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Disquisizioni sul punk

back discharge

di Andrea Inglese

Tutti amano disquisire sul punk, a freddo. Tutti si sono ampiamente nutriti dell’estetica punk, che troneggia come fosse sempre fresca nei grandi archivi dell’immaginario contemporaneo. E gli stilisti a corto di idee, i costumisti di Hollywood in crisi d’ispirazione, i romanzieri di fantascienza, gli sceneggiatori di serie televisive noir, i giovani musicisti che si ostinano a rinnovare disperatamente il rock, tutti hanno facoltà di pescare in quel solaio di fine anni Settanta, di ripassare alla moviola Jello Biafra, di analizzare i prolissi testi di Steve Ignorant, ma ovviamente nessuno è disposto a dare credito al ragionamento punk, assolutamente grossolano, schematico, ottuso. In effetti, il punk come sintomo, è uno dei temi prediletti degli avvenenti critici della cultura. Un tipo con la colla nei capelli, la maglietta strappata, cicatrici sulle braccia, anelli vari lungo il padiglione auricolare, e altri segni distintivi come gli immancabili anfibi a punta rinforzata di metallo, è ancora oggi bene accolto presso qualche brillante saggista, se accetta di sdraiarsi sul lettino, nello studiolo con i volumetti di Foucault e  Žižek in bella vista. Un marcio portatore di sintomi, non più giovane, da un lato, che blatera con la voce roca, e un giovane e silenzioso analista, dall’altro, a sbrogliare la matassa, a glossare finemente. Il minimalismo ideologico del punk, invece, è stato  uno dei suoi punti di forza maggiori. Magnifica, inattacabile, tetragona contropropaganda. Nulla da decifrare, tutto chiarissimo e da prendere in faccia come un ceffone. Di esperti della complessità sottile, gente molto qualificata e plurilingue, ma che parla solo a ragion veduta, ne abbiamo pieni gli studi televisivi e le redazioni dei giornali. È la controparte rassicurante di tutti coloro che sbraitano per erigere forche ai quattro angoli del paese. Quelli sbraitanti tengono bene la piazza, ma uomini e donne della complessità sottile tengono i posti di comando. Di fronte alla poche idee confuse di chi sbraita, e alle tante idee confuse di chi argomenta, la modalità punk proponeva pochi concetti chiari, calati in una veste espressiva devastante. Prendiamo i Discharge, uno dei gruppi più fragorosi del punk inglese fine anni Settanta. Tempo dell’enunciato: due minuti e quindici secondi. Componenti materiali: chitarra, microfono, batteria, basso, sistema di amplificazione. Idee: una. Espressione che veicola l’idea: frase di cinque parole, Free speech for the dumb (“Libera parola per i muti”). Livelli di lettura: due. Il primo metaforico e politico con riferimento a situazioni storicamente determinate: libera presa di parola per coloro le cui vite non contano. Il secondo letterale e millenaristico: i muti finiranno per parlare. La frase-slogan è urlata quattro volte di fila in due momenti della canzone, per un totale di otto ripetizioni del medesimo concetto. Qualsiasi velleità di controbattere a un così grezzo argomentare, introducendo sottigliezza e complessità nel discorso, è completamente impedita dalla quantità di frastuono con il quale i musicisti proteggono l’idea semplice da possibili minacce dialogiche. Per dialogare bisognerebbe venire sotto il palco, nel carnaio dei corpi che scalciano e si tuffano da ogni parte, arrampicarsi sulla scena, e strappare il microfono al cantante per urlarci dentro una brillante e circostanziata replica. Tutto ciò in un concerto punk è qualcosa che si può sempre tentare, a patto di non temere il dolore fisico. L’efficacia contropropagandistica del punk mi sembra che non abbia preso una ruga, e la immagino applicata ad un talk-show attuale, di fattura francese però, più civilizzato di quelli italiani, dove gli sbraitanti si sbracciano sulle sedie come colpiti da scossa elettrica, no, penso a un talk-show che predilige gli esperti di complessità sottile e dove tutti siedono su degli sgabelloni da discoteca, intorno a un tavolo trasparente di forma organica, con delle pareti traslucide alle spalle. Sono i talk-show di seconda serata, con ospiti più o meno fissi, in generi plurisessantenni, che io definisco “teste di morto”, perché senza neanche farlo apposta, senza averci pensato espressamente sul piano del trucco e dell’arredo, o dei consigli di regia, è assolutamente evidente che si tratta di programmi di propaganda con zombie, dove tutti parlano con voce trattata, ma dalla medesima fossa, con il pensiero corporeo completamente spento, e un pensiero giornalistico, afferente a una centralina elettronica ultima generazione, perennemente attivo, monotono, sottile, complesso. In circostanze tali, immaginatevi il semplice esperimento mentale. Una sera, assieme alle teste di morto, vengono invitati in studio i componenti dei Discharge, non quelli di oggi, invecchiati e resi più sottili anche loro, ma quelli del primo album, giovanissimi, per partecipare a un dibattito sulla libertà di espressione. Ognuno degli invitati ha un quarto d’ora di tempo di parola. I Discharge, che sono in quattro, se ne stanno quieti per tutta la prima parte del programma, esibiscono silenziosamente le loro creste, i giubbotti chiodati, e tutto il resto. Poi decidono di prendere anche loro la parola. Per due minuti e quindici secondi, non di più. Si spostano in un angolo dello studio, dove hanno sistemato batteria, chitarre e amplificatori. Infilano i jack e la base ritmica comincia la sua corsa frastornante, il chitarrista cerca di imitare con un certo successo cosa può accadere in un’acciaieria quando tutto comincia ad andare storto, il cantante si è già tuffato sul tavolone di vetro che spero a questo punto sia infrangibile. Free speech free speech for the dumb!!! Free speech freee speech for the dumb !!!, ecc. La cosa dura davvero poco, però qualche testa di morto si è preso una pedata sullo sterno, ci sono cose in pezzi sparse per terra, uno degli invitati sta chiamando polizia e pompieri, gli altri si sono messi al riparo, e protestano indignati con tecnici e truccatori, con le mani ancora tremanti dallo spavento. Non è stata un’agressione fascista, solo un esempio di contropropaganda punk con tutti i crismi. Certo, siamo nella società dello spettacolo, ci ricorda l’avvenente critico della cultura, tutto viene recuperato. Ma un equivalente dei Discharge nei talk-show della sottile complessità non credo che funzionerebbe. Forse gli spettatori risponderebbero positivamente, ma non le teste di morto, loro non si presterebbero al gioco, non ce la farebbero, anche per ragioni di semplice paura animale. Quanto agli sbraitanti italiani, la loro propensione cinetica non farebbe che eccitare ancora di più la furia degli interlocutori punk. Come è noto a chi ha conosciuto il circolo virtuoso della poga (danza punk poco raffinata), più la musica pesta più uno si getta a toro sui corpi vicini, e più il pogatore è spintonato e calpestato più l’adrenalina gli regala la forza per rendere la pariglia. Prima del sangue e delle contusioni, in genere la musica cessa. È anche una delle ragioni della brevità dei componimenti punk. Bisogna salvaguardare, per quanto possibile, l’integrità del pubblico e del cantante.

°

[da Materiali per un libro su Parigi]

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18 Commenti

  1. Il punk sta tutto in una frase, titolo di una loro canzone, degli Wasps: “Can’t wait til ’78”. Un crollo nervoso che ha trovato nell’espressione artistica il suo sintomo articolando spontaneamente un grande NO – bile dell’anima, mentre oggi gli stessi crolli nervosi sono responsabili del boom dei suicidi. Il punk è stato l’ultimo scossone alla società dello spettacolo, che poi non ha più avuto simili affronti dalla collettività, complice l’affossamento sull’individuo della cultura occidentale, l’incapacità di dire “noi” se non per nostalgia prolissa. “Vivere era impossibile”, scrive De Lillo in Underworld, e i punk sono quelli che l’hanno gridato più forte.

  2. gli infezione non li conoscevo, ma un altro dei migliori gruppi di hardcore dell’epoca erano i wretched, che pero’ erano davvero nella scia dei discharge

    https://youtu.be/C9z6RsDsnvw

    la poga? non so se sia una mia variante idiosincratica, ma femminilizzando il termine, lo posso ricondurre alla lunga lista delle danze popolari

  3. Ccm, negazione, indigesti, kina, declino, nerorgasmo, wretched, crash box, raw power, impact, contrazione, i refuse it, juggernaut, eu’s arse, upset noise, underage, peggio punx, bloody riot, chain reaction, quinto braccio, ecc..

    Tutto hardcore/punk italiano.

  4. casi della vita, non passavo qui da molti mesi, e proprio ieri mi ascoltavo con foga Hear nothing see nothing say nothing dei Discharge, e pensavo proprio a Free speech for the dumb, la mia interpretazione più nichilista e negativa è terza rispetto a quelle proposte, però: desolata costatazione di una realtà ove ci si pavoneggia della libertà di espressione, ma essa è una mera illusione e inutilità, libertà di parola per il muto, appunto.
    Penso che questa interpretazione sia più in linea con il pessimismo nichilista insito in tutta l’opera dei Discharge stessi, un pessimismo peraltro politicamente lucido, votato a vivere una vita quanto più distante possibile proprio dal mondo dei talk show e degli opinionisti teste di morto. E’ per questo che, a differenza dei Sex Pistols, che furono un operazione mediatica volta a scandalizzare e monetizzare lo scandalo, non riesco proprio a immaginare i Discharge dentro un talk show televisivo.

  5. al troll pasticcere

    “E’ per questo che, a differenza dei Sex Pistols, che furono un operazione mediatica volta a scandalizzare e monetizzare lo scandalo, non riesco proprio a immaginare i Discharge dentro un talk show televisivo.”

    Non facile certo. Si tratta di un esperimento mentale.

  6. A leggere i nomi delle band italiane citate mi sembra di leggere un manifestino del Virus.

    Certo che sarebbe bello la lezione di poga al corso danze popolari della scuola di mia figlia, in fondo non vedo perché no :-)

  7. Eugenio Lucrezi
    Brigade Strummer come scendiletto

    [uno] La prima volta

    La prima volta – ve lo ricordate tutti – è Topper ad arrivare tardi a piazza Maggiore, lui si è perso o si è andato a chiudere da qualche parte per farsi un buco, e così i Clash cominciano, la prima volta, sotto la pioggia e senza di lui, dopo avere raccattato lo stupefatto batterista del gruppo di apertura e avere lanciato a perdifiato i primi pezzi fino a quando Topper si arrampica sul palco dalla parte sbagliata, irridendo alla scala di pochi gradini che dall’asfalto porta alle assi inchiodate del palco, fa un cenno al batterista bolognese miracolato ed elettrico che fino a quel momento lo ha sostituito in verità egregiamente e si mette a suonare a modo suo, vale a dire con potenza olimpica e senza alcuna frenesia, ché a fare i pazzi ci pensano Mick e Joe là davanti, mentre Topper e Paul, si sa, fanno la ritmica, e la ritmica è appunto potenza olimpica e profonda, cuore tranquillo che pompa, boom boom boom, direbbe John Lee Hooker.
    Loro però non suonano il blues, la musica che fanno è il rock&roll. E uso il tempo presente anche se è un sacco di tempo ormai che non la fanno più, è già una trentina d’anni che i Clash sono andati, spariti dai palchi, la loro musica non è più di questo mondo; e tuttavia dicono gli esperti − mica i fans di allora, la maggior parte dei quali adesso ha la pancia, sta aspettando la pensione ed è in generale abbastanza stanca della vita − dicono gli elettrotecnici che quella musica, uscita al loro tempo dalle radio e dagli stereo di mezzo mondo, non ha smesso di viaggiare nello spazio e potrebbe fare ancora − solo a trovare un’antenna – un gran bel baccano tra le stelle; e chissà dov’è adesso l’onda d’urto di quel concerto a piazza Maggiore, se viaggia tra Giove e Saturno, o se sta dalle parti azzurrine di Urano: magari il muro del suono di quella sera si sta spezzando proprio in questo momento contro una nube di asteroidi sonnolenti da milioni di anni, svegliandoli con una bella scossa elettrica.
    La prima volta finisce, dopo che quelli delle prime file hanno da tempo esaurito la saliva a forza di sputi e di urla, che i quattro scendono dal palco, danno le chitarre ai ragazzi del service e si fanno portare al ristorante; che dopo, insieme a un codazzo di ubriachi, vanno a farsi ancora qualche birra in giro per i bar; che alla fine tornano in albergo che è l’alba, portandosi su nelle camere un ristretto manipolo di amiconi sprovvisti perfino di un sacco a pelo su cui stramazzare.
    Estate dell’80. Che sonno. «I go to bed. You can sleep on the floor», mi dici.

    [due] La seconda volta

    La seconda volta sei tu ad alzarti la mattina presto, ai piedi del letto nella stanza d’albergo dietro piazza Maggiore dove ho passato la notte dopo il festival blues intitolato come una canzone degli Skiantos, che qui − lo sapete tutti − sono una leggenda dura a morire, forse addirittura più dei Clash che pure nessuno, almeno tra quelli che li hanno sentiti nell’80, ha ancora dimenticato, anche se da quella estate sono passati trentadue anni, ed i ricordi di giovinezza sono roba da nostalgici che tirano notte, roba che dopo le solite chiacchiere viene fuori solo a volte e solo quando nessuno ha più niente da raccontare.
    Stanza singola. In verità la stanza prenotata per noi, che siamo un trio, era una tripla, noi siamo abituati alle triple, quando d’estate saliamo al nord a fare quei pochi festival per i quali proviamo tutto l’inverno, a volte con lena, altre, in verità, senza un briciolo di voglia, perché siamo invecchiati e l’entusiasmo non è più quello di un tempo. La tripla, ovviamente, serve per risparmiare, gli organizzatori dei festival sono per lo più ragazzi, studenti e disoccupati, i più fortunati precari e i soldi non ci sono, ma questa volta ci è andata di lusso, in albergo ci hanno dato tre stanze perché è saltato all’ultimo momento un convegno di venditori e le camere, già pagate, sono tutte libere: così l’albergatore, che è un appassionato di blues ed è diventato nostro amico, dopo l’ultimo bicchiere ci ha dato le chiavi di tre singole.
    Così mi sveglio da solo nella stanza la mattina presto, più precisamente mi sveglio perché tu ti sei alzato dal parquet senza fare rumore. Avverto la tua presenza ai piedi del letto e mi sveglio, ti guardo e ti riconosco: sei Joe, Joe Strummer dei Clash come nell’80, solo che adesso nel letto ci ho dormito io e tu sul pavimento. O chissà dove, dato che sei morto dieci anni fa e non sei il tipo da avermi aspettato a Bologna per tanti anni. E poi non è neanche lo stesso albergo.
    Per essere morto nel 2002 hai un aspetto pietoso. Dopo tanto tempo ci si aspetterebbe di trovarsi di fronte un mucchio di ossa sbiancate, o tuttalpiù una specie di mummia incartapecorita color cuoio. Qualcosa di decente, insomma, che potresti trovare in un museo, o nella teca sontuosa di qualche chiesa barocca. Tu invece, di decente, hai soltanto la faccia, quella che avevi dieci anni fa, a cinquant’anni: non molto diversa da quella dei tempi belli, solo un po’ più gonfia e rotonda, per via delle troppe birre. Anche la maglietta che indossi − quella famosa del ’78, rossa, con scritta BRIGADE ROSSE e con la stella a cinque punte − è pulita e decente, ma sulle ossa consumate che ti ritrovi scende tutta sbilenca. Per il resto, sei un cadavere disfatto, una specie di zombie scorticato,
    e mi dici: «Sai, quando ho scritto Should I stay or should I go in realtà ho copiato una canzone di John Lee Hooker». «Boom Boom Boom?». «Proprio quella. Come hai fatto a indovinare?». «Perché voi Clash avete suonato di tutto, il rock&roll e il reggae, il punk e lo ska, il jazz e il dub, avete portato il rock nella kasbah ma non avete mai suonato un cazzo di blues». «Il blues è importante. Lo sapevo anche allora, ma era più importante fare casino, credimi. Casino e politica contro gli imperialisti. Della Thatcher avevamo le palle piene». «Ti capisco. Anche io nel ’78, quando, in autobus, sentii dire che le Brigate Rosse avevano rapito un importante uomo politico, non riuscii a trattenere un sorriso». «Sai, questa maglietta mi creò un sacco di casini, nel ‘78». «Lo lessi sui giornali». «Mi fecero sentire un idiota». «Anche io mi sono sentito un idiota, dopo che mi scappò quel sorriso». «Sono venuto per questo, per dirti che non devi sentirti un idiota, dopo tutto questo tempo». «Grazie Joe. Lo sai che oggi compio sessant’anni?». «Sono venuto anche per questo, per farti gli auguri», mi dici, e mi chiedi una sigaretta.
    Chissà che te ne fai, con quei polmoni a brandelli che ti ritrovi, sotto la stella.

    [da “Lo stato delle cose”, n.1 2015, Oèdipus edizioni, Salerno]

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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