150 anni di Alice: Un vecchio libro di Alice
150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI. (NDF)
di Cristina Babino
a mia sorella Elena
La storia di Alice, tutta la sua fantasmagoria irriverente e perturbante, la associo nella mente a un oggetto preciso. Un libro, e uno soltanto. L’ho recuperato, e con quello i ricordi d’infanzia che ad esso si fondono nella memoria, nella biblioteca della mia casa in campagna nelle Marche. Una casa dove non vivo – risiedo all’estero ormai da molti anni, in quello spazio contemplativo e spesso nostalgico che consente, o impone, la distanza – ma dove ho raccolto su scaffali di legno lucido e pesante tutti i libri che nei miei molti viaggi, traslochi e spostamenti non ho potuto portare con me. E sono tanti. Li ritrovo ad ogni ritorno, mi aspettano nel loro ordine non cronologico, non alfabetico, e neanche troppo tematico, aggiustati sui ripiani a seconda delle dimensioni e dell’altezza dei loro dorsi. Mi piace che la loro disposizione sia gradevole anche all’occhio – o sempre avuto un po’ la fissa delle simmetrie, dell’armonia delle forme. Mi riprometto spesso di cambiare quest’ordine molto poco filologico, di mettere in sequenza tutti quei libri per autore, o più diligentemente per argomento, il che, mi dico, verrebbe tutto a mio beneficio, la ricerca di questo o quel volume sarebbe senz’altro più agevole. Ma poi mi dico anche che i dorsi dei miei libri li conosco tutti, e che comunque mi ci vuole un attimo per riconoscere quello che mi serve, a colpo d’occhio, e a colpo sicuro. Allora a che pro cimentarsi in un riordino lunghissimo e noioso, visto anche il poco tempo che trascorro in quella casa, solo per le parentesi brevi delle vacanze. Quindi è rimasto tutto com’è, anche stavolta.
Il libro è un tascabile, rilegato in brossura, un’edizione Garzanti del 1978 (anni fa ne facevo cenno già qui). Non era originariamente destinato a me, ma un regalo di uno zio a mia sorella Elena. Prova ne è pagina 92: una pagina vuota alla fine del capitolo dedicato alla partita di croquet della Regina, sulla quale campeggia una scritta a penna blu, fatta con calligrafia infantile, che dice: «elena e il libro delle avventure di ALICE». Un suo marcare il territorio, qualcosa che i bambini fanno spesso sulle loro cose, su quelle a cui tengono in particolare.
Ma io l’ho ereditato, diciamo cosi, in quel modo un po’ furbesco con cui in casa ci si scambiano – o ci si prendono – le cose che piacciono. L’ho fatto mio, senza tanti giri di parole. Ho pensato, piuttosto unilateralmente, che l’affezione profonda a quell’oggetto e le memorie connesse bastassero per legittimarne il mio possesso ormai esclusivo e pacifico.
La dedica sul frontespizio recita «Alla meravigliosa Elena, da zio Pino. Natale, 1979». È incredibile, all’epoca avevo appena tre anni e mezzo, ma ricordo benissimo quel Natale, il momento preciso in cui mio zio – pallido e filiforme, coi capelli rossi e le lentiggini sul viso che portiamo in famiglia come un marchio di fabbrica – passato quel giorno per una visita, porgeva questo dono a mia sorella che aveva compiuto da poco otto anni, sotto il grande albero sapientemente addobbato dalla mamma in salone, come ad ogni ricorrenza, e a cui non ci era concesso avvicinarci troppo.
Non so bene se mia sorella conoscesse già la storia di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente mio zio doveva avergliene parlato in precedenza, e il libro in regalo era il coronamento ideale dei suoi racconti. Ma ricordo la felicità e il sorriso aperto sul viso di Elena per quel regalo così piccolo eppure così carico di promesse e di avventure da sfogliare ad ogni pagina. E ricordo la mia curiosità di minuta analfabeta e nuova al mondo per quel piccolo oggetto rettangolare e misterioso. Era l’ultimo Natale di quei difficili anni Settanta – funestati dal terrorismo, dalla crisi energetica ed economica, e la nostra Ancona anche da un terribile terremoto venuto dal mare di cui ancora, nonostante una rapida ricostruzione, la città e i suoi abitanti portano con sé la memoria e le ferite – che ci avevano visto nascere, e ci stavano lasciando crescere. Un paperback poteva ben bastare, al tempo, per renderci felici. E non avremmo osato, comunque, chiedere niente di più.
Sotto il discreto segno a penna blu che pretendeva di nascondere le cifre si può intravedere ancora il prezzo: L. 2.700. La copertina è quella classica dei Garzanti di una volta, incorniciata di arancio e di marrone. Al centro, un’illustrazione a colori tenui che raffigura l’incontro di Alice col Brucaliffo (anzi solo Bruco, nella traduzione dell’epoca di Alfonso Galasso e Tommaso Kemeni). La copertina è scolorita, e un po’ scarabocchiata, ne manca persino un angolino inferiore sulla destra, e ricoperta di striature bianche dovute all’usura, a passaggi di mano infantili entusiaste e poco accorte, a letture avidamente insistite, ripetute; il dorso è consunto in più parti, un sentiero concavo in cui il dito indice affonda per tutta la lunghezza, tenuto insieme alla meglio con uno scotch ingiallito dal tempo e ormai quasi del tutto inservibile, se non fosse per la sovraccoperta in cellophane trasparente con cui anni fa ho provveduto a rivestire il tutto nell’estremo tentativo di salvare il salvabile. Espediente poco estetico, senz’altro, e poco poetico, con l’adesivo giallo che sporge a più riprese dall’interno, ma tutto sommato ancora efficace.
È un libro che oggi sfoglio raramente, con cautela estrema, quasi come sfoglierei un manoscritto antico: le pagine rischiano di staccarsi ad ogni apertura dalla costola della rilegatura, e in molti casi si sono già scollate per una buona metà, assumendo un allineamento sghembo, approssimativo. Per questo sinora l’ho sottratto alle imprudenti mani di mia figlia, distraendola con edizioni meno fascinose ma più recenti, colorate e accattivanti. Riservandomi di passarglielo in eredità, non appena sarà abbastanza grande per capirne il valore, tutto affettivo, genealogico quasi, famigliare.
La carta, corposa sotto i polpastrelli, originariamente già ruvida, sembra essersi inspessita col tempo e ha assunto quella nuance giallo paglierino e quell’odore pungente di umido e soffitta tipici dei vecchi libri economici. Il testo è accompagnato dalle classiche, inconfondibili illustrazioni originali di Sir John Tenniel. Illustrazioni dal tratto infittito, nervoso, che sembrano tradurre nel segno appuntito, spesso spigoloso, tutta l’inquietudine che anima la bambina protagonista delle avventure nel paese delle meraviglie e dietro lo specchio. Sono immagini mai rassicuranti, mai soltanto didascaliche, esplicative, che ritraggono una bambina dai lineamenti invero già adulti, stranamente matura nella sua espressione perennemente imbronciata, sempre scostante, a volte annoiata, e semmai sbigottita, ma mai allegra e neppure sorridente.
Questo mi ha sempre colpito di quelle illustrazioni per un libro che si voleva per l’infanzia: che quella bambina non ridesse mai, neanche di fronte alle trovate più surreali e divertenti – penso al tè col Cappellaio Matto e compagnia, o alle battute sornione del Gatto del Cheshire – che quel nonsense a cui doveva arrendersi il suo ragionamento non fosse mai uno spasso per lei, una ricreazione, piuttosto una prova assurda da superare per approdare all’avventura successiva, come in una specie di raccontato videogame ante litteram (e anche i protagonisti dei vecchi giochi elettronici con cui mi intrattenevo da bambina, a ripensarci adesso, non ridevano mai).
Ad alcune di queste immagini mia sorella, non contenta, aggiunse del suo, colorandone a matita o a pennarello alcuni dettagli: il risultato sono delle illustrazioni ritoccate, un po’ in bianco e nero e un po’ no, simili nell’effetto finale a certi dagherrotipi colorati dell’Ottocento, coi loro toni acidi e l’aria altezzosa e vintage, aristocratica e svagata.
Mia sorella – mai stata una lettrice che diremmo vorace – lesse questo libro per almeno otto volte consecutive, fino all’adolescenza inoltrata. Terminata una lettura, entusiasta, lo riprendeva in mano a intervalli regolari, ricominciava a leggerlo daccapo, fermandosi ogni volta alla fine delle avventure nel paese delle meraviglie perché quelle dietro lo specchio, diceva, non erano altrettanto avvincenti. Sentii così tanto parlare di quel libro, dai suoi racconti rapiti ed eccitati, che appena imparai a leggere mi fiondai sulle sue pagine, rinnovando l’incontro con quei personaggi strambi, dal fascino a volte oscuro, e persino indisponente, celebrando un rito silenzioso, chiuso nel paese intimo della nostra cameretta, di cui lei andava genuinamente fiera.
Sulla quarta di copertina, nel breve testo riportato per attirare l’attenzione del potenziale lettore, Alice viene definita «una bambina perversa polimorfa». Se sul “polimorfa” non potevo che essere d’accordo – è Alice stessa ad ammetterlo a colloquio con il Bruco: «so chi ero stamattina quando mi sono alzata, ma da allora credo di essere cambiata più di una volta» – ricordo la mia sensazione di fastidio, incomprensione, per quel “perversa” che, dopo averne controllato il significato sino ad allora ignoto, mi pareva parola bizzarra, vagamente tendenziosa, insomma inopportuna. Una sensazione che a dirla tutta non mi abbandona neppure oggi, quando ascolto canzoni come The Humpty Dumpty Love Song o White Rabbit, ammiro certe foto di Annie Leibovitz, le splendide illustrazioni di Arthur Rackham del primo Novecento o quelle contemporanee e ambigue di Leonardo Cemak, o mi immergo in lungometraggi che portano il titolo del libro (il vecchio musical del 1966 con Peter Sellers nei panni della Lepre Marzolina, l’intramontabile rivisitazione Disney, la grottesca e un po’ angosciante Alice di Svankmajer, fino al recente di Tim Burton), e penso a quanta ispirazione è nata, e può ancora nascere, a 150 anni di distanza, da questo libro pensato per i bambini – anzi scritto per delle bambine – che tramanda la sua fascinazione più profonda nell’età adulta, che tra i classici è certo il più mobile, destabilizzante, visionario.