La cameriera di Artaud
[Pubblichiamo un estratto di un romanzo apparso quest’anno per la casa editrice Valigie Rosse]
di Verónica Nieto
Traduzione di Alessio Casalini
Salii le scale verso l’ufficio di Ferdière con lo stomaco sottosopra; stavolta non si trattava della consegna di una delle solite lettere di mia madre da Londra, sembrava piuttosto l’avviso di un trasferimento imminente a Cayssiol con le orribili donnone e le loro parrucche, un rimprovero per non aver restituito alla biblioteca alcuni volumi che tenevo sotto il materasso (Madame Bovary, un libro di racconti di Gérard de Nerval, un romanzo di Victor Hugo e alcune riviste di moda) che mi proposi di restituire subito alla fine del colloquio, o la comunicazione di qualche tipo di trattamento per le mie insistenti nevralgie e la mia mancanza di interesse nei confronti delle terapie artistiche delle quali il signor direttore era un pioniere in Francia.
Salii ogni singolo scalino disposta a chiedere pietà e a fare tutto quello che mi avrebbe chiesto, purché non mi trasferisse insieme a quelle lunatiche, avrei frequentato le lezioni di pittura, mi sarei offerta di andare a raccogliere le patate o a tagliare la legna, se necessario. E quando arrivai davanti alla porta e bussai dolcemente con due nocche, quando udii l’«avanti» della voce cristallina del signor direttore, sentii che sulla mia guancia sinistra spuntava un pelo duro e nero, che potevo scorgere abbassando lo sguardo. Tuttavia, quando oltrepassai la soglia e risposi al saluto di Ferdière, feci finta di non averlo notato. Dopo essermi seduta sulla poltrona che mi aveva indicato accanto alla sua scrivania, pensai che quei suoi vivaci occhi neri dietro gli occhiali di tartaruga, troppo impegnati a controllare uno dei quaderni con la copertina in pelle (dove sapevamo che annotava scrupolosamente lo storico di ogni paziente), non si fossero accorti di ciò che stava accadendo sul mio viso; forse era abituato a vedere fenomeni strani o magari non mi stava prestando troppa attenzione. I suoi capelli lunghi e un po’ brizzolati scendevano dietro le orecchie, lasciando la fronte scoperta; dalla parete alle sue spalle, il ritratto del Maresciallo Pétain mi osservava sorpreso e sembrava ridere di me sotto i baffi.
Ferdière cominciò a parlare in maniera pacata, si era appoggiato alla poltrona e aveva assunto una posizione rilassata, per dimostrarmi che non mi aveva chiamato per un rimprovero. Non dovevo preoccuparmi, anche se avevo l’impressione che, di tanto in tanto, il suo sguardo si posasse esattamente sul quel poro della mia pelle. Mentre il signor direttore continuava con le sue spiegazioni, simulai un terribile prurito alla guancia e diressi lì le mie dita per grattarmi. Ah, respirai. L’orribile pelo era scomparso. Fu allora che finalmente mi potei distendere e sorridere e, allo stesso tempo, ricordarmi quanto era stato gentile quel signore con noi. Ci aveva salvato dalla fame e dall’itterizia quando era arrivato da Chezal-Benoît per darci uno spaccio e una biblioteca, per procurarci dei vestiti nuovi e una fattoria come Dio comanda.
Una mattina d’inverno, mentre passeggiavo nel giardino dell’istituto, notai che agli internati più poveri traballavano le gambe come fossero puledrini appena nati. Un signore minuto faceva tre passettini e si stancava subito. Lo avrebbe steso una mosca. Quelli che prima erano grassi o gonfi per l’alcol, ora non si potevano di certo lamentare. Eravamo tutti magri! Anche se qualcuno mangiava talmente poco che le gambe gli si riempivano di edemi ed era costretto a rimanere sdraiato a letto, perché aveva appena la forza di respirare. Alcuni si mangiavano le foglie degli alberi e certi fiori selvatici che, a quel che dicevano, sapevano di zucca; altri si succhiavano la camicia per tenere occupata la bocca e inghiottire saliva. Quella visione improvvisa mi riportò alla mente certi discorsi sullo «sterminio dolce» di cui si parlava sulle colonne di alcuni giornali prima dell’Occupazione. Volli controllare e mi diressi subito verso la cucina per fare una ricerca nell’enorme pila di giornali che usavano per accendere il fuoco; ma non appena mi chinai per guardare le date di quelli che erano più sotto, la voce di Odette mi interruppe.
– Cosa stai facendo? – chiese, con le mani sui fianchi.
– Cerco una notizia, Odette. Non mi daresti un pezzo di pane? – le chiesi, mostrandole delle monete.
– E da quando ti interessano le notizie? – disse, mentre si girava e, rovistando negli armadi, mi preparava un pezzo di pane con il roquefort spalmato.
– Sono preoccupata.
– Ah, sì?
– Ti rendi conto di cosa sta succedendo?
– A cosa ti riferisci?
– Al maresciallo, che dà le patate ai tedeschi.
– Zitta, bambina. Abbassa la voce.
In quel momento entrò il capocuoco. Ancora non si era tolto la divisa da lavoro e potei notare i rotoli di grasso della pancia che strabuzzavano tra i bottoni della sua camicia. Salutò con un vocione da baritono e, dopo aver fatto finta di spostare alcuni sacchi di patate, se ne mise in spalla uno piuttosto grande di lenticchie verdi di Puy. Più tardi venimmo a sapere che le vendeva nella piazza di Bourg.
– Mi stai dicendo che vuoi lavorare con noi in cucina? – mi chiese, cercando di sviare l’attenzione dalla conversazione precedente.
Si vedeva che era nervosa e la assecondai.
– Proprio così.
– Lei cosa ne pensa? – chiese Odette al capocuoco, che aveva già un piede sulla soglia.
– Falle fare una prova – rispose senza pensare, come se avesse dovuto andarsene senza perdere altro tempo.
Non mi sarebbe mai venuta in mente un’idea simile. Odette lo salutò con cortesia e, appena rimanemmo da sole, mi spiegò con calma il funzionamento della cucina, gli orari e le mansioni che avrei svolto. Disse che in quei momenti avevano bisogno di tutto l’aiuto che gli veniva offerto, soprattutto considerando che l’esercito richiamava nelle proprie fila molti infermieri e l’ospedale stava rimanendo senza personale. Inoltre, lì avrei potuto mangiare meglio e, per un’adolescente ancora nell’età dello sviluppo, una buona alimentazione era di estrema importanza.
– Una cosa però – mi disse molto seria, con le braccia incrociate e dando dei colpetti frenetici per terra con il piede –, non tollererò commenti sulla situazione politica.
Mi convinse. Quella proposta era perfetta per giu¬stificare la mia rinuncia al trasferimento a Cayssiol con quelle donne così sceme. Lo dissi alla signora Lamartine e anche lei fu d’accordo.
Passarono due o tre mesi, Ferdière arrivò a Rodez e, per prima cosa, fece un giro nei reparti del braccio dove stava sua moglie. Era evidente che sarebbe rimasto allibito nell’appurare lo stato penoso dell’ospedale, che cadeva a pezzi, la mancanza di medicinali e la scarsità del cibo. Il mese prima del suo arrivo, erano morte sessanta persone, e non a causa di una malattia contagiosa, ma per il semplice fatto che, secondo il libretto del razionamento, ogni giorno ci spettava la metà delle calorie di cui un corpo ha bisogno per reggersi in piedi.
In breve tempo si liberò di alcuni infermieri corrotti, del capocuoco e dell’amministratore, che manteneva i privilegi di quelli che tra di noi pagavano la retta, concedendoci più carbone e alcuni extra di cioccolato, formaggio o biscotti. Ma a Ferdière non sembrava corretto che pochi di noi godessero di privilegi che altri, in quel tempo di guerra, non avevano, e allora ci esortò a lavorare, non solo perché così potessimo sentirci utili, ma anche per farci abituare alla filosofia dello sforzo-ricompensa. Io, per esempio, appartengo alla categoria dei lavoratori eccellenti, che possono accedere a una certa quantità di denaro o di alimenti extra in cambio delle ore che dedicano a portare avanti l’ospedale, mungendo le mucche, tagliando la legna, risolvendo inconvenienti, distribuendo il carbone, riparando le scarpe, cucinando o pulendo le latrine. Oh, mi sentivo orgogliosa di tutto questo, e continuai a distendermi, mentre osservavo l’esorbitante quantità di oggetti che Ferdière collezionava, l’infinita varietà di utensili da cucina, attrezzi da carpentiere, bastoni di legno fatti a mano, bambole, vasi, sculture di ferro, ceramica, legno e cartone, tutti esposti uno accanto all’altro, contravvenendo a qualsiasi tipo di classificazione, sui lunghi ripiani che occupavano la parete sinistra; mi sentii protetta di fronte a quel museo del caos o dell’assurdo, e sospirai profondamente sollevata nel constatare che non era mio e che non dovevo metterlo in ordine. Fu in quel momento che il signor direttore posò gli occhi su di me e, consegnandomi una lettera, mi propose un compito che cambiò completamente il senso della mia vita.
Lo ascoltai in silenzio mentre mi dava istruzioni su come avremmo organizzato la giornata seguente. Subito dopo gli chiesi se aveva qualche libro di Artaud e mi promise che lo avrebbe fatto portare nella mia stanza non appena lo avesse individuato nella sua biblioteca personale. Prima di andarmene, il signor direttore mi confessò che tutto quello faceva parte di una terapia personalizzata e che sperava che quell’interesse che, in base a quanto gli aveva riferito Odette, avevo mostrato per il lavoro artistico di quel signore, si sarebbe trasformato in entusiasmo, riuscendo a scuotermi dal tedio in cui ero sprofondata. E mi disse che mia madre era molto preoccupata per il fatto di non poter più venire a farmi visita come prima, a causa del suo obbligato trasferimento all’estero, per cui avrei fatto bene a sforzarmi per rispondere a quella lettera.
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Valigie Rosse, collana Gli Asteroidi 2015
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