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Da Bizet a Twitter. Stromae e una variazione sulla Carmen

di Ornella Tajani

Quoi du reste, ici, maintenant, d’une Carmen?

A blank parody, una parodia vuota: così Fredric Jameson definisce il pastiche, una forma prodotta dal desiderio destoricizzante dell’epoca postmoderna, che consisterebbe in un rimaneggiamento di materiali già noti privo di qualsiasi carica satirica. Non è dello stesso avviso Linda Hutcheon, che in varie sue opere (fra cui The Politics of Postmodernism, 1989, e A Theory of Adaptation, 2006) evidenzia il potere sovversivo di ogni forma di adattamento, parodico ma non solo, e dunque si oppone anche alla concezione jamesoniana del pastiche. Per Hutcheon, il pastiche è una forma estetica che rientra nella stessa costellazione semantica dell’adattamento; quest’ultimo è un procedimento che consente di smuovere le vecchie opinioni precostituite, i clichés consolidati, rimescolando temi e stili e così fornendo nuova linfa a motivi già noti. Il pastiche de-doxifies, si può dire riciclando un termine caro a Hutcheon. Nelle conclusioni al volume del 2006, la studiosa si preoccupa di precisare cosa non è adattamento: una citazione breve, o un accenno a un motivo musicale noto. La caratteristica dell’adattamento sta nel suo essere una ripetizione senza duplicazione: l’ipotesto, cioè il testo originario, per usare la terminologia di Genette, deve essere riconoscibile ma deve al contempo generare qualcosa di nuovo.

In un articolo che contiene quattro letture della Carmen, lo studioso H.M. Leicester afferma che, a un livello imparagonabile a tutte le altre, l’opera di Mérimée prima e di Bizet poi si è fatta discorso, cioè si è espansa nel corso di quasi due secoli inglobando molteplici interpretazioni, immagini, teorie, stereotipi: forse perché il suo personaggio continua a possedere un elevato potenziale di ambiguità, e dunque resta camaleontico. Che se ne voglia porre in risalto il carattere etnico, l’indole ribelle o il fascino fuori del comune, Carmen continua a rappresentare la otherness e dunque continua a prestarsi a molteplici adattamenti e pastiche, superando la selezione culturale imposta dai tempi e ispirando riletture culturospecifiche.
La Carmen del cantante belga Stromae fa parte del suo ultimo album Racine carrée; il videoclip è uscito il 1 aprile 2015 ed è diretto da Sylvain Chomet, il regista di L’illusionista e Appuntamento a Belleville. A un primo ascolto, niente di particolarmente originale: il pezzo sfrutta una delle arie più famose dell’opera di Bizet, L’amour est un oiseau rebelle, cioè la Habanera, e lo rimpasta con influenze elettroniche e pop-rap. L’esperimento di fare del rap sulla Carmen è talmente poco nuovo che nel 2001 era già uscito Carmen: A Hip Hopera, un film musicale e completamente rap di Robert Townsend, con protagonista Beyoncé. Quest’ultimo, secondo Hutcheon, si ispirava molto anche al film adattamento del ’54, Carmen Jones, che già prevedeva una trasposizione della narrazione in tempi e luoghi affatto differenti rispetto all’opera di Bizet; inoltre, guardando alcuni dei video presenti su YouTube, si fa fatica a riconoscere la traccia anche soltanto musicale dell’ipotesto, che invece, come detto, è una delle qualità di un buon adattamento. Non così nel caso del pezzo di Stromae, che riprende la melodia e alcuni dei versi del brano originale decontestualizzando la narrazione e citando il personaggio di Carmen soltanto nel titolo. Il cantante dà vita a un ipertesto che non solo rappresenta «an acnkowledged transposition of a recognizable other work», ma anche «a creative and an interpretive act of appropriation» e «an extended intertextual engagement with the adapted work». Sintetizzando nella sua Carmen le tre caratteristiche dell’adattamento stilate da Hutcheon, Stromae lavora alla melodia e al testo in modo da tessere una dialettica di rimandi, creando in questo modo un ipertesto che dialoga con il proprio ipotesto.
Vediamo la prima strofa:

L’amour est comme l’oiseau de Twitter                                       L’amore è come l’uccellino di Twitter
On est bleu de lui, seulement pour 48 heures                            Ci piace da morire, solo per 48 ore
D’abord on s’affilie, ensuite on se follow                                     Prima ci iscriviamo, poi ci followiamo
On en devient fêlé, et on finit solo                                                Ne andiamo matti e finiamo da soli
Prends garde à toi !                                                                       Stai in guardia!

L’incipit, salvo lo scarto finale, è il medesimo dell’aria di Bizet, nella quale Carmen prende la parola per la prima volta e, mentre canta un inno alla bellezza e alla imprevedibilità dell’amore, al contempo mette in guardia dal pericolo in cui incorre chi si innamora di lei; naturalmente non è difficile scorgere nel metaforico oiseau rebelle, impossibile da addomesticare, una personificazione della stessa protagonista dall’indole selvatica e irrequieta.
Stromae invece trasforma l’uccello ribelle nell’uccellino azzurro che è il simbolo di Twitter, un servizio di networking in cui gli scambi sono particolarmente rapidi: con l’allitterazione affilie/follow/fêlé/finit, l’autore sintetizza le dinamiche da social attraverso le quali tutto, incluso l’amore, si esaurisce nel giro di poche ore. Il bersaglio del pezzo è proprio la plastificazione di sentimenti e identità che si verifica quando la addiction per i social è massiva: Prends garde à toi, avverte Stromae, riprendendo le stesse parole di Carmen, la quale mirava invece a mettere in guardia Don José e il pubblico dai pericoli della passione, un enfant de Bohême senza legge, imbrigliabile.
La denuncia di Stromae non ha nulla di nuovo e si limita a cavalcare l’onda della critica ai social, mostrando, anche attraverso il video, l’incapacità ad amare cui l’alienazione da smartphone può portare: nel videoclip, il cartone animato del cantante è perseguitato da un uccello azzurro che diventa sempre più grosso e cattivo man mano che ci si avvicina alla fine, e sempre più ingombrante nella relazione d’amore del protagonista, della quale seguiamo le tappe. L’efficacia del pezzo sta secondo me nell’aver scelto, per una implicita rivendicazione di una emotività autentica, da ricercarsi al di fuori dello schermo, e per una denuncia della latitanza dei sentimenti dalla quotidianità attuale, proprio un’aria celebre a livello mondiale per essere un inno all’amore. La costruzione del pastiche è dunque perfettamente speculare e non delude le aspettative cui dà vita quel primo verso simmetrico e incisivo: dall’amore ribelle, indomabile, all’amore ai tempi di Twitter. Dal cliché di una Spagna incandescente al ritornello dell’apatia da schermo. Dal pericolo della passione bruciante a quello della dipendenza da un apparato telematico che divora.
Lo svilimento dei rapporti umani si accompagna all’alienazione da consumismo, cui la addiction da social network non è estranea: così in questa Carmen l’enfant de Bohême diventa un enfant de la consommation, che pretende sempre più scelta e per il quale la legge del mercato vale anche nel campo dei sentimenti.
«Quest’uccello del malaugurio, se c’è bisogno lo metto in gabbia», tuona il protagonista contro la fidanzata, mentre il grosso animale azzurro troneggia ormai nel letto in mezzo a loro, e qui c’è proprio un ribaltamento, poiché la Carmen di Bizet nell’ultimo atto dichiara: «Jamais Carmen ne cédera. Libre elle née, libre elle mourra». Si parla di libertà e prigionia: il verso «tu crois l’éviter, il te tient» (pensi di scansarlo, lui ti tiene in pugno), che nel brano di Bizet si riferisce all’amore, con Stromae ha per protagonista Twitter. Carmen muore libera, e nel suo caso la «comunità» in cui vive e cui non vuole rinunciare, ossia quella gitana, è il simbolo stesso di questa libertà. Tutt’altro caso è invece quello del pezzo di Stromae e della sua community sociale che rende schiavi: dopo una corsa verso il precipizio in cui il cantante cavalca l’oiseau Twitter insieme, fra gli altri, a Obama e alla regina Elisabetta, risuonano le ultime parole indirizzante all’amante: « Un jour tu verras, on s’aimera/Mais avant on crèvera tous, comme des rats» (Vedrai, un giorno ci ameremo/Ma prima creperemo tutti, come topi).
L’operazione di Stromae ha un gusto decisamente postmoderno e si rivela un buon esempio di pastiche, una forma indefinibile e contraddittoria che amalgama, cita, ironizza omaggiando. Lo stesso Genette, nel suo pur dettagliatissimo studio strutturalista Palimpsestes sulla transtestualità, si ritrova spesso a rivederne la definizione; con lui anche il più convenzionale esempio di pastiche, ossia l’imitazione dichiarata dello stile di un autore (gli esercizi di stile À la manière de), cambia nome ed è definito charge, caricatura. Eppure, quando nel finale affronta un breve excursus nel campo musicale, Genette ammette che con l’opera lirica il discorso transtestuale diventa particolarmente complesso.
La verità è che forse oggi occorre distinguere il pastiche letterario “classico”, proustiano, una forma che per l’autore della Recherche rappresentava una varietà di lettura critica e che era incentrato sull’imitazione dello stile di un autore (vedi i Pastiches editi da Marsilio a cura di Giuseppe Merlino), dal pastiche inteso in senso postmoderno; è in questa direzione, mi sembra, che vanno alcuni studi più recenti, come Pastiche: Cultural memory in Art, Film, Literature di Ingeborg Hoeste, la quale definisce questa forma «a blend of differents ingredients», riprendendo il riferimento culinario all’etimologia del «pasticcio» italiano. Da un lato, dunque, il pastiche che è imitazione di un autore o un’opera celebri; dall’altro un mélange di elementi presi in prestito da testi preesistenti.
La Carmen di Stromae non è un vero adattamento perché non duplica la storia della protagonista originale; ma è un pastiche che ha alcuni elementi in comune con l’adattamento delineato da Hutcheon, perché sovverte convinzioni e aspettative del pubblico, sia formalmente (dal registro operistico al rap), sia dal punto di vista del contenuto (il tema dell’amore è declinato in tutt’altro senso e prende altre strade). Così Hutcheon conclude il suo discorso: «Evolving by cultural selection, traveling stories adapt to local cultures, just as populations of organisms adapt to local environments». Possiamo dire che Stromae firma un pastiche geoculturale della sommaria eppur indimenticabile filosofia dell’amore cantata da Carmen nella Habanera; ed è singolare pensare che già per Bizet questa aria musicale fosse il rimaneggiamento di una Habanera composta circa dieci anni prima da Sebastian Iradier, il quale l’aveva intitolata «El arreglito», ossia «L’arrangiamento» in spagnolo; dal punto di vista della melodia, il pezzo di Stromae sarebbe dunque un adattamento al cubo.
Seguendo quel «perverso impulso di de-gerarchizzazione» da cui Hutcheon si dichiara mossa nella sua Theory of Adaptation, forse anche il pezzo di Stromae finisce con l’allargare le maglie del discorso ormai vastissimo sulla Carmen.

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10 Commenti

  1. Grazie, molto interessante.
    Mi viene in mente… non so se si possa definire un pastiche, La tragedie de Carmen [1983] di Peter Brook che asciuga l’opera di Bizet, liberandola dagli stereotipi e dall’iconografia abituale del melodramma, riportandola all’essenza di passioni e tensioni, riducendola a quattro voci, con una piccola orchestra di sedici elementi e molti dialoghi in cui si ritorna al romanzo ispiratore di Mérimée. Sulla sabbia del Théâtre Des Bouffes Du Nord, ci restituisce all’osso una Habanera, sfrondata dal folklore spagnoleggiante, primaria e profonda nei gesti e nelle loro intenzioni sensuali, con alla fine una vera propria zuffa da gatte in amore fra Carmen e la di solito borghesuccia e liliale Micaela, addirittura sfregiata sulla fronte dal coltello di Carmen.

    [dal minuto 9 e 40 secondi circa]

    ,\\’

    • Il grosso problema della Tragédie di Brooks, è che nel rimuovere i fronzoli melodrammatici, un intento che può esser anche lodevole, Brooks ha sorprendentemente eliminato anche la maggior parte della sottigliezza psicologica dei personaggi, togliendo efficacia alla storia rispetto all’opera di Bizet.

      Micaëla, che in Merimée non compare nemmeno, non è una borghesuccia, è una contadina, una sempliciotta di campagna, che viene introdotta da Bizet per avere un elemento di confronto per tracciare l’evoluzione del personaggio di Don José. All’inizio dell’opera i due personaggi si rispecchiano perfettamente, e per il resto dell’opera Micaëla non si può evolvere perché il suo scopo è solamente quello di marcare il cambiamento di Don José: più che un personaggio vero e proprio è un alter ego statico di Don José, un ritratto di Dorian Gray al contrario, che mantiene la sua forma iniziale di fronte alla rovina del Don José reale.

      Il Don José iniziale *è* Micaëla, ingenuo e, nell’aspetto, tirato a lustro come un contadino che va in città. Tutto ciò cambierà con Carmen, naturalmente, ma se Brooks già all’inizio mette in scena un Don José turbato, con la divisa sbottonata, che abbassa lo sguardo quando parla con Micaëla, l’effetto dirompente di Carmen ne risulta irrimediabilmente attenuato: se nel primo atto (secondo la struttura di Bizet) Don José si presenta già come nel terzo atto, quale sarebbe l’effetto di Carmen?

      Allo stesso tempo, Carmen è una donna come nessun’altra. Avere Carmen che sfregia Micaëla significa avere una Carmen che da un lato vede Micaëla come potenziale rivale, cosa di difficile comprensione, e che dall’altro ha un interesse specifico per Don José, mentre Don José è nelle fasi iniziali poco più che un piacevole (ed utile) diversivo. È la sufficienza che Carmen mostra nei confronti di Don José, insieme all’equivoco di Don José che pensa di essere l’oggetto speciale delle attenzioni di Carmen, che fa perdere la testa a quest’ultimo, ma nella rielaborazione di Brooks tutto ciò si perde.

      Si potrebbe continuare, ma la mia conclusione è semplice: Peter Brooks con l’acqua sporca ha buttato via anche il bambino.

  2. Con l’acqua sporca forse butterei via anche quella s… Brook agisce sempre per sottrazione, è il suo taglio di regia critica; è lecito vedere un suo spettacolo rimpiangendo ciò che toglie, sentendo la mancanza di ciò che astrae ed estrae dalla linea narrativa temporale, che sintetizza, soprendendosi se un coltello appare in mano a un altro personaggio, o se vengono chirurgicamente estratti da personaggi neutri sentimenti forti, ma anche se puoi essere in totale disaccordo con le sue scelte, c’è un momento in cui te lo dimentichi e lo spettacolo ti prende in una sua via, mentre riscrive un’altra tragédie de Carmen. Se Bizet mette Micaela, che non c’era in Mérimée, Brook la trasforma in una rivale in amore e della novella mette invece Garcia, un muto marito di Carmen che sarà ucciso da Don Josè, se dopo la morte di Bizet sostituiscono le parti recitate con gli insopportabili e un po’ ridicoli recitativi accompagnati scritti ex novo da Giraud, Brook li toglie… in quanto alla sottigliezza psicologica che di solito nella lirica viene trasmessa non tanto sottilmente da insopportabili pesanti e tronfi gesti declamativi con l’occhio fisso alla bacchetta del direttore, alzando a turno al cielo un braccio o l’altro, non la si rimpiange… la piccola orchestra a volte sorda, le voci liberate da sopranismo e tenorismo, la mancanza delle volgari comparse che sguaiateggiano qui e là… è un tale sollievo!

  3. Con l’acqua sporca forse butterei via anche quella s…

    Giusto, Peter Brook, non Peter Brooks! Sono sicura che non sarà l’ultima volta che mi sbaglierò, ma se mi sbaglio voi mi corigerete :-)

    Brook agisce sempre per sottrazione, è il suo taglio di regia critica;

    Eh, insomma… Brook toglie, cambia ed aggiunge quando gli fa comodo. Il che, intendiamoci, non è sbagliato. E’ quello che mi aspetto da un artista quando riprende il materiale di un altro artista. È quello che ha fatto ad esempio Bizet con Mérimée. Non è questo il punto, ma il risultato di queste operazioni. Non può ad esempio sfuggire l’ironia che, pur partendo con l’idea di liberare la Carmen di fronzoli melodrammatici, Brook finisce con l’aggiungere all’opera di Bizet una scazzottata o due, un marito cornuto, e tre morti assolutamente inutili (Zuniga, Garcia ed Escamillo) — e la prova che siano assolutamente inutili è proprio nel fatto che l’opera di Bizet non ne ha bisogno.

    Abbiamo visto prima il ruolo di Micaëla nell’economia dell’opera di Bizet, quello di mettere in evidenza il cambiamento di Don José. Risulta invece più difficile giustificare la scelta di Brook di elevare Micaëla in una rivale di Carmen, visto che a farne scapito è proprio l’eccezionalità di Carmen, e l’inizio della storia si riduce in una sorta di rivalità tra due donne per l’amato, sicuramente non un’idea particolarmente originale.

    in quanto alla sottigliezza psicologica che di solito nella lirica viene trasmessa non tanto sottilmente da insopportabili pesanti e tronfi gesti declamativi con l’occhio fisso alla bacchetta del direttore, alzando a turno al cielo un braccio o l’altro, non la si rimpiange…

    Eh, assolutamente d’accordo, e di Carmen messe in scena da registi incapaci ne ho viste sin troppe [1].

    Purtroppo però Brook, non si limita ad agire per sottrazione, come sarebbe stato auspicabile, ma cambia, aggiunge ed alla fine, ahimè, peggiora. Come ho detto, con l’acqua sporca ha buttato anche il bambino.

    [1] In questa luca risulta comunque difficile capire la scelta di avere un Lillas Pastia che per la finezza della caratterizzazione sembra appena uscito da uno Spaghetti Western.

  4. grazie per questi begli interventi che dettagliano il panorama; non avevo visto la Carmen di Brook, cui anche la Hutcheon fa cenno nel suo capitolo sui vari adattamenti da Mérimée (ma ho presente quella meraviglia che sono le Bouffes du Nord, Orsola).
    Sul piano formale, direi che il taglia e cuci è assolutamente ammesso in ogni adattamento; può tradire di più o di meno, essere migliore o peggiore, ma resta adattamento. Cosa sia il pastiche invece è questione più dibattuta, ed è ciò su cui sto cercando di formarmi un’idea al momento; come si sarà capito, il pezzo di Stromae, per me, lo è!

  5. [e a proposito del fatto che Brook lavora per sottrazione, per Hutcheon il suo sarebbe un caso di adattamento destoricizzante, così come ve ne sono di “storicizzanti”]

    • Se ricordo bene, la Hutcheon porta come esempio storicizzante il film di Francesco Rosi, e si sofferma poi sul modo in cui l’occhio dello spettatore a partire dal coro delle sigaraie finisce su Carmen.

      Anche in questa versione i recitativi musicati vengono eliminati a favore di dialoghi parlati, e, in un gioco metatestuale interessante, l’eccezionalità di Carmen, la sua otherness, viene sottolineata dalla scelta di una cantante di musical, non d’opera, per interpretarne il ruolo.

  6. Care Anna e Ornella, intanto trovo molto bello poter litigare di cose così speciali, non succede spesso… non credo che Brook si ponesse il problema di cosa la Carmen di Bizet avesse bisogno o meno, e se fosse o meno necessario aggiungere o togliere qualcosa in funzione di questo scopo, riscrive un nuovo racconto con una sua dinamica interna e assolutamente coinvolgente e affascinante. Non vedo che gran sottigliezza psicologica ci sia nel contrapporre la “puttana” Carmen alla morigerata contadinotta Micaela, è un espediente narrativo come un altro e nemmeno molto eccezionale. Noi immaginiamo le opere come blocchi storicizzati intoccabili, ma si provi a pensare se il direttore artistico dell’Opera Comique, spaventato dal finale cruento, poco adatto ad un pubblico borghese [fu un gran bell’insuccesso infatti], avesse ottenuto di cambiare il finale, con un happy end?!? Cosa che Bizet per fortuna rifiutò. Un’opera è qualcosa di vivo al momento della sua composizione e deve restarlo nonostante il passare del tempo. Brook porta all’estremo questo essere materia viva dell’opera e muove la sua regia/riscrittura fuori dai limiti codificati. Ci mostra un don Josè già arreso, con la divisa sbottonata, lo sguardo instupidito, mentre Carmen arrotola, si fa accendere e fuma un sigaro, e poi radicalizza la tensione fra le due donne, fra i due mondi delle due donne, libera la violenza fra di loro perché nel mistero dell’amore, l’amour est un oiseau rebelle, nelle mani in faccia a cui arrivano è forse l’unico punto di contatto fra di essi. Questo si chiama regia critica, almeno per me.
    Nella sua Habanera Carmen più che provocare Don Josè sembra voler provocare lei, lasciando cadere maliziosamente il suo fiore rosso fra di loro, prendendo in giro il suo morigerato scialletto di pizzo, cercando di infilarle il sigaro in bocca, pizzicandole la guancia… una seduzione da seduta per terra, quasi immobile, nel vestito scuro, accollato, contropposta alla figurina ingessata da pastorella del Presepe di Micaela, altrettanto seduta per terra, allibita, con Don Josè che deambula smarrito fra di loro. L’eccezionalità di Carmen in Brook non sfrutta espedienti di contrapposizione prevedibili, ma è per me continuamente giocata sulle energie sottili e misteriose, incontrollabili della seduzione, fatale, inarrestabile, un filo teso e vibrante. La sua otherness non si serve di mezzucci, a questo proposito vedere quanto è brutta banale, prevedibile, questa Habanera di Rosi, anche se canonica e storicizzata nella location:

    con quelle mossucce da lavandara, da sciantosa che agita la gonna a gambe larghe e ti aspetti ‘a mossa da un momento all’altro, quell’agitarsi da sciacquetta in calore, il verismo polveroso delle controscene fintissime delle comparse, i ballettucci kitsch walzerati e naccherati insieme… i militari con le mani al cinturone.
    Sembra questa una parodia di seduzione, uno stereotipo assoluto… per restare nel seminato del post.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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