Fine dell’animale politico? Note su “I destini generali”
[Questo intervento, apparso su l’Indice di settembre, più che recensire il libro di Mazzoni si propone di sviluppare a partire da esso una discussione. Premetto che ritengo I destini generali un libro scomodo e importante, con il quale è bene fare i conti. Aggiungo un dato non ricordato nel mio pezzo: l’autore, oltre che teorico della letteratura, è poeta, e quindi questo suo libro sollecita tanto una lettura “a fronte” della sua opera poetica che della sua opera saggistica.]
di Andrea Inglese
I destini generali è un saggio di critica della cultura, scritto da uno dei migliori studiosi italiani di letteratura moderna e contemporanea. La letteratura costituisce ancora una chiave di lettura importante per la comprensione della società attuale e non mancano in Italia autori che hanno prodotto, in anni recenti, lavori importanti su questo fronte. Penso in modo particolare a Carla Benedetti con Disumane lettere (Laterza, 2011) o a Gabriele Frasca con La lettera che muore (Meltemi, 2005 e Sossella, 2015). Mazzoni non sceglie, però, di occuparsi del ruolo che la letteratura o la cultura umanistica hanno all’inizio del Ventunesimo secolo, evolvendo nel nuovo contesto dell’industria culturale e della rivoluzione informatica. Il suo saggio prende avvio da una domanda per certi versi più elementare e ambiziosa: che rapporto esiste tra il vocabolario politico, ereditato dalla sinistra novecentesca, e le nostre concrete forme di vita nella società tardocapitalistica? Quando lessi due anni fa, in rete, il primo dei due capitoli che compongono il libro, fui impressionato positivamente dalla sua capacità di agire come contravveleno nei confronti dell’eterno ottimismo delle sinistre, quello del “buon governo” tecnocratico della sinistra parlamentare, e quello della insurrezione generalizzata, che una certa sinistra radicale vede sempre alle porte. Oggi, però, confrontato alla sua versione ultima e completa, scorgo nel discorso di Mazzoni alcuni limiti importanti. Esso è tutto volto a illustrare la scomparsa, nella società occidentale, dell’idea “che gli esseri umani siano animali fondamentalmente politici, che la politica sia ciò che può dare senso alla vita modificando l’esistente per produrre un mondo nuovo”. Il ritrarsi dell’individuo all’interno della sfera privata è un tema centrale nella riflessione di molti autori da almeno l’ultimo ventennio del secolo scorso. Ne scrivono, ad esempio, Günther Anders in Germania, Cornelius Castoriadis in Francia, e Christopher Lasch negli Stati Uniti. Più di trent’anni dopo, Mazzoni sembra volerci persuadere che questa rinuncia alla dimensione pubblica e politica, e ad ogni progetto che trascenda il puro godimento individuale, è un fatto non solo acquisito universalmente, dal momento che il modello di vita occidentale si è imposto ovunque nel mondo, ma anche definitivo e irrevocabile. In tale perentorietà di giudizio c’è il rischio che il contravveleno diventi veleno tout court e che la critica della cultura funga da colpo di grazia per ogni cultura critica non ancora in disarmo. Difendendo una tesi simile, però, l’autore viene inevitabilmente a trovarsi in una situazione paradossale. Egli identifica, da un lato, il carattere sintomatico dell’interpretazione che l’ideologia democratico-liberale, nel momento del suo trionfo, ha dato dei “destini generali” – interpretazione perfettamente espressa nel celebre saggio di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) – e, dall’altro, finisce per prendere per buona, come fatto tra i fatti, come realtà solida e certa, proprio quell’interpretazione, rovesciandone semplicemente il valore. Bisogna dire che Mazzoni sconta una difficoltà generale, che riguarda tutto il campo della riflessione contemporanea. Estremamente rari sono i lavori che riescono ad articolare in modo convincente critica della cultura democratico-liberale e analisi politica della società capitalistica. Le analisi politiche tendono a ignorare il peso che la cultura svolge all’interno dei conflitti sociali e, d’altra parte, lucide e raffinate critiche della cultura rischiano di prendere alcune immagini dominanti del mondo per il mondo. Così, in Mazzoni, l’enfasi sulla visuale onnicomprensiva e panoramica dello Zeitgeist pone in second’ordine il confronto con una pluralità di contesti concreti. In un libro dove è questione quasi ad ogni pagina del “politico”, nulla si dice, ad esempio, della questione politica che più ha caratterizzato questo inizio di secolo e che continuerà ad occuparlo ancora per molto tempo, ossia la questione ecologica e la corrispondente critica del modello economico di sviluppo illimitato promosso dal capitalismo. Vi è poi un secondo punto controverso nell’impianto del libro. Quando Mazzoni in modo senz’altro efficace descrive la forma di vita occidentale come il trionfo dell’individuo assoluto, sciolto da tutti i legami temporali e sociali, dimentica di aggiungere ‒ a differenza di quanto faceva sempre Castoriadis ‒ che anche questo tipo d’individuo, e l’ideologia che lo governa, è frutto di una costruzione sociale. Ciò significa, allora, che l’autosufficienza individuale non potrà mai essere una compiuta e tantomeno irreversibile condizione dell’uomo occidentale, per il semplice fatto che tale autosufficienza è, nei fatti, impossibile in ogni società e non può esistere che come mito. Nessuna rivoluzione antropologica, per terrificante e radicale che sia, potrà mai impedire a una società di funzionare attraverso istituzioni collettive, che regolano vocabolari e forme di vita. Anche l’individualismo più radicale non potrà sormontare e abolire magicamente la contraddizione che lo fa esistere come una variante, certo eccezionale dal punto di vista storico, di una delle tante configurazioni socialmente determinate dell’essere umano. Anche in questo caso, quindi, è fondamentale distinguere “spirito del capitalismo” e pratiche sociali effettive. Mazzoni coglie perfettamente i tratti del nuovo modello cinico-vitalistico di soggettività veicolato dalla classe egemone capitalistica e, sulla scorta del pionieristico lavoro di Luc Boltanski e Ève Chiapello del 1999, Il nuovo spirito del capitalismo, oggi tradotto anche in Italia (Mimesi, 2015), mostra la sostanziale prossimità tra le “macchine desideranti” deleuziane e gli uomini di Enron o Goldman Sachs. D’altra parte, se il ceto medio nordamericano o europeo è irresistibilmente attratto da quel modello di soggettività, non gli è permesso realizzarne, nelle sue effettive condizioni sociali ed economiche, che una parodia, una versione di compromesso blanda e grottesca. Questa impossibilità d’incarnare pienamente la forma di vita sognata e perseguita è all’origine di una grande quantità d’infelicità sociale, che va ad aggiungersi alla sofferenza in constante aumento prodotta dalle condizioni di lavoro e di disoccupazione in epoca neoliberista. Certo, Mazzoni ha ragione a non cantare vittoria. Tutte le contraddizioni sociali del mondo non sono di per sé garanzia di inevitabili, fatali, rivolgimenti rivoluzionari. Uno sguardo eccessivamente disincantato rischia però di pietrificare e uniformare l’esistente, misconoscendo il carattere costitutivamente aperto e imprevedibile dell’agire umano. I destini generali è costituito da due capitoli, il primo teorico e il secondo fenomenologico. Se quello teorico, come ho mostrato, si presta su alcuni punti importanti a controversia, il secondo è più convincente. In esso, l’autore abbandona le visioni dall’alto, il tentativo di elaborare una filosofia della storia, e privilegia uno sguardo rasoterra, ben ancorato ad una situazione concreta, quella del turista berlinese, che passeggia per la città riunificata e ne descrive profili e mutazioni. Qui è lo sguardo benjaminiano e archeologico che predomina. E se Berlino costituisce un’allegoria della contemporaneità occidentale, nelle sue disjecta membra si annidano tensioni ed energie molteplici, di cui non è plausibile prevedere in modo univoco esiti e sviluppi.
¤
Guido Mazzoni, I destini generali, Laterza, Bari, 2015.