Da ”Fermata del tempo”
[Pubblichiamo cinque testi tratti da Fermata del tempo in uscita questo mese per Marcos y Marcos.]
di Stelvio Di Spigno
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Trentasette primavere
Dicono che fu uno stillicidio in mare aperto,
il capitano di corvetta Costigliola fu preso dall’Egeo
che goccia a goccia gli instillò la morte
sul viso, tra i capelli, nell’amore, i ricordi, le parole.
Mio padre, diviso, piangeva alla televisione. Erano amici.
Mai s’erano ubriacati, né picchiati, ma Silvio lo amava,
lo leggeva, come neanche la moglie, come neanche i figli
epoche ed epoche dopo.
A trent’anni la vita si spezza e non si rialza. Lo vedo da me,
coricato in questa clinica per dementi di cuore, per afflitti
da vene in coma e otturazioni di arterie. Dicono: realizzati.
Fatti avanti, fai del tuo, e se puoi, anche del mio.
Intendono soldi, successo, amore. Oroscopi delle speranze
scadute tra le mani. Ma qui ci si ferma in tanti,
e non c’è bisogno di documenti per capire
che la speranza è andata in pezzi e che sei ancora giovane.
Troppo per morire, troppo poco per rinascere, trasportato
verso il pianto, resta in bocca un sapore
di credenza, di infanzia, di biscotti e lacrime a merenda.
Dobbiamo starci e far sì con la testa, ognuno ammalato
di destino, con una crepa al centro della festa, tutti
affondati nell’Egeo nel mezzo del cammino.
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Il sabato della supplente
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio
Dante, Rime
Carte imbronciate, documenti
dalla pelle di fuoco, una che dorme in piedi, ma
sui piedi di un altro. Fascette immacolate
di compiti in classe. Questi sono i giorni del supplente,
prima si farebbe a chiamarlo facchino, ulcera, maiale.
Lei, donna, amava il greco antico. Quest’amore sacrilego
è stato punito. Giorni come ore volano come passeri.
Non un ricordo, non un fiore da parte dei colleghi. E dell’amore
una vaga rimembranza che è meglio allontanare.
La vita è tutto un debito. Attorno è terra bruciata.
L’uomo deve vivere, invece sopravvive.
Un sì dopo l’altro, accetta anche la morte,
la Nemica, la Carogna. Una volta arrivava in carrozza
col drappo nero e le orchidee dell’addio: ora
è quasi una liberazione, una libidine solitaria.
Restano nel cestello, a fine ora o a fine pasto,
fotocopie di monna Vanna e monna Lagia; lei oggi sogna
una vita normale con un uomo difficile
da capire. Altro che incantatori e barchette
con dentro Dante e il plotone stilnovista.
«Domani faccio la stacanovista. Mi butto
sul lavoro. Così passa più in fretta. Il sabato
chiudo bottega e piango fino a sera».
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Prosa della madre incantata
Si muoveva per casa come per dire basta.
Svuotava ceneriere, lucidava i fornelli,
e quando il guanto di smania la lasciava
chiacchierava col gatto e foraggiava il davanzale:
era la regina di passeri e colombi.
Era la madre, il principio di tutto:
per questo tratteneva
lacrime amare in sillabe cadenti: è tutto sangue
da travasare, e farà parte di te, anche se scalci e rifiuti.
Era una donna e insieme una finestra, mai cresciuta.
Da giovane il male lo capiva. Pensava ai figli
come a un lenimento. Non arrivò, ma ricorda
cosa pensasse nel ’66 o che indossava
il giorno del diploma, esattamente.
Dai suoi vent’anni non s’era mai mossa.
È in quei momenti che puoi domandarle
perché ha sofferto tanto e di quale dolore.
Perché l’ha passato anche a me. Se ama il mare.
Una volta l’ho raggiunta nel ’70:
non sono ancora nato ma parliamo,
sento la sua pietà come il suo sonno.
Ora è riversa dentro il suo rimorso, è sempre sola.
Qualcuno dice che anche questa è vita.
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Sega circolare
Hai portato le radici a stare basse, a essere
sistema puro, stilema. Le hai sistemate
una volta divelte, nel seminterrato. Ricamavano
sull’asfalto una coltre di dossi e doline
che riducevano le auto a brandelli. Si buttano giù
gli alberi per questo. Per non fallire
quando si ha fretta, e si va a manetta in venti metri
con un odore di scarico munito di utilità.
Anche gli uomini hanno radici. Falliscono
anche loro. Che portino oro al collo o si siedano
dentro un cratere da muratore. Quanti ne ho incontrati,
in questa città occidentale. Qui da noi se non sei uguale
agli altri, in fatto di fortuna, sei solo fallimento.
Amoroso, polifonico, esistenziale. In un altro
continente saresti stato una cellula di ovatta
che soffre la fame, qui tutti si sentono spiriti
eletti, in cerca di tormento e salvazione.
Qui fallisci e vai via. Espulso dalla tribù. Non hai
diritto di replicare. E dire che il fallimento
ha la stessa scatola cranica della morte. Le stesse
misure di camicia. Lo stesso rossetto, se fosse donna.
Potresti capire molto dalle sue anche. Fallimento da cavaliere,
operaio, politico, consumatore. Di tutti i tipi,
per tutte le congetture. Se ne potrebbe parlare,
così che non spaventi più nessuno. Ma questa
è solo una poesia.
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Ballata del giorno normale
Il sole è alto nel cielo
come tutti i soli
da milioni di anni a questa parte.
Facciamo finta che sia
una bella giornata,
palpeggiata, accarezzata, irresoluta,
coi suoi splendidi nomi a corollario:
spiaggia, cappuccino, vento a schiera.
Si va a lavoro. Si torna a casa.
Bello l’ultimo chilometro
della solita strada. Gli stracci
della nostra coscienza,
mandati al lavatoio e raggelati,
ora sono puliti e non disperano.
Che bella brezza di mare,
uguale a tutte le brezze
e i fondotinta da qui all’eternità.
Risaliamo il ponte sulla stazione.
Qui c’è casa mia ad Anzio. Se non foste spettri,
voi che leggete queste righe,
vi inviterei a entrare. Invece
ci si vedrà domani. Buon giorno. Addio.
Amore, gioia, lutti e dispiaceri
rimangono muti nelle tasche.
Migliaia di io, dentro la mia mente,
sanno che la vita è tutta qui:
orologio, rumori, amanti devoti.
Milioni di anni sotto i piedi
e nessuno sa dirmi cosa mi aspetta.
Siamo una specie senza predizione.
E col presente non va meglio:
cos’è questo tutto che mi circonda,
quanto è larga la parola destino,
quando incontrerò qualcuno
che mi somiglia.
Anima, sole, castrazione
di ogni volontà.