La terra bianca
di Giulio Milani
Dal Corriere Fiorentino Online:
La costa apuo-versiliese rappresenta da sempre, per i toscani e non solo, una terra tanto frequentata quanto enigmatica. Il romanzo d’inchiesta di Giulio Milani uscito in questi giorni per Laterza, “La terra bianca”, ci fa conoscere una realtà complessa, che parte dalla famigerata esplosione del serbatoio di pesticidi della Farmoplant del 17 luglio 1988 – evento ribattezzato dalla stampa di allora “la Caporetto del turismo” – per arrivare al braccio di ferro sulle cave che ha tenuto banco in questi mesi. Attraverso il racconto dei cavatori, degli anarchici, dei soldati apuani in Russia e dei partigiani, dei lavoratori del polo chimico e degli ambientalisti, Milani affronta in modo inaspettato, unendo ricerca storica, testimonianze e ricordi personali, il tema del conflitto tra ambiente e lavoro, o meglio “tra interessi collettivi e interessi privati”: a Massa Carrara come nel resto d’Italia pare si debba sempre aspettare il disastro per chiudere il discorso, anche se nel libro compare una terza via tra incidente e sabotaggio ambientalista. Così scopriamo che il vero business del marmo non sono i blocchi, la pietra che piaceva a Michelangelo, ma il carbonato di calcio che si ricava dalla polverizzazione delle Alpi Apuane: ogni anno ne scompaiono 9 milioni di tonnellate, producendo più costi sociali che benefici: la provincia è “al 76° posto della classifica nazionale per la qualità della vita, per il tasso di disoccupazione al doppio della media regionale, per il degrado urbano e il dissesto del territorio”. Ma non è questo l’unico tema di un libro che racconta tre generazioni di apuani, dal primo dopoguerra fino a giorni nostri, mettendo in scena saga familiare, epica del lavoro, conflitto generazionale e un disperato amore per la propria terra. Anche questa è Toscana.
Mauro riprese il filo del suo ragionamento non appena ebbe ordinato una grappa. “Comunque”, considerò, bagnandosi il baffo, “dalla fine dell’Ottocento la tecnica dell’esplosivo fu rimpiazzata quasi completamente dal filo elicoidale”. Errichetta volle saperne di più e Mauro le spiegò che il filo elicoidale era un dispositivo per il taglio del marmo costituito da una funetta formata da tre fili di acciaio, avvolti a elica e di lunghezza variabile, che poteva raggiungere i 1.500 metri per i grandi tagli. In un’ora di marcia un filo poteva segare, in media, sessanta metri cubi di pietra: veniva fatto scorrere a una velocità di cinque, sei metri al secondo, e il taglio del blocco era alimentato da una miscela abrasiva di acqua e sabbia silicea.
“Mio nonno Gardenio mi ha raccontato di aver usato il filo elicoidale fin quasi al momento di partire soldato, appena prima della seconda guerra mondiale. Questo dimostra che nelle cave, specie in quelle più piccole, le tecnologie entrarono molto lentamente. Per anni gli strumenti indispensabili del lavoro sono stati forza, coraggio, una buona dose di esperienza e la dinamite”.
“Quelli sì che erano uomini”, ghignò Errichetta sorbendo allegra il suo cordiale.
“Puoi ben dirlo”, s’inorgoglì lui, dando forse a intendere che ne discendeva. “Dopo la varata entravano in scena i riquadratori, per esempio, che a suon di subbia e martello cercavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quegli uomini dovevano avere una forza e una pazienza fuori dal comune. Mio nonno mi raccontava di aver conosciuto un vecchio che aveva lavorato ai tempi in cui il marmo lo segavano a mano. Ma ci pensate? L’avete mai vista una sega del genere?”.
Lasciai che Errichetta scuotesse la testa.
“Sapete come funzionava? Era una lama d’acciaio senza denti e veniva applicata su un telaio di legno manovrato per aria con le carrucole: due uomini da una parte e due dall’altra. Un lavorone. In un giorno se ne poteva segare quattro dita. Per segare un blocco ci volevano dei mesi! E non erano certo blocchi grandi come quelli che fanno ora, due metri per quattro, alti uno, ma blocchetti che si portavano in collo…”, rise. “E poi c’era il discorso del trasporto, ovviamente. Un capitolo a parte. Una volta riquadrati, infatti, i blocchi dovevano scendere a valle. Il lavoro, anche qua, era tutt’altro che semplice…”. E ci spiegò come, ai tempi di Michelangelo, per portare a valle i blocchi di marmo, c’era soprattutto un modo: farli rotolare giù, senza alcun controllo, sopra un “letto” di detriti. Questo rudimentale metodo di trasporto, che si chiamava “abbrivio”, era talmente pericoloso che verso la fine dell’Ottocento fu vietato per legge. Ma prima di arrivare al trenino a vapore – la “ciabattona”, come l’avrebbero chiamata –, c’era la “lizzatura”: “Sapete tutti, più o meno, come funzionava, un sistema vecchio di duemila anni: consisteva nel mettere i blocchi di marmo sopra una slitta ricavata da tronchi di faggio o di quercia e di farli scorrere verso valle. La ‘lizza’ era formata da diversi blocchi di marmo tenuti insieme da robuste corde di canapa, che servivano anche per far scendere lungo tutto il percorso l’intero carico”.
Alla lizzatura partecipavano in parecchi: era un lavoro di squadra davvero rischioso e Gardenio vi aveva preso parte diverse volte. Davanti a tutti c’era il capolizza, che aveva il compito di controllare che la discesa procedesse per il meglio. Era un compito delicato, e veniva affidato all’operaio più esperto. Era lui che disponeva i “paràti” sul terreno davanti alla lizza, e dava il segnale ai “mollatori” di allentare o stringere i cavi al momento giusto. “I paràti, poi, non erano altro che robusti pali di legno circolari, che venivano aggiunti anteriormente, mano mano che il carico scendeva, consentendogli di scivolare senza incontrare ostacoli. Un’altra figura molto importante nella lizzatura era appunto ‘l’uomo del piro’, chiamato anche ‘il mollatore’, che aveva il compito di mollare lentamente le corde in modo che il carico scendesse senza prendere velocità e fare danni. La lizzatura era una delle fasi più rischiose del lavoro in cava. Se il carico si liberava dalle corde e prendeva velocità, chi stava intorno veniva travolto. E questo, purtroppo, è successo più volte”. E qui Mauro ci spiegò come, a parer suo, il sentimento genuino dell’anarchia, un vero e proprio “distillato apuano”, avesse potuto svilupparsi proprio tra questi sfruttati.
“Nel lavoro in cava”, proseguì, “per esempio in quello del tecchiaiolo, si sperimenta la solitudine dell’individuo davanti alla morte, la sua irriducibile singolarità; ma nello stesso tempo ci si rende conto di come la propria vita sia legata alle mosse degli altri, alle loro manovre e capacità complessive, a una rete di solidarietà e cooperazione, come per esempio avviene nella lizzatura”.
Il lavoro di squadra della lizzatura, in ogni caso, finiva nel momento in cui il carico arrivava al “poggio”, che era il luogo dove i blocchi di marmo venivano liberati dalle corde e caricati sui carri trainati dai buoi. Così il marmo veniva portato a valle e da lì smistato verso varie destinazioni: Gardenio ricordava una miriade di botteghe artigiane, scultori o segherie tra Carrara e la Versilia, tutto un rumoroso indotto che adesso non esiste più, spazzato via tanto dall’impennata della richiesta del carbonato di calcio, ovvero del marmo polverizzato, al posto dei blocchi per l’uso ornamentale, quanto dall’incremento dell’export dei blocchi ornamentali sulla piazza estera, dove gli acquirenti hanno i loro opifici con costi di lavorazione ben più bassi.
“Il mondo che ha conosciuto mio nonno non esiste più. Col passare degli anni, le tecnologie hanno cambiato la cava. L’hanno resa più accessibile e soprattutto meno pericolosa. Meglio precisare: meno pericolosa rispetto a com’era una volta, perché la sicurezza in cava è un ossimoro, e gli incidenti accaduti anche di recente dimostrano che quello del cavatore rimane ancora il mestiere più a rischio”. L’uso degli esplosivi si è fortemente ridotto, e il filo elicoidale è ormai un oggetto da museo. L’avvento del filo diamantato permette di tagliare pezzi di monte a una velocità incredibile: se una volta per fare un taglio ci voleva un mese e mezzo, lo stesso taglio si fa adesso in tre, quattro giorni. “Il filo diamantato non so se l’avete visto, è fatto come una collana di perle: e infatti quei cilindrini che vengono infilzati sul cavo si chiamano ‘perline’, e sono dei piccoli diamanti artificiali, distanziati tra loro da minuscole molle. Unico grave inconveniente di questo metodo di lavoro è che le perline, quando si rompe il filo, partono come proiettili. Per questo gli addetti devono sempre stare a distanza, con la macchina in movimento”.
Quando approdarono in cava le pale meccaniche, gli escavatori sui cingoli e gli altri mezzi per il sollevamento dei marmi, furono messi da parte anche i buoi che ai tempi di Gardenio trasportavano i blocchi di marmo.
“Oggi una pala media solleva senza sforzo blocchi di trenta tonnellate, e in breve tempo, a seconda della perizia del manovratore, li carica sul camion. Anche le figure professionali della cava sono cambiate. Tecchiaioli e lizzatori non esistono quasi più; il capocava un tempo era l’indiscusso uomo di esperienza, che decideva tutto, mentre oggi è affiancato da un ingegnere minerario che ha il compito di dirigere i lavori, e controlla se il ‘piano di coltivazione’ della cava viene eseguito correttamente. Gli operai, inoltre, sono diventati sempre più manovratori di macchine. Oggi, un bravo ruspista che sa sistemare il blocco sul camion equivale a un gruppo di esperti lizzatori di un tempo”.
“In questo modo”, dissi io, “sono riusciti a portar via dalle montagne, negli ultimi vent’anni, l’equivalente di un’era geologica. Puoi apprezzarne l’effetto anche su Google Earth, i forzati della mistificazione lo chiamano ‘white impact’, ‘impatto bianco’. La tv tedesca, invece, una volta è venuta qui per girare un documentario e l’ha definito ‘il più grave disastro ambientale d’Europa’”.
“A me è sempre piaciuta la terminologia tecnica”, intervenne Errichetta, seguendo un suo ragionamento. “I ‘piani di coltivazione’, gli ‘agri marmiferi’, la ‘coltivazione degli agri marmiferi’, neanche parlassimo di pomodori: la tecnica, come sempre, si finge neutra e invece è schierata”.
“Tra le differenze di rilievo c’è anche quella del trattamento economico: oggi, un operatore di cava specializzato ha una paga più che dignitosa. Se piove è protetto dalla fiscalità generale col regime della cassa integrazione per maltempo. Per non parlare del nero che entra in tasca anche a loro. Una volta capitava perfino che i cavatori, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, andassero per boschi a raccogliere castagne o nel campo a coltivare l’orto, e magari con l’aiuto dei familiari rigovernavano le bestie”. E poi c’è il discorso sicurezza. Inesistente. “Il lavoro in cava è molto rischioso ancora oggi a causa degli incidenti. Rispetto al passato esistono ovviamente norme di sicurezza maggiori, che prevedono l’uso di caschetti, calzature antiscivolo, occhiali protettivi, cuffie per le orecchie, senza contare il fatto che è venuto meno il trasporto con la lizza, pericolosissimo a causa del peso dei blocchi ma anche dei pìri, dei paràti e dei cavi, che spesso si rompevano e vibravano nell’aria, colpendo gli addetti intorno. Mio nonno aveva visto morire parecchi compagni nei modi più diversi… Una volta era per la via di lizza, in fondo c’era un ponte per attraversare il fiume e si ruppe il cavo: un morto e due feriti, di cui uno grave che morì più tardi. Un’altra volta l’incidente fu provocato da una varata. Avevano previsto la ‘mina’, come chiamavano l’operazione con la dinamite, per il sabato, e quando fu sparata la mina, il capo prese la corda per calarsi con le funi lungo la tecchia e controllare da vicino gli effetti dell’esplosione ma venne giù una lastra e ‘lo spanciò’. In un’altra occasione, mio nonno mi raccontò di un cavatore che tirava l’argano, ma scappò un ferro e lo trafisse”.
Per Mauro vedere i propri compagni di lavoro morire in quel modo, o restare invalidi per sempre, doveva essere un’esperienza drammatica, accettabile solo all’interno del paradigma di una cultura sacrificale.
“Oltre agli incidenti legati al taglio, al trasporto o all’esplosione di mine, c’erano anche danni che si manifestavano più avanti nel tempo, ovvero quelli connessi all’inalazione di polvere di marmo, che contribuiva allo sviluppo di malattie polmonari come la silicosi, o quelli collegati al tremore continuo delle mani e delle braccia, provocato dall’uso dei martelli pneumatici protratto negli anni. Altri tipi di problemi andavano a carico dell’apparato uditivo: i continui rumori, ma soprattutto le forti esplosioni, causavano danni permanenti. Ma erano tutte cose che non venivano neppure calcolate: le preoccupazioni dei lavoratori di allora erano legate alla stretta quotidianità e alla semplice sopravvivenza. Gli uomini lavoravano come bestie e le donne si occupavano della casa e dei bambini. Anch’io mio padre l’ho visto sempre poco, in casa, come lui aveva visto poco mio nonno e mio nonno il suo. La dimensione del lavoro era totalizzante, una divinità sanguinaria che richiedeva sempre nuove vittime. Come soldati in guerra: non erano nient’altro che sacrificabili soldati in guerra, che ogni giorno dovevano soltanto badare a come riportare a casa la pelle”.
[…] Mauro ricordava con piacere i racconti del nonno, soprattutto perché quei racconti erano un tutt’uno col ricordo della sua infanzia in campagna, gli unici ricordi belli che riteneva di avere. Il ricordo di come suo nonno sarebbe partito per la guerra, per esempio. Il racconto cominciava sempre col discorso che in quei giorni, a Massa, sembrava che gli addetti del distretto militare avessero deciso di destinare tutti i soldati di leva nelle truppe di montagna. Lui poteva avere sei, sette anni quando sentì per la prima volta la storia: il treno che avrebbe condotto suo nonno, insieme agli altri soldati di leva, a Cuneo, era un serpente di carrozze sotto il sole acceso della prima domenica di marzo.
Fra meno di cinque mesi Gardenio avrebbe compiuto ventun anni, e la sua destinazione era presso il IV reggimento artiglieria da montagna, comando gruppo Mondovì, della divisione Cuneense. Tutte le volte che negli ultimi tempi gli era capitato di pensare a Cuneo, non aveva saputo tanto bene che cosa pensare. Ai parenti e agli amici che gli domandavano dove si trovava Cuneo e che cosa significasse far parte di un reggimento di alpini, lui non aveva saputo cosa rispondere, perché era nato a Massa e, a Massa, aveva sempre vissuto. Non sapeva che cosa fosse la naja alpina e non sapeva neppure che cosa fosse davvero l’esercito. Del resto, dall’età di quindici anni aveva sempre e soltanto fatto il cavatore e ora, sotto le pensiline della stazione, guardando la marea di familiari e fidanzate che accompagnavano i partenti, gli faceva un certo effetto pensare che alla fine di quel viaggio si sarebbe trovato davanti agli occhi lo splendore di nuove montagne coperte di neve.
[…] La quota da riconquistare era il sommo di un modesto colle, un’onda appena distinguibile dal mare di colline che increspavano quel tratto di steppa ghiacciata, ma l’unica scarificata all’osso dai bombardamenti. Dal colle scendeva il canalone, quasi il colle fosse franato. Gardenio fu mandato di rincalzo ai mitraglieri della 20a compagnia, che entrò in combattimento per prima. Le batterie della 115a compagnia avevano preparato il terreno concentrando il fuoco sulla cima. Il plotone fucilieri si portò sulla sinistra alla base della quota, poi fu il turno del suo. Il suo plotone avanzò come facevano gli altri, come avevano imparato a fare nei campi d’addestramento dietro casa. Una squadra sulla destra, una al centro, l’altra a sinistra. Il capitano stava in testa, al centro. Salivano ad ali alternate: “Avanti la prima!”, gridava il capitano, e la prima squadra faceva dieci metri e si buttava a terra. “Avanti la seconda!”, e la seconda faceva dieci metri e si buttava a terra. Visti dal basso, parevano i movimenti d’una squadra di calcio per arrivare a rete. Ma c’erano due mitragliatrici russe, sulla sommità del colle, con gli scudi pesanti. Loro salivano allo scoperto, e le mitragliatrici incrociavano i tiri e sparavano addosso.
Ogni ora che passava, le razioni di cibo aumentavano, per via dei morti. Per tre giorni e due notti, l’attacco alla quota venne portato sempre dalla stessa direzione, sempre dallo stesso lato. Non vi fu nessuna manovra diversiva, nessun accerchiamento, nessuna tenaglia. Salirono sempre frontalmente, una squadra dopo l’altra, sedici uomini alla volta, e sempre da sinistra a destra. Gli attacchi e i contrattacchi non si contavano più. Squadra per squadra, reparto dopo reparto, di tre compagnie impiegate era rimasta, a sera del secondo giorno, la forza di due sparuti plotoni. La mattina del terzo giorno sbucarono, come da una quinta teatrale, due carri armati tedeschi. Dove s’erano nascosti tutto il resto del tempo e perché non li avevano impiegati prima? Dietro i due carri avanzava, le schiene curve, un plotone d’alpini appiedati. Un plotone dalla forza di una squadra, non più di quindici uomini. Raggiunsero la cima del colle senza che le mitraglie potessero impedirlo, riconquistarono la quota senza sparare un colpo. Poi, più nulla. Il contatto con la linea avversaria si ridusse a brevi scambi di raffiche. Un giorno arrivarono due aerei nemici e mitragliarono. Un altro giorno… Non si sapeva cosa ci fosse davanti, non si sapeva cosa fosse successo alle spalle. Si sentiva, solo, un lontano tambureggiare, come il rumore di un temporale distante, e ficcando gli occhi dentro l’orizzonte, la notte, riuscivi a vedere i fuochi: lì c’era Stalingrado.
[…] La terra bianca che aveva intorno era come un paesaggio di cava rischiarato dalla luna. E pensò che dal lavoro alla guerra non era cambiato nulla, la morte era sempre con lui. E non c’era niente che lo trattenesse, non lo zaino affardellato, non la giubba, non la coperta che si teneva sulla testa, non il fucile, nessuna cosa oltre l’abisso di neve e lo scorcio improvviso del ponte, dritto davanti a lui, che nel chiarore dell’alba si slanciava oltre il nulla. Per la paura sentì i capelli drizzarglisi in testa, ed ebbe la sensazione di poterli contare: a metter giù due passi svelti era troppo, uno era troppo poco, non sapeva più come camminare. Pensò di buttarsi a terra e di staccare le mani dalla coperta, d’infilarle in tasca per mangiare qualcosa. Non c’era luna né stelle, era la neve che, cadendo dalla schiuma del cielo, portava indietro il brillio che rischiarava la notte. Avanzava e teneva d’occhio il tratto di pista che lo separava dal ponte. Ne vedeva i pali di segnalazione, neri, col fascio di paglia legato ognuno alla cima, che simili a un misterioso dispositivo d’aste da pesca semisommerse parevano pronte a scattare, quando la preda fosse risalita, per riempire le reti. A tratti sentiva i piedi che sprofondando sfioravano uno strato più molle, e immaginava qualcosa fuggire con bagliori biancastri; altre volte incespicava sopra un guscio di ghiaccio e le caviglie scartavano come afferrate. Vedeva il ponte che s’avvicinava, e pensava allo strano destino, prima ancora che tragico o beffardo o altro, che lo aveva protetto fin lì. Ed ebbe il vuoto davanti, il ponte sgombro che l’aspettava, e continuò deciso in quella direzione.
Giulio Milani, La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri (Laterza, 2015)