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SCRIVERE, SCRITTORI (E FESTIVAL LETTERARI) (Autismi mitografici # 4)

di Giacomo Sartori

pompei_saffo_Herkulaneischer_Meister_002bUno dei pregiudizi più duri a morire è che gli scrittori scrivano. Che cioè si mettano lì, e ticchettino sulla tastiera qualcosa che detengono e antecede lo scritto, come si trasferisce una serie di pacchetti di banconote da una cassaforte a una valigetta da viaggio. Niente di più lontano dalla realtà. Il testo che si materializza sullo schermo non preesiste né nella scatola cranica dello scrivente né altrove, si forma nel corso di quella attività che chiamiamo appunto, affidandoci a un’ambigua sineddoche che confonde solo le acque, scrittura. Come è noto l’incisione di segni, la scrittura, è nata per contabilizzare le pecore e le capre, non per fini letterari. E le narrazioni esistevano, anzi prosperavano, ben prima.

Si dovrebbe trovare un altro verbo che definisca la gestazione del testo letterario, isolandola dal suo contemporaneo, o forse meglio leggermente sfasato, trasferimento su uno schermo, su un supporto elettronico, sulla carta. E distinguendola dal pensiero, il pensiero come lo intendiamo noi oggi, che è altra cosa. Certo c’è creazione, ma anche depurata dalle connotazioni romantiche e posteriori questa suggerisce una materializzazione per vie sovraumane, e partendo dal niente: resta contaminata dalla religione, puzza troppo di trascendenza. Mentre l’attività dello scrittore consiste in immanenti assemblaggi di immanenti ricordi, pensieri, ansie, questionamenti, emozioni, intuizioni, moti reconditi, pulsioni, magmi abissali, fissazioni, complessi, sensazioni fisiche, fole e grilli, fantasticherie, allucinazioni. Un empirico lavorio che contempla distillazioni, condensazioni, decantazioni, vagliature, travasi, strizzamenti, compressioni, cristallizzazioni, lievitamenti, bolliture, centrifugazioni, fusioni, sublimazioni, gonfiamenti, clonaggi e replicazioni, innesti, trapianti con o senza rigetto, potature, impastamenti, tritature, incastri, tessiture, colorazioni, lisciviazioni.

Operazioni mentali guidate beninteso da ricordi coscienti o subliminali di testi scritti da altri, e contaminate da testi scritti da altri ancora su questi testi scritti da altri, così come da musiche, dipinti e prodotti di altre arti, altri bagagli culturali, tradizioni consapevoli e inconsapevoli, dettami normativi o di convenienza, e ciarpami di tutti i tipi. E che utilizzano come kit tuttofare il linguaggio, con tutte le sue potenzialità e inefficienze, le sue zavorre e inerzie, i suoi invadenti non detti, il suo dispotico attaccamento alla tradizione, le sue improvvise arrendevolezze, ma mettendo al lavoro pure mezzi più arcaici e sotterranei, armi di plaghe cerebrali incolte e ormai obsolete, di masse neuronali intestinali ribelli all’intruppamento della razionalità e sintattico.

Questa spuria attività non ha niente di sovrannaturale, è l’atto più pragmatico che si possa immaginare, anche se effettivamente il risultato raggiunge in certi rari casi sublimi vette spirituali: si apparenta per moltissimi versi all’arte culinaria. Sciogliere – pensando alla primissima infanzia – un ricordo lasciato frollare nel frigorifero della maturità e poi rammollito al sole infedele di un amore tardivo, aggiungere con le dita sporche di escrezioni genitali un pizzico di sale libertino, poi quindici bytes di falsi buoni propositi … La vera differenza è che la velocità della preparazione può essere supersonica come anche annosa, e le ricette restano per lo più – con cocente scorno dei critici letterari (e ora anche dei neurobiologi) – segrete.

C’è forse un aspetto, uno solo, nel quale la cosiddetta scrittura si avvicina allo scrivere del significato corrente del termine. E sono le revisioni e i rimaneggiamenti dei testi già materializzati in segni grafici. Qui le attività di cui sopra interagiscono più strettamente con le cancellature, le aggiunte, gli spostamenti, i grafemi piccoli e grandi, vale a dire con lo scrivere nel senso usuale. Ma certo primeggiano anche qui componenti che non hanno a che fare né con la scrittura propriamente detta, la produzione di segni convenzionali, né con il pensiero.

Solo i cattivi scrittori scrivono nel vero senso del termine. Nei loro testi trasferiscono pari pari i loro pensieri: nelle loro pagine stagnano solo frasi intrise di già noto e di pedissequità (talvolta argute, non è questo), piattezze non solo ininteressanti, ma anche volgari nella loro vana aspirazione a essere qualcosa d’altro. Già la razionalità, anche quando elegantemente cesellata, tende a essere noiosa, non parliamo quando si prende appunto per narrazione, o poesia, e si dà alle metafore e alle smancerie. I veri scrittori non scrivono, fanno altro.

La gente crede però che gli scrittori scrivano, vale a dire trasferiscano dalla loro testa alla carta un capitale che posseggono in esclusività, e allora si assiepa per gustarli ai festival letterari, persuasa di poter incontrare quel nettare che è stato traslato sulla carta. Il che equivarrebbe al voler spremere da un cuoco il gusto della torta alle fragole o delle tagliatelle al tartufo che ha scodellato. Si trovano beninteso davanti dei depressi cronici, dei maniaci compulsivi, dei presuntuosi mitomani, o anche semplicemente dei noiosoni, dei poveracci, degli imbanditori, degli imbecilli, ma si sa come sono le illusioni: gli avventori credono di essere al cospetto degli esseri superiori che fantasmavano, e sono tutti contenti.

Detto tra parentesi se c’è una cosa che si dovrebbe proibire in Italia, sono appunto i cosiddetti festival letterari. Se c’è un rito collettivo che diseduca alla lettura, che fomenta ulteriormente il culto della celebrità, già metastasico, e allontana dalla vera alchimia della cosiddetta scrittura, dalla sua essenza più intima, è proprio quello. Bisognerebbe escogitare delle misure legali articolate, proprio come avviene in certi paesi più civili per la prostituzione, punendo non solo gli organizzatori (ai quali spetterebbero naturalmente le pene più severe), ma anche i clienti, e gli stessi scrittori consenzienti. E non lo dico perché mi hanno appena rifiutato al festival letterario della mia regione (proprio per il fatto che sono – non vorrei sbagliarmi – uno degli scrittori più interessanti della regione), festival che manco a dirlo ha un accattivante nome anglosassone, tutto è coerente, ma perché è urgente che certe imposture vadano debellate, certe piaghe sanate.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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