Il cannibale e il comunismo
Un’intervista di Alessandra Sarchi a Andrea Tarabbia
1) A.S. Protagonista del tuo ultimo romanzo è un criminale efferato, un essere abbietto che tu fai parlare in prima persona, attraverso il lunghissimo interrogatorio con il capo della polizia che lo arrestò nel 1990. Come nasce la scelta di calarsi nella mente di un serial killer e perché?
Čikatilo commise il primo dei suoi omicidi nel 1978, l’anno in cui sono nato. Fu arrestato 12 anni più tardi, alla fine di novembre del 1990, quando l’Unione sovietica si apprestava a cadere.
Il 1990 è un anno cruciale per me: mio nonno si ammala a seguito di un ictus, smette di parlare e di muoversi, tutto questo incide profondamente – ora lo so – sulla mia percezione del mondo. Io mi ricordo di me ragazzino che, al telegiornale, osservavo il volto del mostro, come molti altri ragazzini subivo il fascino dei serial killer, mi toglievano il sonno e mi eccitavano. Guardavo quel suo fare stropicciato, le labbra così sottili fino quasi a scomparire, inghiottite da una bocca per la quale, sapevo, erano passati gli organi di molte delle persone che aveva ucciso, e mi chiedevo come un uomo dall’aspetto così ordinario e trasandato, così mediocre, potesse essere il responsabile di una violenza tanto inaudita, di un tale furore animale. Me l’immaginavo Čikatilo, pensavo a come fosse la sua vita e soprattutto a cosa pensasse mentre uccideva. Ma erano soprattutto le labbra a turbarmi, e ci misi parecchio tempo a capire perché. Ebbi l’illuminazione un giorno, all’improvviso: poteva essere il 1992, e alla televisione trasmettevano delle immagini di una seduta del processo di Rostov. Ebbene, le labbra di Čikatilo erano le stesse labbra sottili del nonno. Mi sono detto spesso, negli anni, che Čikatilo ha cominciato a uccidere quando io nascevo e ha finito quando il nonno si è ammalato, come se tra la mia famiglia e questo assassino, incredibilmente solo, ci fosse un legame sotterraneo e insondabile. Čikatilo aveva le labbra del nonno, e in certe sue espressioni, ancora oggi, vedo tra loro due una somiglianza che mi inquieta e che mi ha spinto, alcuni anni fa, a decidere che, forse per liberarmi di questo paragone osceno, dovevo scrivere un libro su di lui.
Con il passare del tempo mi sono accorto – ma lo dice Čikatilo stesso nella domanda di grazia a El’cin che metto tra le epigrafi del romanzo, quando sostiene che la sua vita sia collegata alla vita del Paese – che attraverso la sua biografia potevo raccontare un’epoca, mettere in scena un’idea del potere, raccontare il fallimento del progetto sovietico e chiudere in qualche modo un discorso aperto con Il demone a Beslan. Là, nel Demone, si parlava di terra, violenza, colpa, redenzione, innocenza; qui, nel Giardino, si parla esplicitamente di potere e sopraffazione, ma anche di solitudine e follia, e non c’è, forse, quella redenzione che nel Demone riscattava almeno in parte Marat. Sono due romanzi parenti che, col senno di poi, vedo come una sorta di dittico sulla Russia (cui sono debitore per la mia formazione di lettore e più in generale perché credo che senza la Russia non sarei la persona che sono, nel bene e nel male) e sul male.
2) A.S. Lo scorso aprile è uscito anche nelle sale italiane il film diretto da Daniel Espinosa “Child 44” ispirato all’omonimo libro di Tom Rob Smith, su Andrej Čikatilo. Esistono diversi documentari, reperibili anche in rete, sul cosiddetto mostro di Rostov. E ci sono gli atti del processo ai quali immagino che tu, conoscendo la lingua, abbia avuto accesso. Ma qual è l’operazione letteraria che hai voluto compiere, raffigurando un uomo che assurge a metafora dell’implosione di un paese, la Russia, riportare il male alla sua radice psicologica e storica?
Di cose su Čikatilo ne esistono parecchie: Child 44 è la penultima cosa uscita, ma penso anche ai lavori di David Grieco (Il comunista che mangiava i bambini, romanzo uscito negli anni 90 da cui lo stesso Grieco ha tratto il film Evilenko), e ad altri romanzi, curiosamente quasi sempre americani, che sono usciti nel corso degli anni. Sono per esempio quasi certo che chi si è inventato Hannibal the Cannibal abbia preso molti elementi dalla figura di Čikatilo. Si tratta però quasi sempre di thriller, a volte ben fatti, in cui si parla di “caccia all’assassino” e cose del genere: si guarda sempre all’ispettore, alla sua famiglia, e l’assassino è quasi sempre una figura di sfondo, che compie i suoi atti al buio e, semplicemente, è cattivo. A me tutto questo non interessa. Mi interessa entrare dentro alle cose, provare fastidio, anche, ma cercare di capire che cosa succede quando il male e la violenza esplodono: per far questo, a volte devo mettermi per così dire “dalla parte sbagliata”, e provare a vedere e immaginare il mondo per come lo vede e lo immagina chi compie atti terribili, straordinari. Io credo che uno dei sensi ultimi della letteratura stia nello studiare e nel mostrare il mondo da un punto di vista per così dire sghembo, laterale. Provare a vedere com’è il mondo non visto frontalmente, ma di lato, da una prospettiva non comune.
3) A. S. Se Andrej Čikatilo non fosse stato russo avrebbe rivestito per te lo stesso interesse?
Non lo so. Come ti ho raccontato prima, esiste un fascino che lui ha esercitato su di me ben prima che io mi mettessi a studiare russo o anche solo a leggere la letteratura di quel Paese. Poi però, a un certo punto della mia vita, è capitato che la Russia entrasse nei miei pensieri in modo decisivo, e dunque oggi rispondere a questa domanda mi è praticamente impossibile.
4) A.S. Attraverso la vita di Andrej Čikatilo tu racconti la storia della Russia dalla seconda guerra mondiale fino agli anni ‘90. In quello che, a mio parere, è il punto più altro del romanzo Čikatilo immagina o sogna, come farebbe un perfetto personaggio di Bulgakov, di scendere nel mausoleo di Lenin insieme al segretario di partito, Kostantin Ustinovic. In questa scena s’intrecciano riflessioni sul potere, sul Comunismo come forza opprimente ma anche l’unica in grado di garantire la coesione di un paese che non ha mai conosciuto una vera democrazia dopo la caduta dell’ultimo Zar. Soprattutto emerge nel macabro rituale per la conservazione del corpo di Lenin, la proiezione di una fede ‘laica’, e verrebbe da dire tribale, al posto di una religiosa. Andrej Čikatilo è il frutto mostruoso di tutto questo?
Sicuramente sì, ma se Čikatilo fosse semplicemente il prodotto di tutto questo qualcuno potrebbe persino giustificarne gli atti e le ossessioni – e io non ho certo scritto il libro con questa intenzione. Milioni di persone hanno avuto un’infanzia e una vita sociale come la sua, ma solo lui ha ucciso 56 persone. Esiste un Čikatilo figlio del proprio tempo, imbevuto di fede e retorica comuniste; ma ne esiste anche un altro, l’individuo: credo che di tutte le ossessioni che lo hanno nutrito – l’edificazione del comunismo, la “pulizia” degli elementi che lui considerava deviati, l’ammirazione per Stalin, il patriottismo e così via – la più decisiva sia l’incapacità di accettare la propria impotenza. È il sesso la vera ossessione di Čikatilo, l’incapacità di soddisfare una donna: egli scopre a un certo punto che, uccidendo, può sublimare l’atto sessuale che non è in grado di portare a termine; anche la scelta delle vittime – che dal suo punto di vista sono sempre “deboli”, ossia vagabondi, ragazzine, bambini abbandonati, donne sole che per qualche motivo ne subiscono il fascino e si fidano di lui – va in questo senso: egli è più forte di loro, e uccidendolo mette in scena una strategia di dominio che nella vita di tutti i giorni, invece, non è in grado di esercitare. È curioso che scopra tutto questo quasi per caso, con la sua prima vittima, una bambina di nove anni di nome Lena che, nel romanzo, lo accompagna come una sorta di amore irrisolto: non ha intenzione di ucciderla, ma di abusare di lei; la uccide per sbaglio, e questa cosa lo sconvolge per due motivi: perché non voleva farlo – si scopre assassino e prova un vago senso di colpa – e perché, allo stesso tempo, mentre uccide raggiunge l’orgasmo e prova per la prima volta un senso di vertigine, di completezza. Ha più di 40 anni, un’età molto tarda per un assassino seriale, ed è come se la sua personalità gli si rivelasse per la prima volta. Tuttavia ha ancora un barlume di coscienza, e non si accetta del tutto. Per i tre anni successivi non uccide nessuno, si studia e si trattiene. Poi esplode. È negli anni ‘80 che diventa davvero quello che è, ed è curioso che molti omicidi – spesso i più efferati – avvengano in corrispondenza di svolte epocali nella politica dell’Unione sovietica. È quasi banale, ma la metà degli anni 80, quando sale al potere Gorbačëv e promuove la perestrojka, con l’apertura ad alcune forme di privatizzazione, coincide con un aumento esponenziale del numero e della ferocia degli omicidi.
5) A.S. Il padre del protagonista dice che Stalin è stato il più grande cannibale di tutti i tempi. Il fratello del protagonista sparisce da piccolo, durante la guerra e la carestia, probabilmente mangiato dai vicini di casa. Čikatilo stesso cannibalizza le proprie vittime. Si tratta della catena di un male molto più grande degli individui tanto da diventare allegoria storica?
L’idea di fare un’allegoria storica c’è, ma non ho scritto il romanzo per questo; è stato da subito evidente che la storia dell’Unione sovietica e quella di Čikatilo dovessero essere raccontate insieme, che l’appassimento dell’una dovesse corrispondere a un escalation dell’altro. Racconto la morte di un’idea e di un Paese e lo faccio attraverso uno dei suoi simboli peggiori, ma anche più interessanti dal punto di vista umano e psicologico. Qualcuno mi ha detto che Il giardino può essere letto come una grande metafora dello stalinismo: è una definizione che accetto, ma che considero un po’ limitante, troppo chiusa sull’aspetto politico e storico.
6) A.S. Dal “Demone a Beslan” al “Giardino delle mosche” emerge un ritratto della Russia feroce. Eppure è un paese in cui hai vissuto e alla cui cultura, non solo letteraria, hai attinto in abbondanza. Come definiresti questo rapporto?
È una domanda molto difficile. Amo la Russia, ci sono stato parecchie volte. La sua letteratura mi ha formato e mi forma, e provo istintivamente un senso di “casa” quando ho tra le mani un Bulgakov, un Čechov, un Dostoevskij. Ho imparato a leggere con loro, nelle loro pagine ci sono io. Ho anche subito, e subisco, il fascino dell’Unione sovietica, della Rivoluzione. Anche l’atmosfera di decadenza che vi si respira oggi mi piace, nonostante ne conosca i motivi. Tutto questo non mi impedisce di vedere l’orrore e l’ingiustizia che hanno attraversato il settantennio di comunismo e i 25 ignobili anni che gli sono succeduti. Ogni volta che penso al mio rapporto con la Russia arrivo sempre a questa conclusione, che forse è banale: io credo che esista un solo posto nel mondo dove, anche limitandosi all’ultimo secolo, gli uomini siano stati in grado di produrre – nello stesso momento! – il massimo della bellezza e il massimo dell’orrore. Pensa a Šostakovič: mentre i tedeschi assediano Leningrado, mentre non c’è più cibo, per strada si muore di fame e di malattie e lui è costretto a fare il pompiere, appena può compone la Leningrado, che viene suonata nelle strade della città mentre la gente mette sacchi di sabbia davanti alle porte. Ecco, questa è la Russia: il massimo della bellezza che nasce e si sviluppa dentro l’orrore. Non so dirla in altro modo. Se ci penso, è anche quello che tento di riprodurre nei miei libri.
7) A. S. Avendo scelto di narrare i fatti nel corso dell’interrogatorio, valido come confessione e deposizione, il racconto che metti in bocca a Čikatilo è per sua natura molto dettagliato. Le reiterate violenze assumono un carattere fortemente visivo, pur non essendo mai né compiaciute né morbose. Ti domando, se nell’abbondanza di materiale visivo ‘orroroso’ da cui siamo tempestati, la letteratura non possa scegliere, e inventarsi, un’altra strada, ammesso che ciò sia possibile.
Ho cercato di non essere morboso, anche perché provo un grande senso di rispetto nei confronti delle vittime e dei loro famigliari. Tuttavia, non si poteva far finta che in una confessione non rientrassero anche certi particolari molto violenti. In generale credo che la violenza non vada nascosta, a patto che non sia esibita in modo gratuito. Mi viene in mente la Nota che Mo Yan, uno scrittore che ammiro incondizionatamente, ha messo alla fine di un libro bellissimo, Il supplizio del legno di sandalo, che è probabilmente il libro più insopportabilmente violento che abbia mai letto. Mo Yan dice: «Le lunghe descrizioni dei terribili supplizi che si trovano in questo libro hanno lo scopo di far conoscere al lettore le barbarie e gli orrori che si sono verificati nel corso della storia, per risvegliare in lui un cuore compassionevole. Solo chi è dotato di compassione può essere particolarmente sensibile alle manifestazioni del male. Il motivo per cui ho potuto e voluto scrivere un libro del genere è perché nella vita attuale continuano a verificarsi crimini che provocano la nostra indignazione e che perdipiù vengono lodati e premiati. Sono un uomo debole che versa lacrime vedendo un carrettiere che frusta il suo cavallo: ogni violenza, passata e presente, mi turba l’intimo. In questo libro ho trattato i motivi sociali che provocano la violenza, la psicologia malata di chi la pratica e l’apatia di chi vi assiste. Soltanto chi conosce il male può evitarlo: soltanto conoscendo il demone che si nasconde nel cuore umano si può diventare santi». Ecco, a me manca, forse, l’intento pedagogico che muove Mo Yan. Ma tutto il resto lo sottoscrivo.
8) A. S. Il finale del romanzo è lasciato alla voce del capo della polizia, il dottor Kostoev, una figura altrettanto emblematica della storia Russia per le vicende personali, che egli stesso racconta durante l’interrogatorio, ma opposta di segno a quella di Čikatilo. Quanto quest’ultimo è ossessionato dal potere e nevrotizzato dalla propria impotenza sessuale, tanto Kostoev s’interroga sulla legittimità di qualsiasi potere, soprattutto quello di togliere la vita a un altro essere umano, anche se abominevole come il suo imputato. Quanto ha agito la giustizia poetica nella costruzione di questo personaggio, e quanto la realtà dei fatti?
Il vero Kostoev – di cui ho studiato un lungo memoriale sulla vicenda Čikatilo in cui esprimeva anche opinioni personali e non professionali sul caso – mi ha dato la sensazione di farsi ben pochi problemi morali sulla pena di morte e di porsi nei confronti del potere in un’ottica puramente di servizio. Insomma il vero Kostoev è un funzionario che applica la legge e, almeno pubblicamente, non si fa domande. Traspare dai suoi documenti l’orgoglio (più che legittimo, vista la statura di Čikatilo e visto il numero di anno in cui gli hanno dato la caccia) per aver arrestato l’assassino e, benché tenti di mostrarsi il più distaccato possibile, non riesce a trattenere un certo ribrezzo (anche questo, credo, più che legittimo) per Čikatilo. Invece il Kostoev del Giardino è una figura letteraria: la sua storia e quella del suo nome sono quelli del Kostoev reale, e tuttavia sapevo sufficientemente poco di lui, così mi sono permesso di renderlo un personaggio che è a tutti gli effetti il doppio di Čikatilo. Condivide con lui un tragico passato, come lui giudica della vita e della morte delle altre persone (benché sia coperto dalla legge e i suoi intenti non siano criminali), come lui crede in un’Idea che sta crollando e così via. Entrambi sentono di avere qualcosa in comune con l’altro, e Kostoev reagisce a questo sentimento facendosi domande sul potere (e in traslato sulla legittimità del proprio ruolo), tentando di mostrarsi freddo e tuttavia scoprendosi molto vicino a Čikatilo.
Andrea Tarabbia è slavista e traduttore di Bulgakov. Il suo ultimo romanzo “Il giardino delle mosche. Vita di Andrej Čikatilo” (Ponte alle grazie 2015) è ambientato come il precedente “Il demone a Beslan” (Mondadori 2011) in Russia.
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L’intervista sveglia curiosità per il libro.
Non riesco proprio a capire come possa interessare un orribile pastiche come quello che tratta del cannibale russo e delle sue opinioni politiche.
Ma bisogna proprio scrivere per colpire l’attenzione dei consumatori (dico consumatori e non lettori) ? Ogni idea di morti, gialli, noir, serial killer, cannibali, quanto più colpisce l’attenzione morbosa del pubblico, senza più alcuna capacità critica, va scritto. E’ una buona idea un cannibale che sia marxista, o che sostenga il comunismo? E,se il libro, deve stimolare anche idee, riflessioni su di sé e sulla vita, questo è un pessimo scoop. Certo lo leggeranno, il pubblico dei consumatori è avido di storie impasticciate, ma facili. Avido di azione e cadaveri, di idee che . sembrano idee, ma sono solo slogan. Sinceramente preferirei vedere meno best seller nei supermercati(che sono troppi e eccedenti la capacità di assorbire novità senza senso.) e qualche piccolo libro interessante, stimolante , che approfondisca alcuni temi ! Perdiamo tempo e non ci interessa
Per piacere non scrivete più, non ne vale la pena. Non abbiamo tempo da perdere, e soprattutto non pubblicate recensioni.
La Nazione indiana è degna di ripetto, può anche selezionare testi validi , interessanti e recensioni!
Scusi, ma lei lo ha letto il libro? Stando a quello che scrive ho l’impressione che non lo abbia letto. Credo che lei abbia in mente un libro splatter e commerciale, il che è anni luce lontano dalla natura del libro di Tarabbia (di tutti i libri di Tarabbia). Se invece dovesse averlo letto allora, scusi se glielo dico, è proprio lei a mancare della capacità critica di cui scrive nel suo commento. Ma va bene così, del resto l’Italia una volta era il Paese con sessanta milioni di commissari tecnici della Nazionale di calcio, oggi è diventato il Paese che annovera sessanta milioni di critici letterari.