descritto, o piuttosto della sua dimensione enigmatica (opacità semantica). A ben guardare, quindi, anche in questo testo non è semplice stabilire in modo univoco un grado di assertività.

Prendiamo ora un testo di Mariangela Guatteri, dal suo libro Figurina enigmistica (ikona Líber, 2013). Già è più difficile in un libro come quello di Guatteri scegliere un testo. L’architettura del libro di Gezzi è familiare e riconoscibile: una serie di testi in versi quasi tutti con titolo, e organizzati in sezioni. Figurina enigmistica non ha un indice, e l’articolazione dei singoli testi all’interno della totalità del libro appare complessa, strana, disorientante. Siamo in ogni caso sul terreno di un’eterogeneità di tipologie enunciative, di generi discorsivi e letterari, eterogeneità che si riflette anche nell’organizzazione grafica del testo e delle immagini. I titoli più che essere tematici indicano “tipologie” discorsive e testuali: Esercizi per dimenticare le figure, Domande bizzarre, Fogliettini, Congiunzioni, ecc. Questa eterogeneità di materiali, generi, figurazioni produce senza dubbio un’opacità sia dal punto di vista dell’architettura testuale sia dal punto di vista dei singoli testi contenuti nel libro. E se mettiamo in correlazione opacità semantica e bassa assertività, la Guatteri ci presenta qui un’operazione globalmente non assertiva. Ma anche questa affermazione andrebbe attenuata. L’apparecchiatura paratestuale di Figurina enigmistica è una macchina che gira a pieno regime, e suggerisce, ma anche dà in modo esplicito, un gran quantità d’indicazioni di lettura. Non sarebbe arbitrario cogliere nel libro della Guatteri un itinerario di disintossicazione semantica, di emancipazione per destrutturazione linguistica e per esibizione dell’eterogeneità dei materiali d’archivio della nostra cultura. Questo è il lato assertivo, ossia politico della medaglia. Vi è un’intenzione d’autore che ha un carattere politico, e che opera nell’organizzazione e nella presentazione dei materiali, provocando ordine e caos, lampi e buio semantico, straniamenti, esperienze percettive, ecc. Sul piano del patto con il lettore, nulla a che vedere con quello stabilito da Gezzi. Nel caso di quest’ultimo, le incertezze del patto si presentavano a livello micro-testuale (eventualmente), ma non a livello di architettura generale del libro. Il lettore di Figurina enigmistica, invece, non sa cosa sta leggendo. E il livello d’incertezza più globale, che sperimenta nel confronto con il testo che gli viene offerto, è un obiettivo non solo implicito dell’autore del libro, ma è in qualche modo annunciato e ribadito da tutto l’apparato paratestuale.

Mi fermo qui, anche se il cammino dell’analisi testuale è stato soltanto abbozzato, ma si è reso utile per chiarire almeno un punto. Assertività e non assertività possono essere proficuamente utilizzate come due polarità entro le quali sia un testo letterario, sia la dinamica variamente comunicativa che lo inserisce entro una fruizione di tipo letterario, possono muoversi. Questa proposta non intende neutralizzare l’elemento valutativo insito nell’opposizione categoriale assertivo / non assertivo, ma invita a farne un utilizzo in prima istanza descrittivo, e quindi in stretta connessione con la molteplicità e la specificità dei testi esistenti. In secondo luogo, tali categorie possono essere pensate in relazione all’esigenza fondamentale di pensare la scrittura (poetica, di ricerca, letteraria) come una delle forme sociali di decondizionamento ideologico o di critica dell’ideologia, muovendo dal suo terreno specifico che riguarda le forme, i vocabolari, le modalità di comunicazione di una figurazione del mondo. Non interpreto altrimenti, nel testo di Mariangela Guatteri pubblicato in NI, il riferimento “a uno sguardo critico sul reale”. E come mi sembra Guatteri ha pensato la non-assertività in termini negativi, di quanto sottrae al testo, piuttosto che delle marche che la renderebbero immediatamente riconoscibile, così il decondizionamento è un lavoro che sottrae, interroga e toglie, piuttosto che colmare e riempire.In conclusione, penso che l’opzione verso una scrittura non-assertiva abbia senso se compresa all’interno della più generale strategia comunicativa di tipo letterario e artistico di un autore confrontato a un determinato contesto storico. Ciò significa che la non-assertività è un aspetto fondamentale dell’enunciato letterario, un aspetto per altro precocemente segnalato dalla teoria e dalla critica letteraria novecentesca ogni volta che ha riflettuto sul carattere polisenso e ambiguo del testo, e sulla sua capacità di sprigionare “nel tempo” significati mai esauribili in uno specifico contesto storico di comunicazione. Avrebbe poco senso, quindi, fare della non-assertività un manifesto (implicito o meno) di una nuova poetica contemporanea. Più interessante è invece enfatizzarne l’utilità interpretativa, nell’ottica di un discorso sulle capacità critiche e sulle valenze politiche della scrittura contemporanea.

 

4.

Nonostante i miei buoni proposito il discorso si è infittito. Mi limiterò allora ad esporre le perplessità che mi suscitano un paio di categorie critiche che, anche in questa occasione, Marco Giovenale ha formulato. Lo faccio, però, dopo una dovuta premessa. Come ho chiarito nel punto 2, abbiamo costruito per anni nel niente e, citando Antonio Moresco, abbiamo dovuto costruire sia l’osso sia il muscolo che intorno ad esso si sviluppa. Credo che molti di noi siano in debito con Marco Giovenale per la sua prodigalità organizzativa e ideativa. Lo siamo senza dubbio stati e lo saremo ancora. D’altra parte non possiamo chiedere a una stessa persona la prodigalità dei suggerimenti e delle suggestioni critiche, e la parsimonia del lavoro critico di lunga durata al servizio dei testi. Questo lavoro lo dovranno fare altri (nel migliore dei casi). Lo stanno già in parte facendo. Noi autori possiamo collaborare, provocando e disseminando, ma non possiamo colmare quel lavoro critico che si fa nel corso del tempo (dei decenni). Anche per questo motivo, mi sembra opportuno dire due cose sulle nozioni di “cambio di paradigma” e sull’opposizione “performativo /installativo”. Sulla questione del “cambio di paradigma”, la mia osservazione è semplice. Esiste una vasta letteratura filosofica e storiografica che ha affrontato un simile tema nella visuale ben più ampia di quella relativa alle “scritture letterarie”. Se la nozione di “cambio di paradigma” ha un suo interesse, ciò è relativo al contesto più ampio, culturale ed economico, nella quale s’inscrive, e non certo come etichetta per discernere stili letterari. Il dibattito internazionale intorno alla nozione di post-moderno e post-modernità, svolto soprattutto nel mondo anglosassone e in quello francese fin dall’inizio degli anni Ottanta, ha costituito uno dei maggiori terreni teorici per comprendere quali mutamenti profondi sono avvenuti all’interno della cultura occidentale alla fine del secolo scorso. In Italia, purtroppo, il discorso sul post-moderno è rimasto in gran parte confinato entro questioni (al solito) di interesse nazionale e soltanto nazionale (dalle considerazioni relative all’ultimo Calvino e al Nome della rosa di Eco a quelle relative al “pensiero debole” di Vattimo). Esistono, però, almeno due libri celebri, che potrebbero costituire un primo riferimento adeguato, per chi volesse parlare di mutamento di paradigma, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson (versione originale nel 1984). Il secondo, di ambito francese, potrebbe essere più che il libro del 1979 di Lyotard, Il nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski e Ève Chiapello, apparso in Francia nel 1999 e ora tradotto anche in Italia (da Mimesis). Libri entrambi discutibili e criticabili, che però mettono in stretta relazione le evoluzioni del sistema economico e di quello culturale, con un’attenzione anche al fatto letterario.

Sulla contrapposizione installativo / performativo vi ritornerò anche perché riguarda la mia pratica di scrittura (e non solo) in modo diretto. Mi accontento qui di ricordare una cosa. Uno dei numi tutelari dell’innovazione testuale in ambito poetico nel corso degli anni Novanta in Francia è stato Christophe Tarkos, autore tradotto in Italia da Michele Zaffarano e ben conosciuto dai membri odierni e passati di GAMMM. Io stesso ne ho scritto in diversi saggi, apparsi anche su NI. Ebbene Tarkos è simultaneamente un poeta performativo e un poeta installativo, è un poeta installativo in virtù del suo essere performativo. Ancora una volta, l’utilizzazione di queste due categorie per un uso descrittivo si rivela feconda, a patto di non ricondurla immediatamente dentro un quadro normativo e di tendenze (di poetiche) oppositive, quadro nel quale esse finiscono di perdere la loro utilità euristica e di forzare le letture di un’opera o di una pratica letteraria.

 

(Perdonate fin d’ora la profusione di refusi, lacune e imprecisioni.)

 

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29 Commenti

  1. 1.

    Caro Andrea, passo direttamente al tu, intervenendo a commentare… Il commentatore ha buon gioco nello scivolamento verso il carattere informale del discorso. Quasi… familiare.

    Innanzitutto dico che condivido una quantità di cose che tu scrivi in questo “Trattatello” (https://www.nazioneindiana.com/2015/10/22/brevissimo-trattatello-sullopportunita-o-meno/). Sulle poche (ma magari cruciali) che ci distanziano, intervengo di séguito, utilizzando la stessa scansione in paragrafi (dialogando con gli stessi paragrafi) del tuo pezzo.

    2.

    Sull’incipit del §2, sintesi bella e condivisibile, aggiungo un paragone che m’è capitato di fare più volte. Gli (o alcuni degli) autori della mia generazione, che si occupa(va)no di “scrittura di ricerca”, hanno vissuto un po’ l’esperienza della talpa che scava i territori degli anni Novanta (e in parte degli Ottanta), in profondità, passando cioè piuttosto lontani dalle superfici testuali affioranti di quel decennio, per poi sbucare tutti, e tutti indipendentemente, guarda caso nello stesso fazzoletto di terra, a XXI secolo avviato. In buona parte ciò si è dato grazie alla scrittura in rete (che in Italia, s’è ripetuto da più parti, ha un’impennata o scintilla decisiva nel 2003).

    Si sbuca fuori da questo ruminare e scavare, e ci si guarda intorno. “Toh”, fa Broggi ascoltando Giovenale, “uno che fa e pensa più o meno cose analoghe alle mie, in sintonia, è saltato fuori dal nulla, anche lui in questo riquadro”. Ai nomi di Broggi e Giovenale possiamo sostituirne altri, parecchi, moltiplicando e intrecciando varie combinazioni. Con la stessa sostanza: autori che in gran parte non si conoscevano, e più o meno coetanei, hanno letto e lavorato ‘sommersi’ per dieci/quindici anni, indipendenti quasi sempre uno dall’altro (eccezioni, in termini di indipendenza: il dialogo Zaffarano-Bortolotti, e quello Inglese-Raos). E poi si sono ritrovati – da strade diverse, ed esperienze di vita non sempre paragonabili fra loro – a operare negli stessi modi o con risultati che disegnavano una specie di costellazione testuale non disomogenea. (E omogenea, più o meno, a precise aree testuali vaste e non italiane, e ignote in Italia).

    In effetti questo italico piccolo territorio (in cui costoro sbucavano = noi sbucavamo) non era del tutto vuoto di strutture. Qui un po’ (solo un po’) dissento da te. Alcune impalcature c’erano. Luoghi esistevano, o erano appena nati o si stavano creando (Nazione indiana, Slow-forward su piattaforma Splider, poi su WordPress, Absolute Poetry e molte altre). Altre (r)esistevano da tempo. Alcune riviste non erano avare di ospitalità (due su tutte: “l’immaginazione” e “Sud”). Alcuni festival e incontri sembravano sensibili alle voci nuove (penso a RomaPoesia). Tu giustissimamente citi inoltre Biagio Cepollaro (e il suo generoso hosting di materiali) e Giuliano Mesa (l’esperienza di Àkusma conduce a due città, Bologna e Roma, nell’arco temporale 1998-2003, e mi esorta a citare con gratitudine anche Benedetta Cascella, straordinaria ospite di incontri informali determinanti per – almeno – due dozzine di autori, anche solo limitandoci a considerare il tempo… akusmatico, a Roma).

    Tante strutture si sono poi create successivamente proprio grazie agli incontri avvenuti nel tempo e nei luoghi di passaggio dal periodo ‘sommerso’ (appunto, gli anni Novanta, grosso modo) agli anni Zero. Ma sulle ‘nuove’ strutture – alcune presenti e attive – non mi diffondo, ovviamente.

    Ok.
    Altra cosa su cui vorrei tornare è il termine “poesia” (che opportunamente fai seguire, nel titolo del tuo pezzo, da tre punti interrogativi).

    In aree sia vicine che lontane dalla lingua italiana, lo sappiamo, è vocabolo estremamente elastico (per dire: in area statunitense, “poem” e “poetry” arrivano a coprire di tutto, da sfocature o sovrapposizioni puramente grafiche e per nulla alfabetiche a sonetti iperformali scritti tenendo la testa in qualche gesso classicista. La forbice non potrebbe essere più divaricata, lo spazio più inclusivo).

    Questo stesso fatto, a mio avviso, sposta in modo difficilmente definibile – e su una scacchiera ancor meno facile da definire – il terreno di tanti dialoghi e tante operazioni critiche effettuabili. Intendo dire: alcune scritture, scrizioni, perfino graffiature semplici (a volte con presenze alfabetiche, a volte con porzioni di testo ‘letterario’, proprio o altrui; a volte no) sono accorpabili al contesto “poesia”? Per alcuni statunitensi sì, per alcuni francesi no. Per alcuni italiani idem: no (io mi sento piuttosto propenso ad apparentare poesia e assertività, e postpoesia e non-assertività: ma più che certezze ho qualche manciata o nuvolaglia di esempi ‘italiani’ su cui contare). Per vari autori e critici svedesi, specie quelli della rivista “OEI”, la non-assertività è contesto o area (sfrangiata, forse indefinibile se non daccapo ‘per exempla’) che funziona proprio da macchina negatrice non di “un’idea di” ma della “maggioranza delle prassi di” poesia. Il numero di “OEI” a cui facciamo riferimento, non imminente bensì già uscito a ridosso dell’estate e presentato a Stoccolma a fine agosto 2015, praticamente frantuma la gran parte delle cose che normalmente tutt’ora si intende rubricare sotto il vocabolo poesia.

    3.

    Confermo la tua indicazione sulla differenza tra le “suggestioni critiche e un lavoro critico vero e proprio”. Il secondo temo non mi appartenga, anche per indole (e certo per… professione: post lauream ho fatto percorsi molto anarchici, fuori dall’accademia). E ti ringrazio di quanto scrivi (direi troppo generosamente) sul valore delle suggestioni che, appunto, negli anni ho elaborato e proposto.

    Spesso, quando propongono qualcosa che rischia di essere inclusivo e vagamente definitorio, mi affretto a rammentare che le definisco non concetti o categorie ma – lo dico proprio all’interno del pezzo – “espressioni” (genericissimo). O (aggiungo ora) attrattori, calamite tentate dal malfunzionamento. Nonché dotate di appositi meccanismi attenuativi, dubitativi (che non sono né intendono sembrare accessori ma sostanze di base del discorso, da questo inseparabili). Chiedo venia, mi cito: “queste espressioni […] non si configurano come categorie”; e ancora: “non sono categorie, non vogliono essere scatole, definizioni. Vengono usate come tali, spesso. Ma sono, probabilmente, ambienti, costantemente dotati di tutti i comfort dubitativi degli ambienti che – da architetto deviante – escogito”. (https://www.nazioneindiana.com/2015/10/12/qualche-asserzione-sparsa/).

    Della mia coscienza di ciò mi dai atto, per altro, lo leggo all’inizio del tuo §3.

    E scrivi: “Assertività e non assertività possono essere proficuamente utilizzate come due polarità entro le quali sia un testo letterario, sia la dinamica variamente comunicativa che lo inserisce entro una fruizione di tipo letterario, possono muoversi. Questa proposta non intende neutralizzare l’elemento valutativo insito nell’opposizione categoriale assertivo / non assertivo, ma invita a farne un uso in prima istanza descrittivo, e quindi in stretta connessione con la molteplicità e la specificità dei testi esistenti. In secondo luogo, tali categorie possono essere pensate in relazione all’esigenza fondamentale di pensare la scrittura (poetica, di ricerca, letteraria) come una delle forme sociali di decondizionamento ideologico o di critica dell’ideologia, muovendo dal suo terreno specifico che riguarda le forme, i vocabolari, le modalità di comunicazione di una figurazione del mondo”.

    Concordo, decisamente.

    E poi dici: “Ciò significa che la non-assertività è un aspetto fondamentale dell’enunciato letterario, un aspetto per altro precocemente segnalato dalla teoria e dalla critica letteraria novecentesca ogni volta che ha riflettuto sul carattere polisenso e ambiguo del testo, e sulla sua capacità di sprigionare ‘nel tempo’ significati mai esauribili in uno specifico contesto storico di comunicazione. Avrebbe poco senso, quindi, fare della non-assertività un manifesto (implicito o meno) di una nuova poetica contemporanea. Più interessante è invece enfatizzarne l’utilità interpretativa, nell’ottica di un discorso sulle capacità critiche e sulle valenze politiche della scrittura contemporanea”.

    Qui mi trovo su altra posizione, e preciso: a mio avviso si ‘può’ parlare di non-assertività (osservando in concreto sempre oggetti ‘artistici’ precisi) spesso slegandola dal “carattere polisenso e ambiguo del testo”, sia esso inteso in termini di connotazione o alone o di materialissime anfibologie – eccetera.

    L’impredicabilità delle direzioni (e delle indicazioni di patto col lettore) di un testo è tale, in un testo assertivo, per cui si possono sempre individuare due o tre o enne ‘scioglimenti’ (che magari proporrà il lettore futuro, incastonato implicitamente nell’opera). Bon.

    A mio modo di vedere o percepire, invece, in un testo non-assertivo accade sì lo stesso, ma di solito l’autore sta ‘disinnescando’ questi medesimi scioglimenti, si sta davvero mettendo i bastoni tra le ruote, per esempio attivando un meccanismo che ‘non si sa mai’ se sia ironico o no (Zaffarano in “Cinque testi”, Broggi in moltissimi suoi materiali) oppure morale/moralisitico o no (Guatteri in “Figurina enigmistica”) oppure decifrabile o no (evito di citarmi). Insomma l’autore non fa ‘il gesto di’ defilarsi un momento prima dell’arrivo del lettore sulla scena testuale, ma se ne va veramente.

    Invece ‘l’assertivo’ (non so come spiegarmi) tu ‘lo senti’ che resta in scena.

    Siamo d’accordo invece su quel che si diceva prima: questa distinzione possibile (e ‘graduabile’, certo) ha un senso – per me, almeno, ora – non valutativo (o non necessariamente tale) bensì descrittivo.

    Tornano a differenziarsi, le nostre posizioni, dove parli di enfatizzare “l’utilità interpretativa” della non-assertività (di cui neanch’io – mi pare – faccio un “manifesto”). Enfatizzarla, scrivi, “nell’ottica di un discorso sulle capacità critiche e sulle valenze politiche della scrittura contemporanea”. Uhm, dirò meglio: non sono in disaccordo sul fatto che il discorso sia fattibile (penso daccapo agli esempi portati da me – e da te – poche righe sopra). Lo è. Ma voglio estendere la riflessione aggiungendo che a parer mio – fatti salvi i meccanismi di disinnesco di cui sopra – spesso alcuni testi sulle cui “forme” è troppo immediatamente esemplabile un discorso sulle “valenze politiche” possono essere quelli dove il grado di non-assertività tende a decrescere. (Il che, ripeto e insisto, non è un ‘male’; ma va – come suggerisci – ‘descritto’).

    4.

    Ringraziando (confuso! urca!) per quanto di davvero troppo elogiativo scrivi nelle prime righe del §4, arrivo ad un passo che cito: “D’altra parte non possiamo chiedere a una stessa persona la prodigalità dei suggerimenti e delle suggestioni critiche, e la parsimonia del lavoro critico di lunga durata al servizio dei testi. Questo lavoro lo dovranno fare altri (nel migliore dei casi). Lo stanno già in parte facendo. Noi autori possiamo collaborare, provocando e disseminando, ma non possiamo colmare quel lavoro critico che si fa nel corso del tempo (dei decenni)”.
    Non potrei essere più d’accordo.

    Sono le due esigenze di cui tante volte abbiamo parlato: da una parte serve uno studio storiografico-critico, da parte di sguardi attenti a materiali e movimenti e riviste e convegni e reading, sugli anni Ottanta-Novanta (qualcosa di paragonabile al lavoro di Luperini nel suo “Novecento”); dall’altra almeno un primo inquadramento degli ‘anni Zero’, certo non sotto il solo profilo della ‘scrittura di ricerca’.

    Meno d’accordo – o forse più stupito – sono quando citi la questione del “cambio di paradigma” come posta da me in quanto “etichetta per discernere stili letterari”. Se da una parte è proprio al superamento del ‘focus’ sugli stili (e sui tropi, sulle retoriche, sui generi) che mi sembra rivolgersi tanta parte del mutamento ormai in atto da mezzo secolo nel mondo, dall’altra va detto che stringere il campo sulla sola scrittura è una limitazione fin dall’inizio (da me e certo da tutti, direi) intesa come tale.

    Qui, https://www.nazioneindiana.com/2010/10/21/cambio-di-paradigma/, proprio in incipit, il “Quando” è limitazione ‘intenzionale’ di area: “Quando si parla di ‘cambio di paradigma’, in riferimento alla scrittura o ad alcune scritture di ricerca degli ultimi decenni e segnatamente a quelle degli ultimi quindici-venti anni, specie in Francia e Stati Uniti e perfino in Italia […]” etc.

    Quella che è un’esplicita limitazione diventa l’esplicitazione di un illimite in altri miei pezzi che chiariscono infatti – anche un po’ enfaticamente e ingenuamente – che “cambio di paradigma” è da intendersi in senso ampio, non limitato, e insomma culturale (antropologico), non solo letterario. Cfr. testi come “1870” (ne “l’immaginazione”, marzo-aprile 2012, nella rubrica ‘gammmatica’) o “Scritture di ricerca: dopo il paradigma” (http://puntocritico.eu/?p=4397, 2012), oppure “Mimesi/Benjamin” (http://puntocritico.eu/?p=4446), ma soprattutto “Riambientarsi (ma anche difendersi)” (http://puntocritico.eu/?p=4660).

    Solo momentaneamente le mie (insisto e sottoscrivo il termine) suggestioni critiche si discostano da un’analisi di analogie e differenze con un’idea di postmodernità. Ma, d’altro canto, postmoderno e cambio di paradigma non si sovrappongono. (Certo: da ciò deriva la necessità di approfondire. Cosa che – of course – rinviamo).

    (Una quasi-sovrapposizione, direi più ‘proficua’, semmai la trovo fra cambio di paradigma nelle percezioni/aspettative visive nella prima metà dell’Ottocento, alla nascita della fotografia, e cambio di paradigma nelle percezioni/aspettative delle scritture che sorgono al nascere degli anni Sessanta del XX secolo).

    Ma proseguo.
    Scrivi: “Sulla contrapposizione installativo / performativo ritornerò anche perché riguarda la mia pratica di scrittura (e non solo) in modo diretto. Mi accontento qui di ricordare [che…] Tarkos è simultaneamente un poeta performativo e un poeta installativo, è un poeta installativo in virtù del suo essere performativo. Ancora una volta, l’utilizzazione di queste due categorie per un uso descrittivo si rivela feconda, a patto di non ricondurla immediatamente dentro un quadro normativo e di tendenze (di poetiche) oppositive, quadro nel quale esse finiscono di perdere la loro utilità euristica e di forzare le letture di un’opera o di una pratica letteraria”.

    In effetti un’ostilità frontale verso quadri normativi me la riconosco, e quindi non potrei che concordare. Butto giù però alcune note sparse, precisazioni.

    La contrapposizione tra installazione e performance, accennata nel 2006 proprio alla nascita di gammm dall’intervento a due mani di Gherardo e mio (“Tre paragrafi su scritture recenti”: http://gammm.org/index.php/2006/07/16/tre-paragrafi-gbortolotti-mgiovenale/), aveva forse in mente anche ‘luoghi’ (non ancora resi comuni) proprio vertiginosamente installativi. Non mi diffondo in esempi (che tra l’altro gammm ha seguito meno di quanto si ripromettesse, ahi) ma offro due link ad articoli fittissimi di esempi, che chiariranno forse meno vagamente i termini e il senso dell’opposizione:

    “Scritture installative [prima parte]”
    (http://www.alfabeta2.it/2015/03/15/gioco-e-radar-09-scritture-installative-prima-parte/)
    e
    “Scritture installative [seconda parte]”
    (http://www.alfabeta2.it/2015/03/22/gioco-e-radar-10-scritture-installative-seconda-parte/)

    Volendo, aggiungo qualche esempio di testo installativo duro e puro:

    http://coldfrontmag.com/jatte-by-charles-bernstein/
    (Charles Bernstein, 2008-2009 / 2014)

    http://vuggbooks.randomflux.info/ganick/z-existence8.pdf
    (Peter Ganick, non ricordo l’anno)

    http://issuu.com/garybarwin/docs/nasa_jpg_earth_view_from_the_top
    (Gary Barwin, 2014)

    (Ma, per dire, consideriamo Holger Friese: https://slowforward.wordpress.com/2013/03/04/ot-pdf-2000-by-holger-friese/)

    Ciò detto, rammento anche la mia idea e pratica di “installance”, che lega (ok: magari con un tot di deprimente naïveté) i due vocaboli. Un About in inglese che ho ripostato in Slow spiega cos’è un’installance (il pezzo è un relitto dal blog installance.blogspot.com, 2010-2015, ora offline per tristi motivi di cookie): https://goo.gl/jLCEfH; e cfr. anche “Note sul concetto di installance”, https://goo.gl/XOEfUT

    E ancora e ancora: sulla performatività e sullo “spettacolo” ho riflettuto anch’io in riferimento a quanto vado facendo da diversi anni. Soprattutto in merito alle (direi quasi tarkosiane) prose di “Oggettistica”, mettendomi spero profittevolmente ma pure parzialmente in crisi in questo post, “Draft e notille su alcune scritture di ricerca”, ospitato da Portbou: https://blogportbou.wordpress.com/2013/05/15/draft-e-notille-su-alcune-scritture-di-ricerca/ (cfr. in particolare il primo paragrafo: “In termini di lettura in pubblico”).

  2. Leggo, ma mi riprometto con più attenzione (avevo preparato questo commentino, ma qualche risposta in più mi viene dal commentare di Marco Giovenale) più per porre domande che per entrare con precisione nel merito della questione – troppo ampia d’altronde che travalica il mero discorso letterario.
    “Non so, non so! tutta la storia di assertività/ non assertività sembra perdere peso se non si chiarisce la posizione di chi asserisce o “finge” di non asserire (chiamiamolo ottocentescamente soggetto o più amabilmente ibrido, corpo proteico, homo e basta, essere posteriore – che sa di fondoschiena, pardon – e chi più ne ha più ne metta). Direi che riflessione, per niente imprescindibile, ma almeno curiosa, potrebbe essere quella sui linguaggi nella storia recente (quel mezzo secolo di cui parla Giovenale nel commento), per capire meglio le nostre intolleranza, dico, e scoprire, se necessario, un orientamento. Certo, per chi? anche qui la “posizione”è importante (scusate tutti i riferimenti osceni). Mi chiedo quanta carica “anarcoide” fermenta sotto lo strato di “obiettività” che potrebbe emergere dalla non-assertività e quanta carica imploravi in un soggetto che sente di dover asserire la propria inconsistenza? Forse domande scontate, forse no ma scrittura di ricerca o meno – e che è questa ricerca? – memoria, storia e luogo come si assestano nel cambiamento? Avverto come un’esigenza e vorrei capire un po’ di più. Non per politicizzare, ma in questi giorni ci penso assai – non che sia una novità, piuttosto un rovello – il periodo e gli strascichi delle neoavanguardie hanno visto l’avvento del berlusconismo – in Italia, almeno – e al “nuovo paradigma” di una svalutazione etica senza controllo, alle isole a-relazionali del versante occidentale – questo su scala globale, dal neo-liberalismo anni ottanta per intenderci in cui tutti qui, sul piano generazionale affondiamo i piedi con tutte le scarpe

  3. Ho una domanda per Marco o Andrea (o anche Mariangela). Non capisco bene che differenza ci sia tra “scrittura non assertiva” e la ormai cinquantennale nozione di “opera aperta”.
    Condivido quanto dice Andrea sull’utilità della nozione, nei termini che lui propone, ma non mi sembra che si distanzi molto dal concetto di Eco. (Condivido pienamente anche gli apprezzamenti sull’operato di Marco, nonostante le obiezioni che gli ho mosso, e che presumibilmente gli muoverò ancora, anche sulla nozione di “cambio di paradigma” – d’altra parte, non vale la pena di discutere temi interessanti se non con persone per cui non si ha stima :)

  4. «Una terribile fregola di canoni, antologie, cartografia di poetiche, correnti, tendenze ha preso tutto il mondo della poesia italiana, forse perché talmente insicuro di sé, questo stesso mondo, incerto della propria vita, circondato da così loquaci scavafosse…».
    Sì, è la stessa cosa che succede a un individuo ipocondriaco, insicuro della propria salute: si lancia in una grande quantità di esami clinici e visite mediche. Se poi trova un “medico” che gli prospetta un quadro preagonico, ovviamente la sua insicurezza aumenta vertiginosamente.

  5. Giusta osservazione, Daniele (e grazie per la stima, ricambiata). In effetti in vari interventi parlando di “cambio di paradigma” e non-assertività m’è capitato di fissare (o fissarmi con) il 1962 come anno cruciale, citando tra l’altro proprio O.A.
    Sono da poche ore senza internet per un guasto. Temo di non poter tornare sul tema al mio solito modo prolisso finché non torna a funzionare. Sorry…

  6. Libertà nella scrittura e passione per la lingua. Una passione d’infanzia. Ogni parola come paese da nominare.
    C’è una felicità nella poesia da poeta o da lettore.
    Non si parla quasi mai del ritorno felice della lingua, quando si scrive.

  7. Non entrando nel merito della categoria di cui si va ragionando (perché di categoria, evidentemente, si tratta), potrebbe essere utile individuare un probabile vizio d’origine.
    La formulazione di categorie, teorie etc. da parte di uno (nel caso specifico Andrea Inglese cita Marco Giovenale come uno dei più prolifici e brillanti, e concordo, ma la riflessione vale a prescindere, come direbbe Totò) non significa automaticamente adesione o condivisione da parte di altri che con quello condividono alcuni interessi o iniziative o progetti.
    Confesso da subito che parto banalmente dal caso personale (non trovo che i miei testi pubblicati sul già citato numero della rivista OEI – dedicato alla presunta “non assertività” di alcune scritture italiane – siano “non assertivi”, o – per citare un’altra categoria cui si è fatto riferimento – che le mie prose rientrino nella c.d. prosa in prosa, eppure condivido diversi percorsi con amici che non dubitano dell’appartenenza dei propri testi alle predette categorie), ma astraendo mi pare evidente che l’effettiva attendibilità di un qualsiasi assunto critico dovrebbe essere asseverata da un soggetto terzo, il cui operato non sia oggetto di valutazione alla luce di quell’assunto.
    In altre parole, trovo che le riflessioni che Marco (e/o altri, ovviamente) ha formulato negli anni siano utili e significative per interpretare la sua scrittura ed esprimano una sua più che legittima visione di esperienze più o meno prossime, ma che non possano e non debbano tout court essere assunte a criterio di perimetrazione di un’area (peraltro, se ho capito bene, è lo stesso Marco a voler scongiurare questo rischio accennando ad una certa “mobilità” delle sue riflessioni). In tal senso, mi pare che quello che effettivamente può essere considerato un terreno comune poiché caratterizzato da comuni esperienze, interessi e letture, sia talvolta forzatamente ridotto a territorio, con una conseguente regolamentazione difficilmente osservabile, laddove non siano apposti confini precisi e non vi sia condivisione di quei confini.
    Posto, quindi, che prima di tutto dovrebbe essere ben spiegato e dimostrato cosa significhino quelle categorie (dire cosa non sono non è – evidentemente – sufficiente a qualificarle, così come ridurle a semplici provocazioni non vale a giustificare l’insistenza con cui tali categorie vengono ribadite), la questione non sta nella categoria o in chi la formula, ma nell’estensione della categoria ad altri. Con eccessiva semplicità alcune scritture contemporanee vengono lette in modo uniforme ed omogeneo; allo stesso modo, come già rilevato in un precedente intervento, troppo facilmente si definisce una presunta area “di ricerca” in base al ricorso a certi meccanismi di scrittura ormai assurti a indicatori di quello che rischia di divenire canone (con l’ovvia deriva verso un certo manierismo), laddove ci si sforza di essere collocati altrove.
    Insomma, mi pare che in fondo (e all’origine) il/un problema sia di esserci assuefatti ad una lettura semplificata a fronte di una realtà molto più complessa di quanto non appaia al di fuori dal ristretto ambito di una qualsiasi (presunta) categoria che del tutto legittimamente e significativamente un autore formula e può formulare dal proprio osservatorio (e ciò fintanto che – comunque – tale categoria non sia approfonditamente definita e da altri ampiamente condivisa ed estesa). Qualora poi non si riesca a definire una qualsiasi categoria o tale categoria non possa comprendere altre esperienze, si dovrà procedere ad altre letture, che personalmente mi auguro siano condotte da coloro che sono da sempre deputati a farlo, non lasciando troppo campo libero a noi autori che quel campo lo occupiamo assai volentieri.

  8. Caro Marco,
    una prima cosa veloce: mi ricordi che alcune impalcature nei fatidici anni zero esistevano (citi NI e Akusma, progetti in cui io stesso ero redattore/curatore). Certo. Le abbiamo fatte noi – con un noi allargato e solo in parte generazionale. Le impalcature elettroniche, ad esempio, sono venute a supplire riviste che non c’erano o non funzionavano più, o che non ci rappresentavano abbastanza. Ho ben detto che di tutto cio’ bisognerà farne la storia. Né i mie cenni (che ho fin da subito considerato schematici e parziali) né i tuoi un po’ più estesi ricordano e dicono tutto e tutti quelli che andrebbero citati e ricordati. Ma credo che sulla mia osservazione generale – che si sia fatto molto a partire da quasi niente – difficilmente potremmo dissentire.

    Rispondo sugli altri punti in modo abbastanza succinto, perché non è in questi commenti che si scioglieranno alcuni nodi qui emersi, né è mia intenzione esasperare le divergenze. Mi sembra sanissimo che su certi punti si sia su posizioni diverse e mi limiterò qui a enunciarle, in modo che siano chiare a chi si affaccia su questa discussione. (E trovo che sia sempre più sorprendete e bello che ci siano cose che accomunino piuttosto che cose che allontanino.) La tua postura disseminante e di sorvolo sui testi, ma direi anche tutta spostata sulla contemporaneità, non corrisponde alla mia. E in questo penso di essere io un’anomalia. Quando mi metto nell’ottica del critico e in quella – per me conseguente – dell’analisi testuale, non posso non inquadrare il fatto letterario entro una concezione del linguaggio e una visione antropologica di esso e delle sue forme storiche. (Di critica vera e propria, anche sui tuoi testi e quelli dei gammiani, posso dire di averne prodotta un po’ in questi anni.) Tutti probabilmente abbiamo un’antropologia e anche una teoria letteraria implicita. Il mio tentativo è sempre di renderla esplicita, nel momento stesso in cui mi accingo a considerare un testo o un fatto letterario particolare. Mi sembra evidente che, rispetto alla mia visuale, tu sia nell’enfasi della discontinuità. Dal canto mio, mi è impossibile vedere i fenomeni letterari (o post-letterari) al di fuori di serie storiche ampie, dove gli elementi di discontinuità sono importanti quanto quelli di continuità. (Di qui l’enfasi mia sulle genealogie.) E immaginare che la non assertività – come ho cercato (sommariamente) di definirla, anche sulla scorta delle note di Mariangela Guatteri – sia una caratteristica esclusiva di alcune scritture poetiche o post-poetiche statunitensi e francesi degli anni Novanta (e italiane degli anni Zero) mi sembra semplicemente un’ingenuità. Gertrude Stein è assertiva? Paul Celan è assertivo? Ghérasim Luca è assertivo? Oskar Pastior è assertivo? Poi bisognerebbe cominciare con la lista di singole opere, e includere anche il romanzo: la trilogia (prima e seconda) di Beckett è assertiva? (Purtroppo non c’è traccia nella memoria condivisa di un saggio capitale come Beckett e l’indeterminazione letteraria di Aldo Tagliaferri, che darebbe qualche strumento un po’ solido anche agli amici svedesi, se si volessero mettere davvero a elaborare in modo critico-teorico il concetto di non assertività.) Lo straordinario Mahu ou le matériau di Robert Pinget (1952) è assertivo? L’osceno uccello della notte di Donoso (1970) è assertivo? I primi romanzi di Handke sono assertivi? Harry Mathews è assertivo? E Una donna di Péter Esterházy (1995)? Potrei imbastire una litania di domande retoriche, ma la questione è ancora diversa: la distinzione assertività /non assertività è interessante perché ci dice qualcosa che già sappiamo, e che oggi torna ad essere particolarmente significativa, declinandosi in maniere ovviamente anche inedite. A patto però di allargare davvero la visuale. E qui, mi dispiace, ma bisognerebbe essere anche capaci di includere in questo discorso non solo la prosa, ma anche il romanzo. Perché esiste una storia del romanzo novecentesco e oltre, che non si può far finta di ignorare e mettere tra parentesi se si battono i territori della ricerca. So bene che il romanzo è una voce assente dalle tue suggestioni critiche, ma per me l’ignoranza del romanzo (o il suo confinamento alla sua parodia commerciale tutta incentrata sul plot) non fa che ribadire un reciproco disinteresse tra romanzieri e poeti senz’altro molto in voga in Italia, ma assai poco virtuoso e fecondo.

    Sulla questione di ciò che tu chiami post-paradigma, ribadisco la mia considerazione di fondo. Non lo vedo, a differenza dell’opposizione assertività / non assertività qualcosa né di chiaro né di utile. E’ inutile secondo me, se lo vuoi applicare alla letteratura italiana e al contesto storico italiano, senza tenere presenta tutta la letteratura che sulla frattura tra modernità e post-modernità è stata prodotta, ma in una visuale più ampia che includa anche una riflessione sulle strutture del capitalismo e dell’industria culturale. Per altro, il tuo discorso non mi sembra chiaro nei suoi presupposti. Forse è un mio limite di lettura, ma varrebbe magari la pena di raccogliere i vari materiali provvisori e/o frammentari sulla questione, per dargli più perspicuità in un testo corposo e capace anche di sviluppare gli spunti testuali che hai già raccolto.

    Sulla questione poesia, post-poesia, ex-poesia, o cippirimerlo, ne discutevo anche con Alessandro Broggi. Io stesso ho fatto proposte per una nomenclatura aggiornata (ho parlato di “arti poetiche” – https://www.nazioneindiana.com/2010/03/31/poesia-in-prosa-e-arti-poetiche-una-ricognizione-in-terra-di-francia/ e di “letteratura generale” https://www.nazioneindiana.com/2013/09/16/verso-una-letteratura-generale-riflessioni-a-margine-del-progetto-ex-it/ ) Oggi sono forse un po’ più disincantato e realista. Anche qui vale il mio partito preso antropologico. I generi letterari, o le pratiche artistiche, non si cambiano per deliberazione individuale e buona volontà. (Per deliberazione si elaborano poetiche o stili.) Siamo ipocriti se non vediamo che nella fragilità del sistema culturale esistente, almeno in Italia, la gente, i luoghi, le modalità di produzione, gli spazi dentro cui interveniamo sono molto più prossimi e imparentati con quelli del mondo poetico e letterario in senso più tradizionale che con quello dell’arte contemporanea. (Ci sono poi persone che vengono dal mondo dell’arte contemporanea – come Mariangela Guatteri, ma questa è un’altra cosa.) Per cui ritengo alla fine velleitario il tentativo di persuadere e persuaderci che ormai abbiamo definito una zona completamente altra, al riparo dalle interferenze con i mille malintesi intorno alla nozione di poesia. Ciò che accade altrove – come tu stesso ricordi –, è che sotto il termine poesia o letteratura si fanno passare una quantità di operazioni diverse ed eterogenee. (Queste operazioni eterogenee i primi ad averle realizzate, martoriando il corpo dei generi tradizionali e della lirica moderna, sono stati proprio dei “poeti”, in particolare quelli delle avanguardie storiche.) Noi forse possiamo non far altro che ampliare i confini di ciò che s’intende con poesia e letteratura. (Ma su questo, è probabile che domani cambi di nuovo idea, ritornando sulle posizioni tue e di Broggi. Ma sono certo di essere infelice e insoddisfatto in entrambe le posture: sia come poeta allargato e allungato sia come post-poeta o cippirimerlo.)

  9. a Gianluca D.

    Mi chiedo quanta carica “anarcoide” fermenta sotto lo strato di “obiettività” che potrebbe emergere dalla non-assertività e quanta carica implosiva in un soggetto che sente di dover asserire la propria inconsistenza?

    Io credo che sia una domanda pertinente. Sia c’è uno degli elementi di cui tenere conto, se si vuole utilizzare la categoria di assertività. Non a caso ho parlato a proposito del lavoro di Mariangela Guatteri di un “lato assertivo della medaglia”, che per me non indebolisce per nulla la sua operazione testuale (e la sua peculiare forma di comunicazione), anzi ne è in qualche modo uno dei perni.

    A Daniele,
    se leggi la mia risposta a Marco, essa vale in parte anche come risposta a te. Penso che la nozione di opera aperta abbia anch’essa a che fare almeno con una genealogia della nozione di non assertività qui rivendicata. Ma quella stessa nozione era a sua volta una delle possibili lenti di comprensione di una serie di fenomeni artistici e letterari.

  10. a Giulio, che scrive

    “Posto, quindi, che prima di tutto dovrebbe essere ben spiegato e dimostrato cosa significhino quelle categorie (dire cosa non sono non è – evidentemente – sufficiente a qualificarle, così come ridurle a semplici provocazioni non vale a giustificare l’insistenza con cui tali categorie vengono ribadite), la questione non sta nella categoria o in chi la formula, ma nell’estensione della categoria ad altri. Con eccessiva semplicità alcune scritture contemporanee vengono lette in modo uniforme ed omogeneo; allo stesso modo, come già rilevato in un precedente intervento, troppo facilmente si definisce una presunta area “di ricerca” in base al ricorso a certi meccanismi di scrittura ormai assurti a indicatori di quello che rischia di divenire canone (con l’ovvia deriva verso un certo manierismo), laddove ci si sforza di essere collocati altrove.”

    Io credo che delle suggestioni critiche siano sempre utili, a patto di essere capaci di verificarle sui testi e di discuterle anche nei loro presupposti teorici, storici, ecc. Questo lavoro o lo fanno gli stessi autori che maneggiano le categorie o lo fanno i critici, che delle categorie di lettura sono in qualche modo i garanti (non le inventano, ma le chiariscono, formalizzano, ecc.). Le categorie, in quanto tali, tendono ad avvicinare e assemblare, e un certo rischio da questo punto di vista è inevitabile. Il problema, pero’, lo vedo anch’io – come Giulio – nella costituzione di un canone (alternativo) della poesia ricerca, che di fatto rischia di strozzare normativamente e prescrittivamente proprio il campo che vorrebbe delimitare. Anche perché il “vero canone” non si fa sulla contemporaneità, ma su una distanza di trent’anni almeno, altrimenti più che di canone bisognerebbe parlare di “poetiche”. E se la non assertività diventa una poetica, allora essa più che essermi utile m’intralcia, cioè mi vincola e riduce lo spettro dei miei possibili letterari, testuali o quel che volete voi.

  11. Dalle annotazioni di Giulio, che in buona parte condivido, estraggo in particolare la sollecitazione a “figure terze” (critici et alii) a discutere, sviluppare, variare, torcere & adattare (o rifiutare e sostituire) le riflessioni o suggestioni espresse – con ondivaga o magari non instabile fortuna – da me e da altri. (‘Non’ sono categorie, insisto).

    (Per altro, annoto qui: suggestioni formulate in contesti spesso informali, conversazioni private, non aliene però da una messa a fuoco critica puntuale su alcuni testi, mai o raramente tradotte in testo scritto ‘metodico’ duro, teorico=prescrittivo, e anzi straordinariamente refrattarie spesso a essere ridotte in tal senso. E mi riferisco a tutta l’area della scrittura di ricerca. Ricordiamolo, [ri]diciamolo: con espressioni come “testo non assertivo” o “testo assertivo”, o con ALTRI e non miei diversissimi nomi, decine di volte fra noi e in tanti ambiti ci siamo riferiti a gruppi di testi, analogie fra singoli autori, o diversità. Li abbiamo abbondantemente usati, questi nomi, queste approssimazioni, questi strumenti funzionanti a metà, o per tre quarti, o per niente, o per nove decimi. Senza scandalizzarci. E sono certo che li useremo ancora. E ci intenderemo; ma anche ci fraintenderemo. E ci intenderanno; ma anche ci fraintenderanno).

    (Permettetemi qui un sospetto. [Ma poi non ditemi che sto categoricamente asserendo e sistematizzando e prescrivendo di conseguenza, e ‘canonizzando’ gente magari, bum! Insisto: è un sospetto, appunto, non altro. Non lo passate di grado, ché poi si monta la testa]. Eccolo: personalmente e del tutto soggettivamente io SOSPETTO che se – in riferimento alle scritture di ricerca – le “categorie” da molto molto tempo scarseggiano, e invece abbondano avvicinamenti, tentativi, ipotesi e mezze definizioni non impressionistiche ma nemmeno precise, ciò accade perché queste mezze definizioni funzionano bene come una sorta di eco, sul piano ‘osservativo’ [non mi azzardo a dire ‘critico’], a quella stessa polverizzazione che precisamente un cambio di paradigma comporta, ha comportato).

    (Sarà quindi utile chiedere precisissime o precise “categorie” ai critici? Delimitazioni di confini? Messe a fuoco hd? Non saremo fuori tempo, fuori gioco? E… i critici, i critici… Beh: probabilmente proprio perché non sono distratti, ma al contrario sono sensatamente legati a un determinato rigore, non trovano davvero modo di sviluppare o rielaborare o creare ex novo delle “categorie”. Penso a studiosi che per altro da tempo e non certo distrattamente seguono le scritture di ricerca. Non sarà contraddittorio chieder loro quella precisione, proprio pensando alla forte attestata e insieme sempre variabile atipicità che le nuove scritture esibiscono? Non saranno, come di fatto sono, i critici, molto più propensi, e sensatamente propensi, alla singola recensione, al saggio breve, all’inquadramento storiografico, piuttosto che alla formulazione di schemi? E non sarà ciò forse, in parte o del tutto, un bene? E… se dovessimo chieder loro, di fatto, non una precisazione delle aree e dei confini ma un assottigliamento e un qualche ripensamento riformulazione ridisposizione dei loro strumenti, lessici, della loro stessa ‘grafia’?). (A un tratto mi balzano in mente le strutture grafiche di “Marges” o “Glas”, e i materiali pensati da Emilio Villa. Verbovisivi, ma anche “critici”. Ma prima ancora mi vengono in mente le “Note” di Duchamp).

    (E se, insomma, si trattasse più di far agire l’apertura di campo determinata da quel “non” davanti a “assertività”, piuttosto che le sue presunte operazioni di esclusione, delimitazione eccetera?). (Con ciò non togliendo, anzi risottolineando, che non sarebbe affatto male che a diramare in testi questa apertura fossero figure non coincidenti con “noi”, cioè con quel “noi” che si trova a dialogare qui e ora [ma in mille altri posti e tempi non diversamente])

  12. Caro Andrea,
    concordo sull’incipit del tuo commento: “credo che sulla mia osservazione generale – che si sia fatto molto a partire da quasi niente – difficilmente potremmo dissentire”. Totalmente vero. Era in questo senso che integravo quanto tu scrivevi e portavo l’esempio delle talpe che scavano sotto un decennio (o poco più). Ad una generazione è capitato questo. Alcuni poi ci hanno ascoltato e aiutato.

    Concordo pure sul darsi di una divergenza tra noi in tema di periodizzazione (o sentimento del tempo?). Esiste. Mi sembra di poter/dover (ma per crimine mio soggettivo, non per indagine oggettivante) registrare un sisma recente, e di paragonarlo anche, non del tutto impropriamente, a un precedente sisma che si era verificato al chiudersi del XVIII secolo. Sono in effetti, forse, tempi lunghi ma non lunghissimi, e devo e voglio ammetterlo.

    Cito poi una parte del tuo commento grazie alla quale mi sembra opportuno che io rifletta e raccolga le idee meglio che posso (o meno peggio..). Dici: “Dal canto mio, mi è impossibile vedere i fenomeni letterari (o post-letterari) al di fuori di serie storiche ampie, dove gli elementi di discontinuità sono importanti quanto quelli di continuità. (Di qui l’enfasi mia sulle genealogie.) E immaginare che la non assertività – come ho cercato (sommariamente) di definirla, anche sulla scorta delle note di Mariangela Guatteri – sia una caratteristica esclusiva di alcune scritture poetiche o post-poetiche statunitensi e francesi degli anni Novanta (e italiane degli anni Zero) mi sembra semplicemente un’ingenuità”.

    Torno a quanto tu stesso giustamente scrivevi sulla ampiezza (culturale, davvero antropologica) dei cambiamenti nell’ultimo mezzo secolo. Per questo, come del resto sollecitavi nel tuo pezzo, e come ho scritto e ripeto, non posso non riconoscere una diversità profonda ‘di percezione’ (e dunque di comportamenti, e di linguaggi o meglio codici) nel contesto ampio delle culture, dunque ‘non’ solo in ambito letterario. Tantomeno soltanto in “alcune scritture poetiche o post-poetiche statunitensi e francesi degli anni Novanta (e italiane degli anni Zero)”! Se fosse così sarebbe anche peggio di un’ingenuità.

    Agli esempi e nomi di autori che porti aggiungerei addirittura Duchamp (lo nominavo sopra. Alcune sue “Notes” non compaiono casualmente su gammm – collocate ormai alcune settimane fa: sembrerebbero descrivere materiali recentissimi, con esattezza straordinaria).

    Proprio gli esempi che citi sono significativi (posti in una linea cronologica che trovo netta) di quanto andiamo dicendo. Certo che (darà stupore?) Stein e Celan ‘sono’ assertivi, e nobilmente assertivi, aggiungo: ma proprio questa osservazione esclude (non per la prima volta) che i due ‘campi’ dell’assertività e della non-assertività siano legati a un discorso binario “dislike” versus “like”. Sono semmai momenti di indagine (e suggestioni? suggerimenti?) daccapo utili a descrizioni, o crisi di descrizioni. O crisi di modelli, ancora e sempre. Non è di questo che abbiamo bisogno? (E meglio: non è di questo che siamo ‘già’ parte?).

    Ma ha un anche minimo senso dire di Stein e Celan ‘qualcosa di così vicino a noi’? No. Cosa si sta sovrapponendo alla loro lettura, leggendoli noi così? Il nostro, diverso, tempo. E tempo breve. (N.b.: non li leggo così, di fatto: la lettura ‘forzata’ risponde semmai alla tua domanda).

    *

    Cito ulteriormente: “allargare davvero la visuale. E qui, mi dispiace, ma bisognerebbe essere anche capaci di includere in questo discorso non solo la prosa, ma anche il romanzo. Perché esiste una storia del romanzo novecentesco e oltre, che non si può far finta di ignorare e mettere tra parentesi se si battono i territori della ricerca. So bene che il romanzo è una voce assente dalle tue suggestioni critiche, ma per me l’ignoranza del romanzo (o il suo confinamento alla sua parodia commerciale tutta incentrata sul plot) non fa che ribadire un reciproco disinteresse tra romanzieri e poeti senz’altro molto in voga in Italia, ma assai poco virtuoso e fecondo”.

    Attendo dunque dai critici seri (non sono un critico in senso stretto, quindi l’aggettivo nemmeno serve, ce lo stiamo dicendo da un po’) quell’apertura che tu auspichi. Non va però a onore del dialogo darsi dei fingitori (perlomeno perché il post-poeta è perlomeno un post-fingitore: lasciami sorridere). Quindi non “faccio finta” di “ignorare e mettere tra parentesi” il romanzo. Più circostanziatamente, l’ho sempre detto: mi occupo principalmente e direi molto energicamente di prosa breve, e leggo romanzi, e mi piacciono alcuni e non altri romanzi. Non realizzo una storiografia (anzi sollecito altri a farla, da qualche manciata di anni), ancor meno mi sento di augurarmela.

    Non avendo proposto una categoria critica (nonostante sia questo il termine che ricorre nel thread), lascio più che volentieri il compito ad altri.

    Se il tuo riferimento poi è a “Dell’opera disfatta” (2005, e 2007 in http://gammm.org/index.php/2007/05/02/opera-disfatta/), citiamo please anche la parentesi che ‘spiega’ il titolo: “righe, ingenue e iniziali, contro serialità e romanzo-tipo”. Che mi sembra sciogliere buona parte del problema.

    *

    Sull’estraneità tra romanzieri e poeti. Bene, combattiamola, abbattiamola. Ma, permettimi, fammi prima vedere che, anche tra fior di romanzieri, una buona felicissima falce porta via una percentuale altissima di materiali (come del resto sarebbe bello accadesse in poesia). Non accade, mon cher. Non sarà che spesso i due versanti non si parlano perché i più esigenti dell’una e dell’altra schiera devono imbottirsi di plasil per poter passare indenni da una scansione dello scaffale non di pertinenza? Proprio no?

    Ma vado oltre. Non da oggi vedo una costante, continua (e sarò ipersensibile, che ci posso fare) tensione e tentazione a tirare ‘tutta’ la prosa e la prosa breve dentro la forma estesa (anche non romanzesca, anche romanzesca esplosa, digressiva, geniale o quel che vuoi: bella, insomma, non “romanzo-tipo”). Tutto deve o può finirci dentro: e se non vuole, dovrebbe volere. Discolo chi non cede. Chi non ci crede.

    Bon. Ovvio che il romanzo – nelle mani giuste – HA capacità onnivora e plasticità. Ha denti buoni e fame secolare. Ma troverei perlomeno razionale giudicare legittima anche l’esistenza di forme di vita caparbiamente refrattarie a lasciarsi mangiare.

    Proprio altre specie viventi.

    Possibile che debba essere tutt’ora tanto scandalosa la persistenza della prosa breve ‘come prosa breve’ e stop? [Eh, mi lascio prendere la mano: lo so bene che non stai dicendo questo, e che anzi sei un f-autore di prose brevi. Ma nei giorni scorsi il tema – non in rete – era riaffiorato]

    Ovviamente aggiungo: sarei anzi sono ‘felice’ che la persistenza e resistenza della prosa breve metta di malumore molti fuori di qui. (Ma sarà così?). Ben felice, sono, che la ricomprensione di frammenti in romanzo non stia proprio nemmeno nell’anticamera del cervello di dozzine o centinaia di autori, e che questo risulti – proprio a dir poco, assai poco – materia di riflessione.

    Ma torno al tuo commento, con un’altra citazione: “mi dispiace, ma bisognerebbe essere anche capaci di includere in questo discorso non solo la prosa, ma anche il romanzo”.

    Nella critica, nell’analisi ampia, a quinte ampie. Ci mancherebbe, certo. Nei quadri prospettici larghi. Giusto. Concordo. I critici lo faranno. O insomma qualcuno, non io. Mentre di questa mia e di tanti non volontà (o con parole tue “incapacità”: sis felix, non mi offende) sarebbe bello facessero, molti e con gioia, tesoro. Siano loro a integrare e variare o anche rovesciare quanto si va qui e altrove dicendo. Alcuni sono perfino pagati per questo.

    *

    Sul post-paradigma temo noi si sia fermi alle posizioni precedenti: del tuo pezzo e della mia annotazione di risposta. Ma avremo occasione di riparlarne, probabilmente.

    *

    Concludo.

    Anche io, “sulla questione poesia, post-poesia, ex-poesia, o cippirimerlo”, ammetto di essere “disincantato e realista. . . I generi letterari, o le pratiche artistiche, non si cambiano per deliberazione individuale e buona volontà”. Ma infatti. Altre agenzie se ne occupano.

    Ciò non toglie che se le o alcune agenzie (e gli utenti della copiosa messaggistica che tuttodì esse impacchettano) mi dicono poesiapoesiapoesia, e ‘dunque’ la trasferiscono nel meraviglioso nostro sempreuguale quotidiano, mi riesca difficile tagliare fette di salame sufficientemente spesse da non farmi vedere che davanti alla poesia X o Y mi viene da ridere. (“CI” viene da ridere).

    Di qui il flarf, praticamente ormai quindicenne. (Ma così, dico, eh, tanto per nominare una cosa).

    Non è che Gary Sullivan pensa di abbattere la poesia. È perché certe prassi consolidate erano ‘evidentemente’ scandalosamente a pezzi, che il flarf è stato possibile (è nato). È perché certe aree che si pensavano solide e storicamente durevoli sono invece concrezioni morte che le barriere e intere catene di strutture si smontano, si sbriciolano. È perché milioni di mosche mangiano merda che a qualcuna di loro viene da ridere (e cambiare dieta).

    L’ascia di selce, ci dicono i paleoantropologi, viene inventata e dimenticata dozzine di volte, lungo un arco di migliaia di anni, prima di diventare un’acquisizione ‘stabile’ (o abbastanza stabile da essere scientemente oltrepassata a sua volta da qualcosa di migliore). (Ergo: ci sono stati milioni di individui che per generazioni tornavano a lacerare le pelli degli animali usando le mani). (E: so di star facendo un esempio rischioso. Il linguaggio non è un ‘tool’, uno strumento). (Ma forse nemmeno quelli che chiamiamo strumenti sono tali. E il discorso sarebbe qui troppo lungo).

    *

    Glisso sul segmento “siamo ipocriti se” e vado direttamente a citare: “nella fragilità del sistema culturale esistente, almeno in Italia, la gente, i luoghi, le modalità di produzione, gli spazi dentro cui interveniamo sono molto più prossimi e imparentati con quelli del mondo poetico e letterario in senso più tradizionale che con quello dell’arte contemporanea”. Certo, è esattamente quello che chiamo (altra ipotesi mia) “flarf irriflesso”. Milioni di materiali, di testi, pubblicati ovunque, in rete soprattutto. Ma la domanda sarebbe: e allora?

    Allora, rispondi, “ritengo alla fine velleitario il tentativo di persuadere e persuaderci che ormai abbiamo definito una zona completamente altra, al riparo dalle interferenze con i mille malintesi intorno alla nozione di poesia”.

    Ma è proprio sull’interferenza che puntiamo… È proprio sull’uscita da una “zona completamente altra” che ci si batte e sbatte… Sta nel codice genetico stesso del termine “ricerca”. Nel non sapere ‘esattamente’ (categorialmente, categoricamente) cosa si sta ‘precisamente’ facendo e quale direzione si sta prendendo…

    E che si stia con tutti e due i piedi all’interno di “mille malintesi intorno alla nozione di poesia” lo dimostra precisamente una chiacchierata come la nostra. Che definisce delle differenze, e con ciò delle ricchezze (spero).

    Tanto è vero che – scrivi – sei “certo di essere infelice e insoddisfatto in entrambe le posture: sia come poeta allargato e allungato sia come post-poeta o cippirimerlo”, cosa che in me fa scattare qui subito un consenso

    e un abbraccio, très amicalément,
    Marco

  13. Premetto che non nutro particolare simpatia per le categorie in generale, anche quando categorie non sono, primariamente perché non dicono nulla sul/del testo in questione, tralasciando il fatto che a volte non hanno proprio alcun testo in questione.
    Leggendo questa discussione mi è venuto in mente un problema che forse si stanzia a monte di alcuni punti nodali e ho pensato di condividerlo a partire dall’eccellente analisi che ne fa Paolo Virno nel suo Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, Torino, 2013), che citerò estesamente con mie incursioni o sostituzioni, spero fertili al discorso.

    Partendo dal dato di fatto che il sintagma “non assertivo” è negativo, bisogna ricordare che la negazione non esprime il contrario bensì il diverso. Quando dico “il muro non è bianco” e “questo cibo non è dolce”, non sto sostenendo neanche implicitamente che il muro sia nero e il cibo amaro.
    Negare un predicato significa asserire che l’oggetto del discorso è diverso (héteron) rispetto alle proprietà assegnateli da quel predicato. Il “non” non arricchisce la descrizione del mondo o del testo, ma mette in rilievo la non identità tra fatti (testi) e enunciati-predicati (assertività).
    Il punto è che il connettivo sintattico ‘non’ anziché forgiare un nuovo significato, opposto a quello racchiuso nell’affermazione, rimanda a una diversità indefinita, soltanto potenziale e non specificabile positivamente, a un altro-da-x che risulta intellegibile solo tenendo presente i tratti salienti di x (assertività). L’heteron non fa che indicare la differenza tra l’entità lessicale da cui si è partiti (l’assertività, dunque) e la totalità delle entità lessicali concepibili. Indica la differenza come tale, non qualcosa di differente; la pura relazione di alterità, non il termine concreto in cui essa si materializza di volta in volta. L’héteron è sempre indeterminato: l’enunciato “il testo non è assertivo” segnala la vuota non-identità tra la sua natura e quell’assertività che, si badi, resta l’unico contenuto semantico realmente in questione. Quindi è un’opposizione apparente quella delle categorie assertività/non assertività. Il predicato negativo “non è assertivo” si riferisce infatti a tutto ciò che “assertivo” fin dal principio non è, dunque al diverso-da-assertivo (in cui confluiscono n categorie: proprio perché manca una definizione autonoma la classe complementare “non assertivo” gode di una estensione indiscriminata). La categoria del diverso, comprendendo in sé tutte le proprietà che potrebbero subentrare al posto della proprietà negata, evoca insistentemente proprio quella introduzione di un ulteriore significato che, per altro verso, blocca.
    Dicendo “questo testo non è assertivo”, rinuncio a precisare quale predicato diverso da “assertivo” convenga al testo, ma vi rinuncio perché l’héteron cui rimanda la mia negazione è talmente vasto da abbracciare l’intera collezione dei predicati possibili. Soprattutto nei casi di predicati privi di un antipode, come per l’assertività.

    Mi sembra quindi che si stia discutendo anche perché il significato di un enunciato negativo dipende per intero dalle rappresentazioni psicologiche dei singoli individui. Ma per parlare di “non assertività” non basta mettersi d’accordo sul significato che ognuno di noi attribuisce al sintagma “assertività”, dato che “non assertivo” non è il suo contrario.
    E se “non assertivo” diventa un predicato assertivo, ossia una nuova affermazione, non si limita più a disattivare il predicato di cui sta parlando, ma propone un predicato ulteriore inesistente che prende il posto del primo e così facendo ratifica l’impossibilità della negazione. Senza contare che l’idea di una negazione che si risolva in una nuova affermazione esiste solo all’interno di un linguaggio inteso in senso infantile o parmenideo.

    Il difetto di questo sintagma è in parte il suo pregio: è non ciò che dice, ma ciò che mostra: il vuoto, il nulla, l’inesistenza di una parola che possa definire/descrivere positivamente fatti/testi.
    Da questo si potrebbe concludere che in realtà Marco non sta dicendo nulla, ma, sempre utilizzando l’analisi di Virno, quando si nega qualcosa non si sta descrivendo il mondo, si sta compiendo un’azione. Quale?
    Questo uso particolare della facoltà di dire come non stanno le cose applicato alla letteratura, rivela anche l’esigenza, la volontà, il desiderio, la pulsione, che si dica, che qualcuno dica, come stanno le cose e, forse, inconsapevolmente e polemicamente, anche la formulazione (ossia l’esibizione) di qualcosa (l’assertività) che tuttavia è, si vorrebbe, soppresso. Perché?
    Concludo una riflessione, che si spera non pedante, ribadendo la parte finale del mio commento al posto di Giulio (https://www.nazioneindiana.com/2013/10/15/ricerca-nella-scrittura/):
    La domanda importante dovrebbe essere, è, non se questo testo è di ricerca oppure neolirico, assertivo o non; bensì: questo testo è interessante? Se sì, perché? Si prega di argomentare.

  14. Mortacci, era da un po’ che non vedevo thread con commenti versione micro-saggio su NI… Mi fa piacere. E anche mi sembra normale. Nonostante tutte le divergenze possibili è salutare ogni tanto tentare di mettere ordine nelle cose che si dicono e fanno. Anche se sul momento puo’ sembrare un’impresa di Sisifo. OK, poi con un po’ più di calma provo ad aggiungere qualche osservazione anch’io.

  15. Provo a tirare una personale morale della favola. Sapendo che questa è solo una tappa di una discussione che io mi auguro sia allargata. Vi parteciperanno anche Zaffarano e Testa nei prossimi giorni, e spero altre persone ancora.

    A Marco (e in generale) ribadisco che mi sembra utile per chi scrivere formulare ipotesi, suggestioni, per cercare di elucidare cosa si fa o dove si crede di andare. Mi sembra inevitabile e necessario. Non pretendo nemmeno che chi ha un talento in questo senso, si debba allora costringere in vesti più accademiche. Tutte pero’ le attenuazioni retorico-decostruzioniste che porrà intorno alla proprie proposte non le renderanno meno propense a funzionare come categorie e a rischiare di divenire etichette normative. Il rischio ci sarà sempre. A me sembra inevitabile correrlo, ma con una bella dose di scetticismo, di volontà di verifica, di ridefinizione critica da parte di tutti.
    Credo pure io che molto lavoro possa (o potrebbe) essere fatto dai critici, per aiutarci a realizzare uno degli obiettivi che davvero ci sta più a cuore – quello segnalato da Simona Menicocci – ossia capire perché un testo ci pare interessante, rilevante, ecc. D’altra parte Simona non credo che neppure la più aderente e umile analisi testuale possa esimersi dall’introdurre prima o poi forme di generalizzazione.

    Con Marco, di cui amo molto le prose brevi, concordo appieno per una sopravvivenza e rilevanza della prosa non narrativa, non romanzesca. Ma in questo sono davvero politeista: credo ci siano straordinari esperimenti, invenzioni, in ambito romanzesco, di racconto breve, di prosa fuori dalla grazia di dio, di pseudo-poesia. E per me risuonano tutti gli uni con gli altri.

    E’ vero ci manca la critica, non perché non ce ne sia, ma perché probabilmente ce n’è inevitabilmente poca, rispetto a una produzione che è assai ricca e sfaccettata. Ma intanto potremmo noi autori fare esercizi di lettura reciproca, ma senza troppe cerimonie e nemmeno, evidentemente, malevolenze. Penso a un’iniziativa sana e bella come “Prove d’ascolto” proposta da Fabio Teti e Simona Menicocci. (Una esperienza semplice e che tutti potrebbero realizzare.) La mia impressione, in ogni caso, è di trovarmi confrontato da un po’ di tempo a questa parte a una quantità di testi che mi suscitano interesse e ammirazione. Alla faccia di tutti gli scavafosse di ogni età e genere.

    Un problema mi pare ancora non ben solubile. E penso anche alle osservazioni espresse da Giulio Marzaioli. E’ un problema molto pragmatico, e non di principio. Io scrivo sempre per qualcuno. Non so bene chi sia, e mi va bene un grado d’indeterminatezza (utopica) rispetto al destinatario (lettore/ascoltatore). Ma ci sono una quantità di contesti dove qualche precisione mi è richiesta o devo darla. Che cosa scrivo? Dove voglio situare quello che scrivo? In quali contesti socialmente esistenti e determinati sono disposto a calarmi, per realizzare il mio gesto comunicativo? Qui non vale essere né velleitari né troppo sottili. La società esiste al di là e oltre la nostra coscienza. Immaginare un mondo senza nessun genere, senza nessuna categoria mi è impossibile. Personalmente faccio fatico ad abbandonare, come ho detto, il termine poesia, pur con tutti i rischi di malinteso possibile. Ma faccio anche fatica a rinunciare a delle famiglie di scritture e a qualcosa come le scritture di ricerca. Mi piacerebbe, ad esempio, che si parlasse, come hanno fatto Alferi e Cadiot, di letteratura generale, ma se è una nozione che uso solo io non serve a nulla.

  16. Mi aggiungo con ritardo alla discussione sperando di porre domande che la continuino. Ci sono 3 punti che vorrei sottoporre all’attenzione generale (ma soprattutto di Giovenale, sia per prolungare il nostro dialogo dal post sulla scrittura non-assertiva precedente, sia perché la mia “teoria letteraria” è statisticamente più affine alle argomentazioni di Inglese):

    1) la scrittura assertiva (uso i termini al modo di Deleuze/Guattari: per evidenziare meglio le distinzioni ma tenendo sempre presente infiniti gradi di sfumature e mescolamenti), o poetica, è più facilmente accostabile a parole quali “libro” e “opera”: parole che lasciano presagire un tempo più o meno lungo di maturazione, di elaborazione, di sedimentazione delle impressioni – un lavoro insomma, anche sulla percezione; addirittura è possibile una crisi rilkiana di quasi-silenzio; eccetera eccetera.
    La scrittura non assertiva sembra invece puntare sulla disseminazione, il contagio, la frammentazione, lo spargimento, il disperdersi dei testi o dei segni (eccetera eccetera) in una prolificità delle prove che è (per ovvi motivi) inesauribile, frenetica, cieca, giocosa, istantanea, industriosa (dal mio punto di vista in corso di aggiornamento). Mi domando se possa esistere a livello della scrittura-non assertiva una critica (col rischio di essere sempre parziale) e soprattutto un’autocritica (sembra che vada bene sempre tutto, perché, semplifico molto, il mondo ormai va così e tutti ormai parlano/pensano/scrivono così nel quotidiano – ma allora perché in Italia io non sono mai stato pubblicato?) :)

    2) Noto da piccoli ma frequenti segnali che si tende ad avvicinare il testo-non assertivo all’oggetto artistico, si tende a colmare questa distanza tra “letteratura” e “arte”. Mi domando se dietro ci sia un tentativo di potenziare quella democraticità delle arti di cui si diceva all’inizio del post (inutile perché cosa è più democratico e innato/comune/banale del lasciare tracce?) o ci sia piuttosto una (ulteriore) necessità di legittimazione e (in qualche modo) di allontanamento/ritiro in gruppi di piccole elite (è uno dei rischi che avevo fatto presenti a Giovenale la volta scorsa).

    3) Riconoscendo l’importanza (addirittura noetica) del cambio di paradigma che Giovenale riscontra da 50 anni in qua (oppure degli strascichi post-Opera aperta dagli anni ’60 in poi – questo per prendere come appurato che una sorta di cambiamento c’è stata), come impedire che una tale lenta rivoluzione venga sminuita dalla mole e dall’ansia di iperproduzione isterica di tutti quei manierismi a cui si accennava più sopra?

    (mi scuso per la quantità di parentesi impiegata)

  17. I critici, a forza di evocarli, arrivano.
    E mi pare che in questa lunga discussione siano stati più volte chiamati in causa. Io credo che in questi anni (diciamo all’incirca quindici) siano stati inclini all’ascolto e che, a sua volta, la scrittura di ricerca sia stata assai pronta a recepirne proposte e suggestioni. In sostanza, si è riattivato un dialogo che si era spezzato in precedenza.
    E quel dialogo, da parte della critica, ha preso spesso la forma della recensione o del breve intervento (in rete e non), in ragione di una polverizzazione (è Marco Giovenale a parlarne in questo thread, se non ricordo male) a tratti avvilente. Tuttavia, forse adesso i tempi sono maturi per una riflessione in senso diacronico, tale da fornirci la possibilità di tracciare delle linee all’interno dell’area della ricerca. Dice giustamente Simona Menicocci che la cosa che maggiormente dovrebbe preoccuparci è se un testo sia o no interessante. Ecco, io aggiungerei storicamente interessante; insomma, forzando un po’ il “mio” Benjamin, penso che sia ora di passare dalla descrizione confusa alla descrizione della confusione.

  18. Manca voce femminile nella discussione.
    Mi sembra.
    La poesia si vive, si condivide nella solitudine, nel tempo silenzioso.
    Per ascoltare il mondo e ritrovare la lingua della notte, dell’origine.
    La poesia è vita del corpo.
    Assertiva o non. Presenza di una vita singolare. Nel cuore della lingua.
    Si scrive dalla sua lingua, dal suo vincolo con la lingua primo mare per entrare nel mondo, vivere.
    L’infelicità del poeta viene dell’incertitudine di essere ascolto.
    E forse la critica dà continuità alla poesia effimera.

  19. D’accordissimo, ovviamente, con il Benjamin ‘forzato’ di Massimiliano. E aggiungo:
    a tutte le categorie binarie e oppositive (avanguardia/tradizione, lirico/antilirico, modernista/postmodernista, ecc. ) è sempre sotteso un giudizio di valore: esplicito, implicito, a volte anche rimosso. Io credo maggiormente in un giudizio valore delle scritture – da cui non riesco ad emanciparmi – che sia categorialmente trasversale. Testi interessanti possono essere avanguardisti come lirici, modernisti come postmoderni, ecc. Ciò vuol dire che il loro “punto d’onore” non coincide tout court con le caratteristiche principali che sostanziano tali categorie.
    Inoltre, si tratta di coppie che presuppongono una certa sicurezza e condivisibilità quanto al contenuto del primo termine, quando in realtà non è così. Le api migratori di Andrea Raos cos’è? In quale categoria lo mettiamo? Non sono forse domande non più all’altezza dell’esperienza di un testo, oggi? Ci sono ormai da tempo, come ci sono sempre stati sia chiaro, testi, scritture, libri che hanno sorpassato o ibridato in forma indefinita, magari anche involontariamente, queste categorie, e fanno problema anche per questo. Su ciò convengo con Marco, c’è stato un cambiamento, ma è un cambiamento, un mutare, che, vista la natura storica dell’uomo e delle sue pratiche, in fin dei conti è il motore stesso della letteratura (e non solo) sin dalle sue origini.
    Ad ogni modo, intendo il cambiamento in discorso come un essere altrove del testo rispetto a un campo letterario in cui le categorie sopraccitate avevano ancora gioco e una sicura presa interpretativa. Quest’indeterminazione senza principio apparente, che molte, non tutte le scritture hanno,è comunque il loro pregio più grande, perché allora pare poi rivelarsi un loro difetto? La difficoltà di collocazione è altra questione, trattandosi di un problema storiografico, e non è detto che all’autore interessi o debba interessare, pena il porre un’ipoteca sul futuro della ricezione del testo, che è stata e sarà sempre indipendente dalle intenzioni autoriali. La descrizione della confusione è una cosa, la storicizzazione della (descrizione della) confusione altra.
    Ma è anche vero, come dice Andrea, che:
    ci sono una quantità di contesti dove qualche precisione mi è richiesta o devo darla. Che cosa scrivo? Dove voglio situare quello che scrivo? In quali contesti socialmente esistenti e determinati sono disposto a calarmi, per realizzare il mio gesto comunicativo?
    Proprio per il laboratorio ‘Prove d’ascolto’ che io e Fabio Teti abbiamo organizzato nella sede del WSP photoghaphy di Roma, davanti al problema di dare un titolo alla lettura serale aperta al pubblico, abbiamo scelto, dovuto scegliere e proprio per i motivi di cui sopra, una definizione che potesse attagliarsi all’eterogeneità delle scritture che di volta in volta andavamo ospitando. Abbiamo alla fine optato per ‘scritture divergenti’ : sintagma che, oltre alla propria letteralità (muovere in direzioni diverse, essere in contrasto, essere nettamente diverso), si fa forte del rimando alla fertilità del pensiero divergente.
    Qui mi ricollego al mio precedente commento, che non aveva carattere unicamente destruens, imperniandosi sul concetto di héteron, di quel“diverso-da”, che credo sia il punto di incontro di alcuni interventi, ma che pone anch’esso il problema di determinare il termine di opposizione: divergente da cosa? Anche riuscire a descriverlo, non ci direbbe molto su questo panorama che si cerca di delimitare, ma che ogni volta che lo si pensa tutto assieme straborda da ogni parte/confine/categoria.
    Quindi se è fertile mettere l’accento sull’eterogeneità, sulla polifonia, talmente variegate e polimorfe, che tutte le scritture contemporanee più interessanti evidenziano nel loro puro esserci, il tentativo di trovare, escogitare, coniare un aggettivo calzante per tutte sarebbe un’impresa eufemisticamente di Sisifo, se non fosse forse un falso problema. La via d’uscita potrebbe essere proprio quella della macrocategoria ‘letteratura generale’ proposta da Andrea Inglese sulla scorta di Alferi e Cadiot o quella delle microtassonomie che forse sono implicitamente consigliate nel discorso di Manganelli, o, volendo, entrambe, le une dentro l’altra.

  20. *il Socci ipoassertivo ha silenziosamente colpito ancora!

    a Veronique: Simona è voce femminile (tosta tosta)

    a Massimiliano: per me l’incrocio dei sentieri tra una certa famiglia di autori e una certa famiglia di critici si è realizzato con “Parola Plurale”, incontro non scontato e incontro fecondo. E sarebbero da citare altri critici non presenti in quell’opera con cui negli anni è stato per noi autori importante dialogare (penso a Paolo Giovannetti e ad Antonio Loreto, ad esempio, ma anche ad autori come Guido Mazzoni e Italo Testa, che sono anche critici. E da questo punto di vista – l’ho già detto in varie occasioni – siamo in una condizione migliore rispetto alla poesia francese di ricerca, che ha un forte sostegno istituzionale, editoriale, e di festival, ma è non stata accompagnata da una generazione di critici altrettanto attivi e attenti. Rimane comunque una produzione ricca e importante di cui vale la pena di fare anche solo un po’ di semplice storia, e di cui varrebbe la pena di mostrare la rilevanza, andando a leggere i testi in stretta tensione con la lettura (che intensificano o modificano) del mondo.

    a Simona, che scrive:
    “Io credo maggiormente in un giudizio valore delle scritture – da cui non riesco ad emanciparmi – che sia categorialmente trasversale. Testi interessanti possono essere avanguardisti come lirici, modernisti come postmoderni, ecc. Ciò vuol dire che il loro “punto d’onore” non coincide tout court con le caratteristiche principali che sostanziano tali categorie.”
    Questa posizione espressa da Simona, coincide perfettamente con la mia. Negli anni mi sono convinto che non ce n’è una migliore. Detto questo sarebbe importante spiegare come mai, nel contesto italiano, una tale postura sia difficile da tenere. Sarebbe lungo parlarne qui. Dico solo una cosa: dal punto di vista di una certa idea di poesia largamente condivisa in Italia ancora oggi, chi scrive certi testi come Simona Menicocci, Mariangela Guatteri, Broggi, Bortolotti, io, Giovenale, ecc. – la lista è lunga – non è spesso legittimato neppure a essere preso in considerazione. Non lo si considera cioè eventualmente un autore poco interessante, ecc., si considera che cio’ che fa “non è poesia”.
    Per questo stesso motivo io ho privilegiato in anni recenti – andando contro le idee dei miei stessi compagni di strada sul loro “non essere poeti” – ho privilegiato dicevo degli interventi critici (nel senso proprio del termine) su testi che, nella percezione diffusa all’interno del campo letterario, non venivano riconosciuti come pertinenti. Questo non con un intento puramente assimilazionista, ma al contrario per tenere aperta e plurale la nozione di poesia.

    Aggiungo che forse oggi c’è una giovane generazione di critici che tenta di tenere aperto questo dialogo e queste possibilità di letture trasversali, pur confrontandosi con l’endemico pregiudizio italiano contro tutto cio’ che sa di sperimentale, avanguardista, strano, in poesia. Cito nomi che sono legati ai miei incontri e dialoghi, ma spero che la lista sia più lunga: Maria Borio, Raoul Bruni, gli animatori di “In realtà, la poesia” (Bosco, Mari, Castiglione, Ortore)…

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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