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Le botte in piazza

CAVALLIdi Giulio Cavalli

(Giulio Cavalli, dopo anni di teatro, inchieste e impegno civile che lo obbligano ancora oggi a vivere sotto scorta, pubblica, scritto con la stessa rabbia e lucidità, il suo primo romanzo: Mio padre in una scatola da scarpe. Il libro è da qualche giorno in libreria e l’autore ci regala qui un estratto dal secondo capitolo. Noi per questo lo ringraziamo. G.B.)

 

La mattina presto. Per Michele può esserci il caldo più unto, il freddo più buio o la pioggia più fitta, ma il mattino va rispettato: l’alba è l’inizio. Cose semplici. Sono due anni che la scuola è finita e tutto il giorno ha già la forma del callo sulle mani, che ti sfregano ruvide la faccia quando ti lavi.

Lavorare rende liberi.

Michele era stato studente diligente e poco curioso, ma questa cosa del lavoro e della libertà non gli era mai andata giù. I vecchi dicono: “Tocca per farsi una famiglia ed essere una persona per bene”, ma la libertà proprio non c’entra. Ci sono città del mondo in cui il lavoro è un canale che bisogna navigare per stare a galla e sopravvivere, mentre qui a Mondragone si lavora per non dovere niente a nessuno e perché nessuno ti debba niente, per questo Michele ama la fatica: la fatica infatti ha una faccia sola, è meccanica senza viti, acido lattico senza sentimento. La fatica non ha bisogno di merletti. Sono le sei e Michele si alza come si alza il mattino: sale in fretta per scaldarsi.

«Si fatica principalmente per non sentire tutto il resto» dice sempre quello scemo di Massimiliano.

Caffè amaro. Le scarpe che si scollano. Una camicia spessa come pelo di topo, a quadrettoni, con i gomiti quasi trasparenti. Guardandosi allo specchio si osserva. Non è un bel vedere, no, ma tutta questa stoffa è l’armatura per la fatica al magazzino. La porticina del cortile di casa cigola come il portone di un castello abbandonato. Fuori, Mondragone è odore di caglio e case che si sbriciolano.

«Buongiorno e ben alzato, Michè!» La signora di fronte sta già bollendo la salsa. È cieca e sorda come la salsa ma saluta da orologio svizzero tutte le mattine alla stessa ora.

Lui risponde, anzi ci prova. Meglio, alza la mano e scatta con la testa, gli viene male: cade come da un lato, inciampa, sorride, rialza la mano, ride, no forse non se ne è nemmeno accorta e allora stinge il sorriso e niente, come se non fosse successo niente. «’Ngiorno.» Che fatica.

Mentre la strada scende vuota verso lo stop Michele prova a ripensare alla serata appena passata e a quelle voci che lo rivolevano in piedi: non è facile portare addosso le botte a mezza faccia facendo finta di essere elegante, tu che elegante poi non lo sei stato nemmeno al battesimo o alla comunione.

Erano in tre e Michele li aveva notati già da giorni per quelle smorfie da guappi che qui vengono ammaestrati in serie, seduti arrampicati sul muretto in piazza. Ieri sera erano nella solita posa, di quelli che vorrebbero essere falchi ma sono solo una nidiata di avvoltoi. Ieri aveva anche deciso di bersi una bottiglia in compagnia e festeggiare l’assunzione che era diventata ufficiale per tutti, al magazzino. Adulti a tempo indeterminato con il libretto di lavoro in tasca. Ci avevano promesso anche un po’ di malattia e ferie, non proprio tutte quelle che c’erano scritte nel contratto – che per sicurezza avevano fatto leggere a Giulio, che si era trasferito su a Milano e aveva imparato l’italiano meglio di come si impara un po’ sgarruppato nella scuola di Mondragone, e anche Giulio aveva esultato per un contratto che in fondo anche a parole era simile a quello che c’era scritto. Per questo avevano deciso di prendersi il vino, mica quello più buono, ma la qualità subito sotto, ben distante dal vino schifoso e lunghissimo che si bevevano di solito a pranzo. La locanda li conosceva per nome e cognome e si era fidata anche a dargli quattro bicchieri di vetro da portare fino in mezzo alla piazza con la bottiglia impolverata, perché c’è da fidarsi di Michele e quegli altri colleghi suoi, che non creano mai problemi.

Stavano appena stappando il tappo a vite come quello della spuma e ridevano pensando che poi magari un giorno qualcuno sarebbe diventato capoturno, poi magari un giorno, ridevano, avrebbe comprato un vino con il tappo quello vero.

Era stato un attimo e gli altri tre guappi erano già in mezzo. Dammi. No. Forza, dài qua. Ma che vuoi. Festeggiamo anche noi. Facciamo da soli grazie. Lo decidiamo noi chi festeggia qui in piazza. Non ci penso nemmeno…

Ed è stata subito una paranza di botte che facevano più rumore dei bicchieri che rotolavano sui sassi. Tonfi secchi sulle parti molli e il fruscio dei rami secchi quando si pestano con le scarpe, solo che questi erano in faccia, sulla mandibola e sotto gli occhi. Roba forte. Gli scappa anche da ridere, gli scapperebbe se non fosse per quell’angolo della bocca che brucia. Bicchieri come bombe a mano e pugni dappertutto: una sagra. Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchiava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridavano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo che se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto. Picchiava l’odore dell’incenso che cuoceva la bara di sua madre; picchiava suo padre e il vino che gli aveva trasformato il cervello in una crosta incapace d’intendere cosa fosse quel fumo e cosa fosse quella bara; picchiava Giulio che tornava sempre così felice e tuttoaposto che sembrava avere anche perso l’odore di quelli che erano nati lì e aveva il colore delle persone sempreaposto che vivono a Milano; picchiava nonna che non era mai scivolata nemmeno per sbaglio in un abbraccio o un “ti voglio bene” e intanto picchiava anche quel “ti voglio bene” di nonno che è un cappio ogni domenica a fare la zuppa loro due come due vedovi. Picchiava gli indecisi come lui che vivono la vita come si mangiano le unghie; picchiava i prepotenti che tutti li condannano ma alla fine vincono sempre; picchiava la sua scuola così lercia che non gli aveva insegnato il vocabolario per le volte che avrebbe voluto dare un nome alle cose; picchiava la tranquillità che sono vent’anni che la insegue e che dio non chiedo mica tanto e che gli sembra irraggiungibile, nemmeno avesse voluto fare il pilota cacciabombardiere. Picchiava quel prete che ora se n’è andato dalla parrocchia e che si portava le donne nel retro dopo l’ultima messa; picchiava il nonno dei Torre che si faceva restituire i prestiti tra le cosce delle mogli degli altri – e si picchiava anche, per tutte le volte che non aveva avuto abbastanza coraggio; poi picchiava gli infami, i soloni, i tristi a comando, gli urlatori, i maleducati perché prepotenti, i prepotenti maleducati e gli educati a essere bravi prepotenti; picchiava quella sera che sua madre aveva detto di non dirlo a papà e quel mattino che papà gli aveva detto torno e non era tornato.

Solo dopo aveva picchiato Tore, Pino e Ciro. Solo dopo. Soprattutto Tore: l’avevano portato via all’ospedale di Caserta che piangeva e urlava ormai come un pulcino.

«Ritardo! Sei e quarantacinque, cos’hai? Pisciato nel letto?»

È già arrivato al magazzino, ha superato la discesa e il capannone è in fondo alla prima strada a destra. Il capoturno è già acceso sulla modalità scassaminchia.

«Non sono stato bene.» Sembra di essere ancora a scuola. Giustificarsi.

«Lo so.»

Mentre il capoturno parla sbucano alle sue spalle Ciccio e Berto. Hanno gli occhi bassi e tremano. Berto ha un ematoma sulla faccia, sembra un’ombra controsole. Volano le notizie, qui al magazzino, e con queste facce lavate male dal sangue raffermo di ieri sera non è facile fingere.

Ciccio balbetta un avvertimento verso Michele, ma l’aria è così spessa che sbatte prima di arrivare.

«Capo, alla fine siamo tutti qui.» Dio, che difesa debole, vedi che serve studiare.

«Noi non ne vogliamo teste matte, noi vogliamo gente che sistema la merce!»

Forse Berto ora sta cercando di dire che siamo pronti, che mancano i guanti e si entra subito di corsa nel capannone in mezzo alla sabbia ma viene zittito: è bastato un occhio di sguincio. Il capoturno ha la barbetta incolta che vibra come quella di una capra. «Andate a casa.»

Finalmente Ciccio emette suoni e abbozza una difesa: stiamo bene, non c’è problema, sono solo tre pugni, li abbiamo presi e li abbiamo dati tutti da ragazzi, domani si saranno già dimenticati. È sempre il più diplomatico, Ciccio, giù al capannone.

«Andate a casa. Lavatevi. Noi non abbiamo bisogno di ragazzi!»

Il portone si chiude con un glong. Ogni portone suonerebbe la fine esattamente così.

Licenziato poche ore dopo essere diventato indeterminato, Michele non l’avrebbe nemmeno mai potuto immaginare, con quella fantasia piatta che si fermava alla discesa fuori casa.

«Dite che siamo licenziati?»

«Avevo sentito alla radio, mi pare, alla radio hanno detto che ci vuole il preavviso. Che ti avvisano prima.»

«Mica abbiamo rubato. Mica abbiamo ammazzato.»

«Altrimenti che posto fisso è, fisso di che cosa…?»

«Ci ha avvisato? Sì. Ci ha detto di andare a casa? E noi andiamo a casa. O c’è qualcuno che stamattina vuole fare l’eroe? Con la faccia mezza spaccata, pure.»

Nessuno risponde. Prega, Michele. Prega che davvero sia tutto un falso questa storia dell’ultima occasione, perché non è mica normale avere l’ultima occasione che non hai nemmeno diciotto anni e che si è tuffata dentro una bottiglia di vino rosso di mezza qualità. Non aveva pregato mai, nemmeno ai funerali aveva pregato, e questa tanto non è nemmeno una preghiera ma sperare di convincersi a sperare di avere frainteso. Berto ha il sole che batte sull’ematoma e sembra che si faccia ombra da solo.

Ciccio continua a chiedere se davvero sono licenziati ma intanto, senza pensarci, ha cominciato a contare gli spicci nei pantaloni consumati sulle ginocchia.

Non si dicono nemmeno un “ciao” e si dividono innaturali, come se non fossero i tre che si sono difesi dalle stesse botte la sera prima.

La carriera più veloce della storia, pensa Michele. E gli verrebbe da ridere, se non fosse per il solito angolo della bocca. Davanti al portone coglie la differenza tra galleggiare e camminare. Ma dura un attimo: la signora salsa sta già chiedendo come mai è tornato a casa così presto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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