I custodi della terra
Alla fine ci siamo andati (quasi) tutti a Expo. Anche quelli che arriccivano il naso, vagamente snob, cocciutamente convinti dell’insuccesso della manifestazione. C’è chi ci è andato in automobile cercando un posto dove lasciare la vettura dentro quegli enormi parcheggi fuori scala che non sapremo come riempire dal prossimo novembre. Altri hanno testato la capacità della rete metropolitana di reggere così tanta folla. C’è chi ha preso il treno ed è sceso alla nuova fermata del passante ferroviario, chi ha inforcato la bici, ne ho viste a centinaia legate ai pali o ai tronchi degli alberi. Chi addirittura se l’è fatta a piedi, come ho fatto io assieme a “Sentieri Metropolitani”, da piazza del Duomo fino ad Expo. Ci siamo andati, abbiamo fatto file chilometriche fuori dai padiglioni, abbiamo passeggiato per il decumano, fotografato l’albero della vita e siamo tornati a casa contenti di aver partecipato anche noi di un evento internazionale. Che però, diciamocelo, non è che abbiamo capito per davvero fino in fondo.
Sarà forse perché il tema, “nutrire il pianeta”, di suo non ha una valenza spettacolare, e noi da una esposizione universale vogliamo farci stupire come un bimbo ad una fiera. Di altro tenore erano le esposizioni del secolo scorso che mostravano le invenzioni, le tecnologie dure, le scoperte scientifiche, le “magnifiche sorti e progressive” verso le quali eravamo destinati. Oggi, di fronte alle emergenze demografiche e alla sostenibilità ambientale c’è poco da guardare il futuro con quell’ottimismo sfrenato. Qualche padiglione ha provato a restare aderente al tema, chi con intuizioni spettacolari come il Brasile, chi con qualità didattica, come la Svizzera, chi con allestimenti semplici ma estremamente efficaci come Slow food. Altri, la maggior parte, ha deciso di declinare il tema in una chiave più pop: non più “nutrire il pianeta”, ma “facciamoci una bella mangiata”, influenzati, forse, da una passione televisiva tutta di questo decennio per la culinaria e gli chef stellati.
Ora finalmente, ad un mese dalla chiusura, arrivano loro. Gli unici che per davvero avrebbero qualcosa da dire sul tema. I contadini, gli allevatori, i pescatori, di tutto il mondo. Vengono non per fare una sfilata folkloristica per il decumano, con tanto di costume tradizionale quasi residui di una cultura antica ormai in via di estinzione. Vengono invitati da Terra Madre, a raccontarci come si possa fare innovazione partendo dalla terra. Come “nutrire il pianeta” significhi renderlo libero da guerre ed emigrazioni epocali. Come ci si possa emancipare tornando alla terra, non più vivendola come una condanna ma come l’unica vera opportunità di crescita per tutti noi. Ché tutti abitiamo il pianeta ma solo loro ne sono i veri custodi. Vengono dalla Danimarca o dall’Etiopia, dallo Sri Lanka o dalla Francia. Sono uomini e sono donne. No, anzi: sono ragazzi e ragazze. Una generazione di giovani, spesso laureata, che non ha paura di mettersi in gioco per sanare, come medici di base del pronto soccorso globale, le ferite inferte dai loro sconsiderati padri.
Per come la vedo questo forse è il momento più alto, più nobile dell’intera manifestazione. Più ancora della compilazione della Carta di Milano, documento pieno di belle intenzioni, controfirmato da nomi di leader politici che pesano, ma che se non ratificato rimane nell’alveo delle buone intenzioni, che sappiamo cosa lastricano, normalmente.
Questi ragazzi ci dicono che fare politica, nel senso più nobile del termine, è sopratutto fare. Mettere in moto mani e cervello. Che nutrire il pianeta significa condividere la conoscenza, ridistribuire in modo equo, senza sprechi, il cibo prodotto, che avere cura della vigna o del raccolto significa avere cura del paesaggio e della storia, che se non interveniamo sul clima, o sulle diseguaglianze, siamo tutti condannati a esodi biblici dalle conseguenze inimmaginabili. Non lo dicono. Lo fanno.
Verranno qui a Milano, questi ragazzi e queste ragazze, belli e forti della loro gioventù, a ricordarci che c’è un pianeta giovane che vuole dire la sua, che vuole crearsi le sue regole per il futuro, non subire supino quelle imposte dalla burocratica gerontocrazia che governa il pianeta.
Sono i nostri fratelli minori, i nostri figli, i nostri nipoti. Portano con sé quei valori, quell’etica che in dirittura d’arrivo dà finalmente spessore ad una manifestazione di certo positiva nei numeri ma in fondo debole nella sostanza. Non so dove dormiranno, chi li ospiterà, chi li accompagnerà per le strade della mia città. So già di invidiarli. Affettuosamente.
(pubblicato su OrizzontiExpo, inserto del Corriere della Sera del 1 ottobre 2015)
> quegli enormi parcheggi fuori scala che non sapremo come riempire dal prossimo novembre.
Caro Gianni,
io ci sono stato il giorno dopo la chiusura – anch’io a piedi, facendo fra l’altro un percorso molto simile al tuo con Sentieri Metropolitani, scopro ora – e sto ultimando un mio resoconto disegnato: la sensazione, percorrendo svincoli deserti e parcheggi desolati, al di là dell’agorafobia, è proprio quella: “e adesso? Di tutto ‘sto baraccone cosa ne faranno?”.