Articolo precedente
Articolo successivo

L’impostore di Javier Cercas

di Giovanni Dozzini

L'impostoreIl corpo a corpo tra realtà e finzione è qualcosa che ci riguarda tutti, ossia tutti gli uomini, anche se naturalmente riguarda ancora di più gli scrittori, più in generale gli uomini d’arte ma forse soprattutto gli scrittori. Il nuovo libro di Javier Cercas ha un titolo esplicito e sfrontato che in qualche modo definisce la natura di questo corpo a corpo, o meglio la natura di colui che se ne fa palcoscenico, o ring, uomo o scrittore cambia poco: L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda) è un altro ponderoso tassello della ponderosa produzione letteraria di Cercas, e un libro in cui il narratore spagnolo si avvicina vertiginosamente alla ratio stessa della letteratura, alla sua ragion d’essere e al suo modo di essere e di essere pensata e agita.

L’impostore del titolo è un uomo il cui nome a noialtri italiani dice poco o pochissimo, Enric Marco, e che però in Spagna dieci anni fa esatti è stato protagonista di una vicenda incredibile che a suo tempo godette di un’attenzione mediatica clamorosa. Marco, in poche parole, è stato autore e interprete di un’impostura portata all’esasperazione, arrivando non solo a presiedere la più importante associazione spagnola di ex deportati nei campi di sterminio nazisti senza mai essere stato deportato in un campo di sterminio nazista, ma addirittura a inventarsi, anzi a reinventarsi in continuazione, perlomeno da un certo momento in poi, la propria intera esistenza, e di farlo a favore di telecamera, di penna e di obiettivo fotografico. Fu smascherato da uno storico misconosciuto quando occupava già da anni la più rilevante carica della Amical de Mauthausen, nella primavera del 2005, sul punto di diventare il primo ex deportato spagnolo a parlare in una commemorazione ufficiale della liberazione del lager, per di più quella del sessantesimo anniversario, per di più alla presenza dell’allora premier José Luis Zapatero. Enric Marco aveva ottantaquattro anni, e da più o meno una trentina aveva cominciato la straordinaria opera di riscrittura della propria vita, adoperando la tecnica più elementare ed efficace dei migliori bugiardi e dei migliori romanzieri, e cioè mescolare verità e menzogna, puntando in alto ma senza mai rinunciare a mescolare, facendo crescere la bolla della sua finzione all’inverosimile ma senza mai dimenticare di insufflarci dentro le giuste quantità di realtà. Solo che Enric Marco non era un romanziere, e non stava scrivendo un romanzo. Enric Marco era un uomo che stava falsificando la sua storia.

Marco fu soldato repubblicano ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, si ritrovò in Germania nel cuore della Seconda guerra mondiale ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, diventò prigioniero dei nazisti ma non nel modo in cui l’avrebbe raccontato, e poi se ne tornò in Spagna a fare ciò che bene o male tutti o quasi tutti gli spagnoli avrebbero fatto per quarant’anni, e cioè chinare la testa di fronte alla dittatura franchista dando a intendere di non aver mai nemmeno potuto pensare di essere in qualche modo oppositori del Generalissimo.

La storia di Marco è francamente avvincente ed eccezionale, ma altrettanto francamente per un lettore italiano non può esserlo tanto quanto può esserlo per un lettore spagnolo. Non sta qui, in assoluto, la forza di questo libro. La forza di questo libro cresce pagina dopo pagina, e cresce soprattutto quando Cercas, con la sua prosa complessa e allo stesso tempo limpida e lineare, un’abilità propria dei grandi, quale Cercas indubbiamente è, quando Cercas insomma si cala con coraggio nell’abisso in fondo al quale forse si trova il senso primario della letteratura, e che ovviamente si intreccia in modo feroce e morboso con quello della vita stessa. Cercas non scrive un romanzo, ovvero non scrive un romanzo di finzione ma un romanzo di realtà, e facendolo si mette a nudo senza pudore, svelando le proprie paturnie, il proprio rimuginare e le proprie debolezze, portando in scena la sua quotidianità, anche, la sua famiglia, le sue abitudini.

Di primo acchito potrebbe sembrare un esercizio analogo a quello fatto anni fa col formidabile Anatomia di un istante, ma la verità è che non si tratta di niente di più diverso. Anche in quel caso l’autore di fatto cercava di raccontare una realtà al netto della finzione, però mentre lì Cercas rinunciava come un fallimento a scrivere un romanzo collettivo impossibile qui aderisce a una storia individuale concentrandoci le proprie nevrosi e i propri dubbi esistenziali di uomo e di scrittore, giungendo a comporre quasi un’autobiografia letteraria in forma di romanzo di realtà.

L’impostore a tratti si trasforma in una sorta di processo a se stesso, all’ambizione e alla presunzione di essere scrittore, anche se la sentenza finale non è emessa, come succede nella letteratura di valore. Cercas è narcisista quasi quanto il suo anti-eroe, o non sarebbe uno scrittore, e lo è al punto da evocare, per spiegare o spiegarsi i propri procedimenti creativi, il fantasma di Cervantes. Enric Marco è il suo Don Chisciotte. E a noi sta benissimo così, perché i ragionamenti di Cercas sono piccoli trattati d’arte, di narrativa, di finzione. L’unico passaggio di finzione autentica dell’intero libro, peraltro, il dialogo immaginario tra Cercas e Marco che appare verso la fine, è la scena madre di quel processo, e forse di tutta la produzione di Cercas fin qui. Una decina di pagine, anzi meno, in cui Javier Cercas si fa incalzare e attaccare senza misura, si fa colpire sotto la cintola, dritto sul muso, dappertutto, e prova a difendersi e a contrattaccare come ogni scrittore ragionevole potrebbe o dovrebbe fare ogni santo giorno e ogni santo istante nel cupo turbinio e nella solitudine della propria mente.

Pure qui, si scava nel profondo, in un compendio di tutto ciò che è l’intero libro: menzogna e verità, finzione e realtà, ambizione e bontà, tutto, certo, incastonato nel presente e nel passato recente della Spagna, nella sua recente sbornia per la memoria storica e nella sua incapacità di distinguere tra memoria e storia, nella sua risacca e nei suoi conti lasciati in sospeso. L’impostore è per certi versi il più spagnolo dei libri di Javier Cercas, eppure è anche il più universale. È un grande libro, ricco di idee, un’esplorazione dotta e insieme popolare dell’animo umano e del mestiere di fingere storie.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

“Dear Peaches, dear Pie”. La corrispondenza privata tra Carlos e Veronica Kleiber

di Roberto Lana
Ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare Veronica, la sorella di Carlos Kleiber. Nel corso di uno dei nostri incontri, Veronica mi ha consegnato l’intera corrispondenza con il fratello, dal 1948 al 2003

Funghi neri

di Delfina Fortis
Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario

di Anna Toscano
Osservare, ascoltare, guardare la vita degli altri, assistervi, parteciparvi, lottare. Grace Paley, della quale ricorre oggi il giorno della nascita, era una donna fuori luogo, una scrittrice fuori luogo, una che non amava stare dove la mettessero

Dente da latte

di Valeria Zangaro
A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso

“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno

di Francesca Lazzarato
È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista.

Il Dimidiato

di Astronauta Tagliaferri
È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: