Nannetti

Il peso della parola / su Nannetti di Paolo Miorandi

di Mariasole Ariot

BIANCHI RUMORII,associati,
radiali
passaggi
sopra la tavola
con il messaggio-nella bottiglia
(P. Celan)

Un libro come un muro lungo 180 metri per 2, perché lo spazio non è una questione di dimensioni. Tre voci o forse una : come Nannetti graffiava l’intonaco con la fibbia degli internati per costruire una parola – quando le voci interne possono uscire dalla gola per potersi finalmente pronunciare – così la penna di Miorandi incide piano la pagina bianca, per ogni parola uno scavo preciso, non ferita ma feritoia : non una scena che si mette in scena ma un invito alla sospensione, come sospesa è la punteggiatura. Solo i nomi restano maiuscoli.

Nannetti Oreste Fernando N.O.F 4 : reparto Ferri del Carcere di Volterra.

220px-NOF4_da_giovane

 

Se il messaggio-nella-bottiglia di N.O.F.4 ha rotto i vetri che lo costringevano, sconfinato e tracciato un nuovo confine attraverso i tratti delle sue parole, così Paolo Miorandi, riprendendo nuovamente la poesia di Celan si ascolta, porge/ascolto a un mare/lo beve/per giunta, e disvela/le mal praticabili/bocche.

Il narratore torna nei luoghi, entra nelle zone interstiziali, piega l’occhio per affondare la vista, parla con Aldo l’infermiere, custode della parola e traduttore : l’uomo che ha trascritto l’intero muro su carta, segno dopo segno, riconoscendo, traducendo lettere, simboli, stelle, onde radio, compagno di viaggio di un austronautico ingegnere minerario del sistema mentale, alieni con il naso ad Y, e ancora segni, e ancora lettere, e dichiarazioni, e simboli, e onde radio, e mani minerarie e stelle – e le tre voci diventano unico suono che restituisce non il racconto di un uomo ma il racconto di un racconto, che inclina la testa da parte a parte ad ascoltare il mondo dell’altro, dell’altro-dell’altro e del proprio.

panchina nannetti

Se Nannetti incideva le lettere attorno al bordo dei compagni seduti sulla panchina (tre vuoti che segnano l’ombra antica di tre corpi), così la scrittura dell’autore non chiede all’altro di piegarsi, non spinge strattonando per aprire uno spazio forzato ma circonda con la parola il vuoto necessario al lettore per appoggiarsi a quel muro. Le sagome date per sottrazione comportano così una doppia testimonianza : la testimonianza di chi scrive, la testimonianza di chi legge.

La voce di Miorandi – come pure si dispiega nella realtà fisica quando parla : pacata, cadenzata, una grazia ipnotica – restituisce così l’ostinazione di un urlo che per poter urlare ha bisogno della pazienza e dell’incisione lenta.

Ogni parola porta un peso specifico : non una pietra che cade ma un muro che, non potendo cadere, decide di parlare.

***

Copertina NannettiEstratti da Nannetti, Paolo Miorandi, il Margine 2012

 

[1]

la prima volta che si sale per la stretta strada nel bosco dopo essersi lasciati alle spalle il pomeriggio estivo ed essere piombati di colpo in un precoce imbrunire, passata una curva, i padiglioni appaiono senza preavviso, come visioni venute dal nulla, o come gigantesche carcasse d’automobile abbandonate lungo il bordo di certe strade del sud e ormai diventate elementi del paesaggio naturale, rocce, sassi e tronchi seccati; la prima volta che si va avanti non facendo caso al divieto d’accesso e si supera quella che doveva essere la guardiola della portineria generale, e che, parcheggiata la macchina nello spiazzo, si prosegue a piedi guidati dal richiamo dei corvi, da quel loro gridare e scappare come bambini impauriti al sopraggiungere dell’oscurità; quando, entrati nel cortile del Ferri, adesso stanco e remissivo come una cittadella sconfitta, aperta al termine dell’assedio, e senza riuscirci si prova a vedere, e allora si avanza ancora di qualche passo guardando con maggior attenzione, come se in quella luce ombrosa e spessa gli occhi facessero fatica a distinguere i contorni delle cose e le tracce umane si confondessero in perfetta mimesi con i segni naturali, con la corteccia rugosa dei tronchi, l’ondeggiare dei rami, l’intreccio delle sterpaglie; quando poi, diradata la nebbia dallo sguardo, prima davanti e solo in seguito ai lati, si cominciano a percepire i richiami delle cicatrici di pietra, fratelli e sorelle, fratellastri e sorellastre, come tracce di antichi tagli, 1927, Nannetti Mara, alta un metro e settantacinque, sorellastra, nonna e madre; Nannetti Oreste Fernando, il nome che più di ogni altro hai inciso sul muro, alto un metro e sessantacinque, fratellastro; e ancora, cugini, bocca stretta, cuginastri e cuginastra, nonnastra, 1900, sempre bocche strette; Nannetti Oreste Fernando, il nome che ti hanno consegnato quando sei arrivato qui, lungo da scrivere e che un’altra volta hai scritto sul muro, questo muro che adesso si apre come un libro di fronte agli occhi; N.O.F. 4, grado colonnello, nato nel 1925, 1927, ventinove, trentadue, nato a Roma, capitale dell’Impero, nella congiunzione astrale tra il triangolo e il rame, il triangolo della faccia, il rame dei fili elettrici; assieme agli altri uscivi da quella porta, in fila indiana come uno scolaretto alla ricreazione, esco da quella porta e vengo in questo cortile, porta, cortile, muro, ogni giorno, anche se piove

[2]

basta che non piova a dirotto perché in tal caso non ci portano all’aria e allora non posso scrivere; quando piove dobbiamo girare tutto il tempo attorno al tavolo del refettorio come piccoli pianeti dall’orbita stretta, saturno, mercurio, nettuno, questa tua ossessione per i nomi degli astri e dei minerali, sole uranio, stella uranio, rame, luna urania, lancio su stella 2040, visioni dell’era spaziale che sta per venire; se piove a dirotto, quando giriamo attorno al tavolo del refettorio, accade sempre che qualcuno prima o poi diventa nervoso, attacca briga e si azzuffa, per questo l’infermiere di turno è costretto a intervenire; ma anche se ci chiamavano infermieri, a quei tempi noi ci sentivamo più che altro guardiani, perché questa in fin dei conti rimaneva pur sempre una prigione, sbarre, celle di contenzione, filo spinato; gli stessi superiori ci consideravano guardiani, soldi per loro ce ne davano pochi, noi dicevamo, con i soldi che ci date non potete mica pretendere che li curiamo, ma chi v’ha detto che dovete curarli, voi dovete sorvegliarli, punto e basta; di matti non ne sapevamo nulla, obbedivamo agli ordini, oggi turno al secondo piano, domani turno alle serre, si obbediva agli ordini dell’ispettore generale e del medico, poi ognuno si regolava come meglio poteva; allora l’infermiere di turno dice, la volete piantare sì o no, poi dice, ve l’ho detto già una volta di piantarla, poi è costretto a chiamare l’altro infermiere di turno e portare via quello che dà noia e non vuole più girare attorno al tavolo del refettorio; allora gli infermieri devono prenderlo per le braccia, uno per un braccio e uno per l’altro, devono riportarlo in camerata e se necessario usare le fasce, una da una parte e una dall’altra parte del letto, ma è certo che non sono io quello che gli infermieri devono portare via, io continuo a girare attorno al tavolo del refettorio seguendo il cerchio della mia orbita, non do noia a nessuno, non attacco briga, sto zitto e aspetto che la pioggia finisca; se era bel tempo si usciva in cortile, ognuno faceva le sue cose, lui stava sempre per conto suo; conosciuto? sì l’ho conosciuto, per come era possibile conoscere uno come il Nannetti; ne sono passati di anni, adesso non ci vengo quasi più, è come se questo posto mi mettesse paura, anche se paura non è la parola corretta, ha visto com’è ridotto? lasciato andare in rovina, le racconto volentieri quello che so, no, non si preoccupi, il tempo non mi manca

[5]

ma di certo io non scoppio, ho il muro, ho la fibbia del gilet che è la mia penna e la mia matita e non ho bisogno d’inchiostro; gli altri si fanno l’acciarino con la fibbia del gilet, acciarino è una parola piena di stranezza, li ho guardati, usano la fibbia del gilet e un bottone di madreperla, usano la scatoletta di latta delle pastiglie per la gola, un filo e un cencio bruciacchiato; io non faccio gli acciarini, tolgo la fibbia dal panciotto, ce l’abbiamo tutti qui dentro, e la uso per scrivere sul muro, è la mia penna e la mia matita; posso indossare il panciotto anche senza fibbia, per me fa lo stesso, gli infermieri lo sanno e non mi dicono più, dove hai ficcato la fibbia del panciotto? non farai mica scherzi vero? sanno che non faccio scherzi; hai scritto, sono l’uomo invisibile armato di fibbia catodica, i fantasmi sono formidabili, dopo la seconda apparizione prendono sembianze materiali; adesso vai dall’Aldo e gli chiedi una cicca, e lui te la dà se è di luna buona, gli dico, Aldo me la dai una cicca, e lui me la dà, ma non tutti i giorni, e se non me la dà non insisto, avrà i suoi motivi, mi dico, l’insistenza è una brutta cosa, per il resto me ne sto per conto mio, non parlo con nessuno e nessuno parla con me; qui tutti erano soli, ma se c’era qualcuno ancora più solo degli altri, quello era il Nannetti; non aveva nessuno, non possedeva nulla; quando l’hanno condotto in fagotteria per la consegna degli effetti personali non aveva niente con sé eccetto i vestiti che indossava;

[6]

se loro non mi parlano arrivano le ombre, strisciano lungo le pareti del corridoio, entrano nella camerata e si accostano al mio letto, gli dico, andate via, ma non vanno via, alzo la mano, la sposto e la ruoto per migliorare la ricezione, ma non sento niente, dico, uno, due, tre, qui Forte Forestal, ricevente attivata, parlate, ma non è in corso nessuna trasmissione, loro non parlano, ci sono solo le ombre; hanno attraversato le inferriate della finestra, non sono certo le inferriate che possono fermarle, sono entrate nella camerata, hanno strisciato lungo il pavimento e si sono accostate al mio letto, gli dico, andate via, ma non vanno via, sono nere e lucide come petrolio e possono passare anche sotto le porte, entrano da ogni buco, mi tappo le orecchie con le mani e sto fermo senza respirare, ma poi devo respirare e allora faccio un respiro corto come un singhiozzo, quando riapro gli occhi sono ancora lì, qui Forte Forestal, Volterra, Pisa, pronto pronto, ricevente attivata, ma ci sono solo disturbi catodici, telequadrante a scariche cosmiche, nubifragi elettrici, e freddo, freddo come in inverno; le ombre sono vive, dopo la seconda apparizione prendono sembianze materiali, la luna nel pozzo è sparita, Saturno, Mercurio, Nettuno, sole uranio, stella urania, luna urania, andate via per favore, dico, stella pazza, due soli fanno due ombre, rispondetemi; aiutami Milena, cara cugina Bianca, rispondimi e mandami mille lire che qui di tutto abbiamo bisogno, in questa casa della misericordia mentale, avamposto nucleare, mia cara Milena, la tua bocca di madreperla, un manicaretto domenicale per il tuo bambino, aiutami, lancio da Forte Forestal, divisione territoriale inglese, lancio su stella 2010 (duemiladieci), lancio su Urano, settore natalizio; trasmissione nel sistema telepatico da base missilistica di San Finocchi, Ospedale Psichiatrico di Volterra, reparto giudiziario, quarta sezione, settore territoriale della svizzera sovietica, lancio su stella 2040, Nannetti Fernando, Ferri, Ferruccio, ferroviere, fischietto, sezione quarantaquattresima, Parigi, possedimenti coloniali francesi d’oltremare, possedimenti coloniali franco-spagnoli, linea costiera, trasmissione notturna da Forte Forestal, base missilistica neuronale, ricevente attivata su frequenza catodica, trasmissione, uno due, pronto, pronto? nel silenzio non si sa, meteorismo cosmico, non sento niente, nessun rumore nella camerata, nemmeno il respiro grasso di Pampana, non sento passi nel corridoio, tintinnare di chiavi, né rumore di padelle in cucina, non sento gorgogliare l’acqua nei tubi, non è la pioggia, sento solo il latrare di un cane, ma so che non è un cane

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Insetti

di Bruno Barbera
Mi stavo massaggiando la testa con lo shampoo quando ho sentito, in corrispondenza della tempia destra, un punto cedevole. Istintivamente ho fatto pressione con due dita e nel mio cranio si è formata un’apertura.

Pratolini poeta. Un mannello dimenticato

di Marco Nicosia
«Sono fregata, Casco, la morte non è un sollievo, è un’imboscata.»

Un bon élève

di Simone Redaelli
Ma questa è una menzogna. Nulla nel mondo ha di queste sensazioni. Tutto continua a girare: gli esseri umani procedono indisturbati, gli alberi generano foglie, i muri continuano a reggersi.

“A man fell”, dell’eterna diaspora palestinese

di Mariasole Ariot
Un'esistenza che sanguina da decenni e protesa a un sanguinare infinito, finito solo dal prosciugamento di sé stessa.

Amelia Rosselli, “A Birth” (1962) – Una proposta di traduzione

di Marco Nicosia
Nel complesso, la lettura e la traduzione esigono, come fa l’autrice, «[to] look askance again», di guardare di sbieco, e poi di nuovo scrutare e ancora una volta guardare di traverso

Sopra (e sotto) Il tempo ammutinato

di Marco Balducci
Leggere queste pagine-partiture è in realtà un perdersi nei suoni: suonano nel ritmo delle sillabazioni, nelle pause degli spazi bianchi
mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: