Kafka e i filosofi
di Eugenio Lucrezi
Carmelo Colangelo, Una rotonda sul male. Kafka allo specchio dei filosofi, d’if, Napoli 2014, p.206.
Frutto della rielaborazione di lezioni che Colangelo ha proposto in occasione di un ciclo dedicato al tema del male nella ricezione filosofica dell’opera kafkiana, questo libro è il terzo di una collana intitolata “i saggi del cuore”; collana delle edizioni d’if di Nietta Caridei che è già un piccolo classico nel campo di una «critica appassionata che, se non conosce altro lavoro che non sia quello sul testo, nondimeno non saprebbe come altro onorarlo se non riprendendo la strada maestra della sua narrazione» (si legge nel risvolto di copertina). Una rotonda sul male arriva dopo i saggi su Gadda e su Joyce di Gabriele Frasca, che hanno ben inaugurato la sequenza, e viene non solo a testimoniare – ci dice l’autore nell’”avvertenza” – «la disponibilità di pensatori e critici a lasciarsi imbarazzare dalla produzione dello scrittore praghese», ma anche per offrire ai lettori, sottotraccia, «indicazioni sui modi attraverso cui l’intenzionalità filosofica contemporanea, lasciandosi alle spalle le stabilizzazioni morali tradizionali, ha individuato materiali in grado di favorire un’invenzione etica all’altezza degli enigmi del presente».
L’autore insegna Etica e non poteva non imbattersi nel «più grande moralista del Novecento» (Baioni). Già gli esergo posti a sentinella del libro pulsano quali sistole e diastole del motore circolatorio dell’opera kafkiana: per primo, il Sebald de Gli anelli di Saturno, colto lì dove sancisce che Descartes, «scrivendo uno dei più importanti capitoli della storia della sottomissione», insegna che è necessario distogliere lo sguardo dalla carne, «in quanto incomprensibile», per rivolgerlo alla macchina, «già installata in noi, ovvero a ciò che si può senz’altro comprendere»; per secondo, il famoso passo dei Diari in cui K. descrive il sentimento che prova il giovane che si sa perduto e tuttavia si rallegra fino «alla gioia, alle lacrime» nell’assistere all’arrivo dei soccorritori.
Il primo esergo ci dice ciò che Kafka fa: raccontare l’umano guardando alla macchina. Avendo però egli scelto di raccontare ciò che vede con gli strumenti della letteratura, che non illustra ed esplica ma piuttosto rivela l’inesplicabile opacità di ciò che si mostra come figura, non può che vestire, nelle sue narrazioni, il comprensibile con l’incomprensibile: Kafka dunque lascia al palo Descartes, completa il giro e riveste di carne la macchina.
Il secondo esergo ci dice lo sdoppiamento del soggetto che si vuole scrittorio in un’entità che è insieme l’«uno» che è perduto e «l’osservatore» che «non si rallegra perché viene salvato – non viene punto salvato – bensì perché arrivano altri giovani fiduciosi, pronti alla lotta, ignari di certo di ciò che si prepara»; e ancora ci dice il terzo soggetto che con tale entità duplice entra in relazione, costituito dai “giovani fiduciosi” che arrivano in soccorso. La triplice polarità di questo passo pare alludere, ma con una curiosa inversione e dunque rovesciandone gli assunti, ad un altro passo dei Diari riportato a p.73 del saggio, lì dove leggiamo «della verità di chi agisce e della verità di chi riposa. Nella prima il bene si distingue dal male; la seconda non è altro che il bene stesso e ignora sia il bene che il male. La prima verità ci è concessa realmente, la seconda possiamo solo intuirla». La condizione umana è infatti da iscrivere, nella lettura di Kafka del Genesi, «nella situazione di colpevolezza senza colpa in cui […] gli uomini sono posti dalla macchia della violazione edenica» (p.69). Colangelo rileva che «il luogo del testo veterotestamentario che più suscita l’interesse dello scrittore è il riferimento alla presenza nel giardino edenico di due alberi: non solo l’albero della conoscenza del bene e del male, oggetto dell’esplicito interdetto divino, ma anche l’albero della vita (Genesi 2 e 9)». A proposito degli alberi, Kafka scrive: «Perché ci lamentiamo del peccato originale? Non è per colpa sua se siamo stati cacciati dal paradiso terrestre, bensì a causa dell’albero della vita, affinché non ne mangiassimo i frutti» (p.70). L’uomo è stato allontanato da Dio non perché ha mangiato il frutto della conoscenza: tale gesto lo ha infatti avvicinato al creatore; la vera separazione è effetto dell’impossibilità di assaggiare l’albero della vita, di abitare “la verità di chi riposa” che noi, tenutari della “verità di chi agisce”, possiamo solo intuire. Di quale verità sono dunque tenutari i giovani fiduciosi che arrivano a salvare chi non può essere salvato? Essi sono ignari, e dunque dovrebbero abitare la verità che riposa: ma non si riposano affatto, al contrario s’industriano. L’entità uno-osservatore, invece, è consapevole del male irrimediabile, e pertanto sarebbe da ascrivere nel novero dei tenutari della verità che agisce: ma l’entità agisce anch’essa in modo contrario a come ci si aspetterebbe: assiste all’arrivo dei suoi inconsapevoli “salvatori” in posizione di riposo.
Che ci dice, dunque, questo esergo, a proposito delle due verità? Ci dice che entrambe sono inesatte e insieme esatte, proprio come le due profezie che arrivano ad Adamo da Dio: «il giorno in cui ne mangiassi [dell’albero della conoscenza], di certo moriresti» (Genesi 2 e 7), e dal serpente: «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio» (Genesi 3 e 5). Inesatte perché «gli uomini non morirono, ma divennero mortali, e non diventarono simili a Dio ma acquistarono una indispensabile facoltà di divenirlo»; esatte perché «non morì l’uomo, ma l’uomo paradisiaco; essi non diventarono Dio ma acquistarono la scienza divina». Così si spiega la curiosa inversione di cui si diceva a proposito del secondo esergo: nell’allusione «alla condanna ad una vita senza vita» (p.72) e insieme ad una morte senza morte: «La condanna divina alla mortalità consisterebbe nel non consentire altra vita umana se non quella legata all’obbligo per la specie di ripetere i gesti gravosi – insensati nella loro continua ripetizione – attraverso cui essa provvede alla propria sussistenza» (p.73). Assunti rovesciati, dunque, come bicchieri di esistenza sopportabile svuotati nella brocca inaccogliente della letteratura (o anche negazione del piacere per il piacere superiore dell’ubbidienza al diniego superegotico, direbbero i freudiani. Ma Kafka, che ha letto l’opera di Freud e non si è appassionato, considera la terapia analitica un errore, e in generale la passione per la malattia [a causa della malattia e in sua devozione] un’inaccettabile forma di dipendenza materna) (patire il Padre è invece altra faccenda).
Nel libro, Colangelo si sofferma su quanto hanno detto intorno al praghese e al suo lascito Benjamin e Adorno, Blanchot e Sartre, Bataille, Canetti, Camus, Arendt, Deleuze e Guattari, Barthes, Starobinski, Fortini, Lacan; allo svariato intreccio di tali riflessioni aggiunge, di suo, il bisturi implacabile di un’interrogazione che affonda nei racconti e nei romanzi, nelle Confessioni e diari, nelle Lettere, nelle Relazioni; e non c’è dubbio che leggere questa Rotonda sia estremamente nutriente per quanti siano interessati alla storia del pensiero nel “Siècle de Kafka”. Un lettore di poesia come chi scrive, poi, una volta affrontatolo, non riesce quasi più a separarsene, da questo libro azzurrino come sangue venoso in risalita verso un cuore (non a caso la collana si chiama come si chiama): per aderenza e affetto al suo soggetto, è lineare e vertiginoso, opacamente luminoso e appetitosamente indigesto come la poesia stessa, peraltro mai nominata. «…Non so, / chi mi parla, che cosa? come? / dove o quando? Non è dunque / nulla l’amore? Oppure tutto? / Acqua? Fuoco? Bene? / Male? Vita? Morte?» scrive W.G.Sebald nel poema Secondo natura, qui nella traduzione di Ada Vigliani.
Magnifico articolo come, suppongo, magnifico sia il libro (per ricalcare le tue parole), e altresì complicato, nodoso, quanto al contempo “sciorinato” e analizzato nella piena etimologia del termine (anàlysis, ricorderai è lo scioglimento).
“Un lettore di poesia come chi scrive, poi, una volta affrontatolo, non riesce quasi più a separarsene, da questo libro azzurrino come sangue venoso in risalita verso un cuore”
Non posso che seguire il tuo -accorato- suggerimento.
non ricordo, A., se la tua recentissima laurea è i lettere o in filosofia… cmnq il mondo è opaco nei suoi svogimenti letterari e nei suoi svolgimenti filosofici, lo dice il ragazzo di praga nelle sue incessanti declinazioni dolorose. è come se k. dicesse che il guasto umano corrisponde all’infiorescenza di un intelletto capace di discernimento e di coscienza… colangelo tenne un paio d’anni fa dei seminari alla fondazione premio napoli, era in corso l’elaborazione del libro e l’autore volle regalare a un pubblico non accademico un’illustrazione del suo lavoro in corso. partecipai a un paio di quegli incontri, la sala era, ahinoi dolorosamente, semideserta. colangelo parlava però, pleno corde, ad una sala piena. è un allievo di starobinski, traduttore e curatore di non poche opere sue nel nstr paese.
Non ho letto il libro di Colangelo ma l’articolo di Lucrezi invoglia senz’altro alla lettura, sapendo, sperando, che “la colpevolezza senza colpa” che il male e quell’intuizione resa leggibile nei due “esergo” così presente, così confusamente presente nella “macchina già installata” possano essere percepite,
quasi restituite ad una sapienza diversa. Noi e il male di cui proviamo imbarazzi in fondo abbiamo entrambi bisogno di parole.
k. sembra dire che il male e la pronuncia del male e del bene siano sovrapponibili
A di là del pur interessantissimo argomento, la tua scrittura possiede in sè una grande forza. Da essa traspare il poeta che sei!
«della verità di chi agisce e della verità di chi riposa. Nella prima il bene si distingue dal male; la seconda non è altro che il bene stesso e ignora sia il bene che il male. La prima verità ci è concessa realmente, la seconda possiamo solo intuirla». Kafka è Kafka è Kafka, tornare ai fondamentali non fa mai male, thx Eugenio per la segnalazione
Libro assolutamente da leggere, mi pare. Guardando al K. uomo, più che allo scrittore, ci vuole un’immensa onestà intellettuale per ammettere l’opacità del mondo e l’incomprensibilità di questa vita (o meglio: non-vita). Elementi che K. ha reso benissimo in letteratura, attraverso la sua forza e capacità di disiscrivere e svincolarsi dalle parole, creando in questo modo un linguaggio e un’intuizione del mondo davvero nuovi.
Colangelo ha letto Kafka. Leggere Colangelo per leggere Kafka.