Liguria nomade: Magliani e Ferrazzi

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Un padre e figlio, durante la primavera del ’73 (Marino Magliani)

Questo era ciò che pensava. Se il padre gliel’avesse detto apertamente che così non poteva durare, che se non studiava poteva andare con lui in campagna, il ragazzo avrebbe preferito. Ne poteva nascere un discorso. Ma il padre entrava in casa e taceva.

Non doveva essere facile, pensava il ragazzo. Il padre portava in casa l’odore della campagna, si lavava le mani in cucina e si sedeva al suo posto. La madre serviva la pasta.

Un giorno il ragazzo spiegò al padre che avrebbe potuto capire che stagione era dall’odore dei suoi vestiti. Durante il tempo della falciatura, in agosto, la camicia odorava d’erba e insetti triturati. Erano le giornate lunghe e appiccicaticce in cui il padre puliva le terrazze e tutto attorno odorava di insetti spezzati. D’inverno i vestiti erano pieni di macchie viola e l’odore era quello unto delle olive, ma anche quello della corteccia dei tronchi. A giugno era l’odore del verderame e le braccia restavano azzurre anche dopo averle lavate. A volte, quando era appena stato nell’orto, il padre odorava di acqua irrigua, uno sentiva quell’odore lì ed era come se sentisse il rumore del torrente. Certe volte entrava in casa anche l’odore del concime. Succedeva durante le grandi piogge, perché se il concime si spargeva con la pioggia, il nutrimento penetrava fino alle radici degli ulivi.

Il padre gli aveva detto di piantarla fin dall’odore della falciatura. Ma il ragazzo aveva continuato e dopo un po’ il padre aveva spinto il piatto in mezzo al tavolo e s’era alzato.

Il ragazzo aveva elencato ancora decine di odori, perché ne sapeva molti altri, come l’odore del letame quando si piantavano le patate, o quello della legna tagliata, a novembre, quando il padre entrava in casa con la camicia a quadretti gialla sporca di segatura. Il padre aveva sbattuto la porta e il figlio aveva continuato a elencare gli odori alla madre. I passi del padre s’erano allontanati nervosamente giù per la gradinata, la portiera si era aperta e richiusa, l’auto s’era avviata.

Il ragazzo aveva chiesto alla madre cos’aveva detto o fatto di male. La madre era rimasta qualche istante a guardare i piatti, e aveva sorriso.

«È stanco,» disse. Era come per dire che non era successo nulla. Mise la frutta sul tavolo, guardò il ragazzo che aveva infilzato una mela, e aggiunse:

«Però non gli dici niente…»

«Che cosa non gli dico? Parla, per favore,» disse il ragazzo.

«Ti racconto una cosa ma non gliela dici.»

«Promesso, non gli dico niente.»

«Da ragazzo lo prendevano un po’ in giro con gli odori, in tempo di guerra si nascondeva in un cunicolo… Non vuole che gli parlino di odori…» Non aggiunse altro, non era necessario. Il figlio aveva capito, abbassò le palpebre e annuì.

«Come facevo a saperlo?»

La madre cambiò discorso.

«Potresti riprovare, iscriverti di nuovo a settembre… qualche mese e poi decidi. Non fare come tuo padre… Che per aver mollato la scuola è finito in campagna.»

«Non doveva sbattere la porta… Doveva dirmelo, doveva dirmi guarda che da ragazzo mi prendevano in giro perché puzzavo e allora io non gli avrei più parlato di odori… Mi ha sempre parlato della guerra, mi ha sempre detto tutto, che si nascondeva nei cunicoli, perché non mi ha detto che non aveva piacere a parlare di odori…»

«Te l’ha detto: finiscila, ti ha detto.»

 

 

I miei luoghi dell’anima (Riccardo Ferrazzi)

 

Passo la maggior parte dell’anno in un paesino poco distante da Savona, ma per me la Liguria è ancora tutta da capire. Paolo Conte, che è di Asti, l’ha detto benissimo:Genova per noi/ che siamo gente di campagna/ e abbiamo il sole in piazza rare volte/ e il resto è acqua che ci bagna/ Genova – dicevo – è un’idea…/ come un’altra.Insomma: qui sono straniero, lo so.

Un modo per capire la natura di un paese è osservare la sua cucina tipica, e la cucina del savonese è fatta di primi piatti, minestroni, frittate. I secondi, quando ce n’è, sono di pollo o di coniglio. Al mercato, i banchi dei formaggi straripano di tome e tomini. Che strano! Il mare è lì a due passi ma il pesce è una rarità. I ristoranti sulle spiagge appestano l’aria con l’odore del fritto, ma i totani sono surgelati e le cozze arrivano da Taranto. Qui non si fa né il cappun magro né il caciucco. A Savona si mangia la farinata.

Non è assurdo che da queste parti non esista una ricetta di pesce tipica? (Salvo laburidda, che però si fa con lo stoccafisso. E anche questo è un bel paradosso: mangiare stoccafisso in riva al mare!).

Eppure è così: sulla riviera di Ponente il Piemonte è tracimato fin sulle spiagge. Il sogno dei duchi di Savoia di avere uno sbocco al mare si è realizzato con secoli di ritardo, quando ormai non serve più. Per distinguere i liguri-liguri dai liguri-piemontesi bisognerebbe appostarsi davanti a un’edicola e censire chi compera La Stampa e chi il Secolo XIX.

Il mio problema è che sono più straniero di loro. Ho impiegato anni per abituarmi ai

ritmi placidi della Liguria e ancora adesso ho degli attacchi di frenesia che trovo difficile sfogare. In compenso, quando torno a Milano non reggo più il ritmo. Sono diventato straniero dappertutto; non sono più lombardo, non sono ancora ligure, e non mi sento a casa né qui né là. Però quando sto in Liguria e riesco a entrare in sintonia con il paesaggio mi sembra di rivivere. Basta poco. Basta un raggio di sole.

Per tanti anni sono venuto in Liguria solo in agosto, senza capire, praticamente senza vedere. Capivo tanto poco che dai venticinque ai quaranta non sono più venuto: mi divertivo troppo a lavorare. A quei tempi il lavoro mi portava in giro per il mondo e sembrava assicurarmi tutta la varietà che volevo. Anche quello era un modo per ammalarsi di frenesia.

Il ricondizionamento è stato lungo e faticoso. Ero mentalmente abituato alla Liguria estiva e nei giorni in cui non splendeva il sole mi sentivo defraudato. Poi ho cominciato ad apprezzare la tramontana che pulisce l’orizzonte, il profumo dei pinastri dopo un’ora di pioggia, i colori gialli e lilla delle prime fioriture, il sapore dolciastro dei corbezzoli selvatici.

 

I due racconti (quello di Riccardo Ferrazzi è l’inizio di un testo più lungo) sono tratti da “Liguria Spagna e altre scritture nomadi”, pubblicato da Luigi Pellegrini Editore (2015), nella collana “Itaca Itaca”, curata Mauro Francesco Minervino, e con prefazione di Giuseppe Panella.

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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