Qualche asserzione sparsa (e magari trascorsa)

Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Vedi l’incontro sulla poesia “non assertiva“ il 25 ottobre a Milano, nell’ambito di bookcity (con Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Lucio Lapietra, Renata Morresi, Italo Testa e Michele Zaffarano). Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui.

 

di Marco Giovenale

 

I.

Parto assai volentieri dall’intervento di Mariangela Guatteri, che esorto a rileggere: https://www.nazioneindiana.com/2015/10/08/scrittura-non-assertiva/. Qui di séguito tento di esprimere alcune precisazioni e – perfino – azzardo una diversa versione del (e una non spiccata diversione dal) testo.

 

II.

Facendo riferimento molto generosamente anche ad alcune mie pagine critiche di anni fa, la redazione di «OEI» ha raccolto, sotto il titolo complessivo di Scrittura non assertiva! (esclamativo incluso!), un numero della rivista dedicato non solo alla scrittura di ricerca italiana, ma anche a quei materiali ‘fuorilegge’ e culturalmente innovativi (il lavoro di Jesi, i progetti di Baruchello) che spostano l’asse della pagina da una formalizzazione riconoscibile e attestata, e lo collocano in territori ancora incerti, esplorabili.

 

Sul fronte della scrittura, si potrebbe dire che questo numero di «OEI» propone un tipo di lavori definibili anche – volendo – di ricerca. Sull’espressione “scritture di ricerca” sono sorti molti dubbi in passato (ricordo interventi di Biagio Cepollaro e Giulio Marzaioli, negli anni). Sull’uso di “assertivo” o “non-assertivo” possono nascerne ora.

 

Una pre-premessa potrebbe esser fatta, del tutto personale, ossia da semplice ospite del numero della rivista «OEI», ossia non potendo che parlare a nome mio.

 

Ecco: queste espressioni (che non casualmente definisco pressoché sempre “espressioni”) non si configurano come categorie.

 

Quali espressioni?

 

Se vado con la memoria a prima del 2005, precisamente al 2003 o anche precedentemente, rammento la mia ipotesi di una scrittura definita come coerente con una idea di “informale freddo” (a differenza della corrente tellurica/vulcanica dell’informale in arte, oltre mezzo secolo prima): cfr. Note di ricerca e ascolto di autori: un informale freddo – e una rete tesa ai punti, in «L’Ulisse», n. 1, giugno 2004, http://www.lietocolle.com/cms/img_old/ulisse_1.pdf). Se andiamo al 2006, troviamo l’ipotesi – di Bortolotti e mia – di un differenziarsi (e forse vicendevole precisarsi) di “installazione” e “performance”: http://gammm.org/index.php/2006/07/16/tre-paragrafi-gbortolotti-mgiovenale/. Nel 2009 esce il volume collettivo Prosa in prosa (http://www.lelettere.it/site/e_Product.asp?IdCategoria=&TS02_ID=1502), il cui titolo è formula che si deve a Jean-Marie Gleize. Nel 2010 o poco prima ha iniziato a diffondersi una mia fissazione: quella che tutti si sia incappati recentemente/felicemente in un evento avviatosi già coi primi anni Sessanta: un “cambio di paradigma” (cfr. il n. 43 del «verri», giugno, 2010, e poi https://www.nazioneindiana.com/2010/10/21/cambio-di-paradigma/). Se andiamo al 2011 abbiamo “loose writing”, espressione che ho pensato di poter riferire soprattutto a gran parte del lavoro di Carlo Bordini, e ad altri autori: http://puntocritico.eu/?p=952. (Di recente la collana Syn ha ospitato un testo di Alessandra Carnaroli che mi pare decisamente esemplare, in questi termini: http://www.ikona.net/alessandra-carnaroli-elsamatta/).

 

Infine: la coppia “assertivo” / “non assertivo” è rintracciabile daccapo sia nel testo Cambio di paradigma (2010, cfr. sopra) sia in un documento caricato nel marzo dello stesso anno sul mio blog: Prosa in prosa e gammm.org in (non)rapporto con le avanguardie storiche, https://slowforward.files.wordpress.com/2010/03/mg_nonrapp.pdf, così come in un dibattito in corso su Absolute poetry, di cui si è purtroppo perso il link, ma in cui mi riferivo alle prose in prosa come a testi che sono “non versi in prosa, non poème en prose, non prosa lirica, non narrazione, non epica, non prosa filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertiva-artaudiana (Noël), non frammenti/aforismi che segmentano un pensiero (Bousquet, Cioran), non voyage/onirismo (Michaux)”. (E cfr. inoltre: http://slowforward.wordpress.com/2013/07/05/corrispondenza-privata-_-1-assertivo-non-assertivo/).

 

Bon. A valle di questo non richiesto iter mnemotecnico, tornando a quanto dicevo, ecco: “informale freddo”, “cambio di paradigma”, “loose writing”, “non assertività”, così come altre espressioni che mi è capitato di usare o addirittura coniare (penso anche a vocaboli inglesi: “installance”, “to drawrite”), non sono categorie, non vogliono essere scatole, definizioni. Vengono usate come tali, spesso. Ma sono, probabilmente, ambienti, costantemente dotati di tutti i comfort dubitativi degli ambienti che – da architetto deviante – escogito.

 

Abitare in un ambiente provvisorio e dubitante collide spesso con l’intento di mettervi radici, o di sedersi comodi. Il dubbio serve a questo: a non fermarsi troppo, e a non sentirsi troppo a proprio agio. Autori o critici stanziali, invece, si trattengono, o al contrario scappano a gambe levate come si fosse intenzionati a vender loro una casa infestata.

 

A scanso di equivoci (che resisteranno) reinsisto: le espressioni sopra elencate sono espressioni, non scatole. Non vorrebbero essere categorie. Tuttavia sono e fanno “critica”, quindi sono a loro volta asseveranti, assertive (con quota d’ombra). È evitabile? Non credo.

 

III.

Detto ciò, se siamo d’accordo su due premesse che qui in calce elenco, potrebbe essere a mio parere molto proficuo riprendere/variare l’intervento denso e preciso di Mariangela Guatteri, in tema di scrittura non assertiva.

 

Le due premesse:

 

  1. La critica e la possibilità stessa di applicazione di una (attività) critica, non ‘creativa’ in senso stretto/artistico, vengono ‘dopo’ i testi. Prendono atto del panorama e su quello lavorano. Prima i testi, poi la critica letteraria.

 

  1. La critica è giocoforza assertiva. È precisamente il suo lavoro, asserire, anche attraverso formule dubitative, di domanda. In ogni caso si muove parlando non in mare aperto, ma stando con lo sguardo puntato sulle acque precise che ha nel campo ottico. Delimitare un campo significa in fondo non smettere di interrogarsi sui suoi confini.

 

Detto ciò, a me sembrava e sembra tutt’ora del tutto evidente che se parliamo (come faccio almeno dal post Cambio di paradigma) di “scrittura assertiva”, lo facciamo sempre tutti (non solo io, e non solo la rivista che ha voluto generosamente collegarsi ad alcune mie ipotesi) in modo assertivo.

 

È assertivo affermare che esistono testi assertivi, e altri non-assertivi? Certo che sì. Visto che ne parliamo in sede critica. Vedi sopra, premessa 2.

 

La critica è assertiva sempre, perfino quando tace. Anche compilando un’antologia senza altro aggiungere.

 

Inoltre, con riferimento alla premessa 1, se la critica lavora (ed è di fatto proprio così che lavora) sui testi dopo i testi, post factum, essa usando il termine “assertività” evidentemente lo spiega e piega nelle direzioni date ‘già’ (in precedenza) da quegli stessi testi. Ergo, il lettore intenderà bene che gli viene chiesto di operare una flessione semantica, non ancora precisabile, forse sempre imprecisabile, proprio in base al fatto che quei testi tra loro differenti vengono tenuti coesi o catturati in un moto stranamente centripeto da un’espressione che è stata per forza di cose intaccata e flessa, semanticamente: “non assertività”.

 

“Assertività” e “non assertività” significano allora: cosa? Evidentemente non il solo atto affermativo positivo, o la narrazione (apparente o meno), o l’iterazione di statements in liste anche banali. Eccetera.

 

L’accezione delle espressioni (strumenti d’indagine, non categorie) “assertività” e “non assertività” è mutata.

 

Il lettore lo percepirà.

 

Questo detto, riprenderei assai volentieri l’intervento citato in incipit, ma così variato (senza nulla perdere della sua energia, asserirei :)

 

Logico e utile può essere assumere la sottrazione della qualità assertiva come essenziale a tale scrittura (così essenziale da poterne essere la sintesi) e vedere se un’attività ermeneutica rileva, in tale non-proprietà, un qualche nodo critico avviando alcune domande, a partire ad esempio da:

cosa ulteriormente sottrae questo non nella rete di relazioni che la scrittura innesca nel mondo?

 

Possiamo anche chiarire che evidentemente non parliamo di forme assertive delle frasi ma dell’architettura o spazio che queste frasi costruiscono oppure organizzano; e parliamo forse (talvolta) del tono, della postura, del punto di osservazione che il testo trasferisce all’autore;

 

Ci possiamo anche orientare alle funzioni e ai modi di essere della scrittura, privilegiando quelle che consentono una lettura critica del mondo, e domandarci:

rispetto al contesto con cui questa scrittura è in dialogo, che cosa il testo non può affermare, dire con convinzione, dichiarare? (Non può essere ed essere trattato).

Ad esempio, sempre in forma interrogativa:

  1. non può darsi come «grande narrazione» o come narrazione compiuta del reale;
  2. non può essere la conferma di un’ordinaria visione delle cose;
  3. non può essere intraducibile, tanto da passare indenne, immutato, per paura di smentirsi;
  4. non può essere stanziale, confermandosi all’interno di un luogo interpretativo, di una categoria, di uno stile, eccetera;
  5. non può avere chiavi interpretative desunte da uno schema conoscitivo incongruo rispetto a ciò che è il testo come complesso di relazioni (= il testo non richiede una lettura o decodifica che si appoggia su modelli critici consolidati; necessita molto probabilmente di uno sguardo critico sul reale).

Procedere per sottrazione di possibilità della scrittura non equivale a depotenziarla, se ciò che le si nega è già visibile così com’è, già conosciuto in quel modo, allora atteso come una conferma di ciò che si crede, di un segno che ha già valore.

Pensare a una scrittura non assertiva necessita di un approccio paradossale ed è come stare in relazione con qualcosa che esiste, non esiste ed è indescrivibile. E questa relazione non si riferisce a un oggetto oscuro e inaffrontabile ma, probabilmente, a una condizione di intermittenza, di glitch sensoriale rispetto allo scorrere agitato del real time.

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8 Commenti

  1. Ringrazio Giovenale per l’intervento postato che in effetti, quando specifica l’assertività della critica (anche costruttiva), mi chiarisce notevolmente un forte dubbio che nutrivo nei confronti di tante scritture di ricerca attuali. Ma credo che a questo punto la riflessione dovrebbe incentrarsi ancora sulla “ricerca” tanto invocata. So di essere banale, e mi chiedo: gli scrittori di ricerca hanno idea di cosa stanno cercando? Oppure in retrospettiva: c’è qualcuno che possa dire di aver trovato qualcosa che non sia il solito cortocircuito sorprendente che scardina i meccanismi percettivi e i conformismi espressivi del quotidiano? Va bene puntare tutto sulle procedure, ma (sempre molto banalmente) sono possibili nuovi contenuti?

    • grazie del commento, MS. molto apprezzato.

      in effetti la domanda sui risultati è sempre pertinente, ed è opportuno porsela (non certo solo in area “di ricerca”: oggettivamente sempre).

      a tale domanda però rispondono (anche qui: come nelle altre aree, in effetti) i testi in quanto tali, riusciti o meno.

      sul ricercare/trovare: forse il bello della ricerca sta proprio nel mettersi in una situazione di sottrazione di garanzie. proseguire praticamente senza certezze se non – e sempre labili – post quem. appunto, “retrospettive” (cito il commento).

      due annotazioni conclusive.

      se un “cortocircuito” risulta “sorprendente” e “scardina i meccanismi percettivi e i conformismi espressivi del quotidiano” a me sembra in effetti tutto fuorché “solito”. non può essere un dispositivo (specifico) già rodato, altrimenti non porterebbe scardinamenti.

      ma la questione, impostata sul solo parametro della “novità”, temo sia fuorviante e ci terrebbe a discorrere per troppo tempo senza trovare il bandolo. vengo invece alla seconda annotazione: personalmente (altri risponderanno per il proprio percorso) sono lontanissimo dal “puntare tutto sulle procedure”.

      uno dei limiti (non certo di questo commento, ma di parte della critica ‘mainstream’ alle scritture di ricerca) mi sembra possa essere individuato come una costante quasi ossessiva concentrazione sull’aspetto procedurale o – ampiamente – “formale” dichiarato spesso (e spesso non perseguito realmente) da molti autori.

      semmai sono i risultati, daccapo, a contare. ovviamente: vanno anche recepiti entro un ‘ambiente’ (che vincola e unisce autore e lettore, ed ecosistema di segni attorno) che però il testo medesimo nel frattempo ha mutato o contribuito a mutare.

      sarebbe dunque forse non corretto accogliere un testo lasciando o pensando lo spazio di arrivo (=l’ascolto, l’attenzione, gli orizzonti d’attesa) come immutato. anzi: proprio se lo spazio viene incurvato dal nuovo corpo celeste possiamo dire che quest’ultimo ha massa, devia la luce, crea effetti percettivi diversi.

      e mette chi legge in condizione di giudicarlo secondo parametri che proprio la sua comparsa ha in qualche modo ridiscusso e spostato.

  2. Sig. Giovenale, La ringrazio ancora per la risposta al mio fin troppo striminzito commento. Ha ragione: ci sarebbe tantissimo di cui parlare senza trovare il bandolo (e temo che ciascuno terrebbe in mano una matassa diversa). Sono solo pochi anni che mi sono avvicinato al panorama delle scritture di ricerca contemporanee, con tutte le difficoltà del caso (e forse non avendo del tutto smaltito lo shock per una tale scoperta, a cui la scuola italiana con le sue troppe sacche di silenzio sul novecento non sa ancora porre rimedio), e Lei è uno degli autori che seguo con più costanza proprio per il ventaglio di approcci diversificati al mondo delle lettere che La sua proposta ha fornito nel corso del tempo. Le domande sarebbero troppe da parte mia e non mi sperticherò oltre in lodi per non risultare ulteriormente melenso.

    Aggiungo solo che dalla mia prospettiva limitatissima io vedo un rischio e una necessità riguardo a queste nuove forme di scrittura. Il rischio è, da una parte, quello di incorrere in una “corsa all’iperproduzione” di testi e materiali che riduce al minimo le occasioni di critica e autocritica; dall’altra, di richiudersi in un proprio universo, sì iperframmentato, ma troppo specialistico e diversamente istituzionalizzato (dove riviste difficili da reperire e gruppi di blog “eletti” che si rimbalzano tra di loro prendono il vecchio posto delle case editrici). Tutto questo ovviamente in contrasto con le aspirazioni politiche che tali pratiche spesso rivendicano.

    La necessità è l’altro lato della medaglia del discorso precedente, ovvero se non sia appunto necessario cominciare a pensare queste esperienze di scrittura in termini di canone, ripartendo dagli anni ’60, come Lei ha spesso fatto in interventi in rete e interviste. Mettere in moto una macchina critica con terminologie e strumenti aggiornati che possa essere utilizzata dall’attuale antropologia, etica, epistemologia, ecc. individuando i testi più significativi degli ultimi decenni. Tornando quindi a parlare di opere e, appunto, di risultati.
    (Le faccio un esempio da profano, da lettore ultimo tra gli ultimi, Lo prenda come semplice annotazione di uno che sa poco di letterature: il Suo testo “21 marzo” pubblicato su compostxt.blogspot.it mi sembra molto più significativo di tanti altri libri di scritture sperimentali pubblicati ultimamente [non faccio nomi proprio per la mia ignoranza generale)]. Mi è venuto immediato il collegamento con le Voyelles di Rimbaud, senza ovviamente tentare alcun parallelismo. Dovrebbe leggerlo a Milano).

    • a mia volta ringrazio per la cortesia e l’attenzione che dedica non solo al mio lavoro ma al contesto delle scritture di ricerca (effettivamente molto ampio e di complicatissima ‘mappatura’). rifletto e rifletterò, lo dico senza retorica, sulle annotazioni che propone. sui due versanti della medaglia che descrive. magari in vista di appunti che cercherò di mettere in rete o in dialogo. grazie ancora!

  3. […] Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Vedi l’incontro sulla poesia “non assertiva“ il 25 ottobre a Milano, nell’ambito di bookcity (con Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Lucio Lapietra, Renata Morresi, Italo Testa e Michele Zaffarano). Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui, quello di Marco Giovenale qui. […]

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