il Sottofondo italiano di Giorgio Falco
di Francesca Fiorletta
“Avvertivo tutta questa infinita cupezza, e così, non volendo suicidarmi alle scuole elementari, pregavo in spiaggia, a otto anni invocavo bisbigliando sotto l’ombrellone, inventavo una lingua che non fosse l’italiano per farmi ascoltare da un dio straniero. Portami via, imploravo nella lingua inventata che doveva uccidere l’italiano; portami via da qui, dalla mia famiglia, da questa nazione, da coloro che scrivono in questo Paese e riescono a commentare e giustificare qualsiasi cosa.”
“Portami via!” è l’appello accorato che funge da leitmotiv, e che si fa sentire bene, con più o meno prepotenza, in tutto il Sottofondo italiano di Giorgio Falco, recentemente edito da Laterza nella bella collana Solaris.
“Portami via!” dice il protagonista bambino, mentre rinuncia precocemente al sogno di diventare un calciatore; ripeterà quello stesso mantra da adulto, quando si troverà imbrigliato nelle maglie di un’alienante macchina aziendale; chiederà ancora “Portami via!”, perfino una volta rimasto da solo, mentre tenta di portare avanti una lotta urbana, fuori tempo massimo, per i diritti dei lavoratori.
Continuerà, il nostro lucido e vivo protagonista, a sognare l’esilio volontario da uno Stato che non sa riconoscere affatto come tale, desidera ardentemente la fuga da una realtà che non gli è mai appartenuta, auspica un allontanamento, a tratti distopico, da una routine fastidiosa, posticcia, ingombrante, e da ultimo tende, costantemente, con veemenza, al silenzio.
Un silenzio impraticabile, tuttavia, un silenzio che starebbe a significare armonia, pacificazione, o – peggio ancora! – perfetto inquadramento negli schemi e stilemi di una società borghese, cieca e opprimente, che è quella che sta diventando l’Italia industriale.
Ricorda, il protagonista, di quando suo padre tornava a casa dal lavoro, la sera, e era solito sbuffare: “sta diventando una cosa impossibile”. E quel sentimento di impossibilità, di impraticabilità del vivere quotidiano, quella visione così negativa e senza scampo nei confronti di un futuro a dir poco indecente, invece che annichilire quel bambino, invece di scoraggiarlo, o di umiliarlo, o giustamente preoccuparlo, no, quel sentimento di impossibilità panica lo rassicurava. Lo faceva sentire a casa, padrone dei suoi spazi, dei suoi ricordi, dei suoi – stavolta sì! – silenzi indotti, familiari, sociali, universali.
Ecco la ricerca della via di fuga, il bisogno di separazione intima, discreta, eppure netta e senza appello, l’incontentabile desiderio di rifugiarsi in uno spazio altro, scevro dai conflitti troppo macchinosi della politica mafiosa, libero dalle catene usuranti di un lavoro spersonalizzante, distante dai ragionamenti oziosi del marketing, della pubblicità, che ostentano la pretesa di un finto benessere, l’impostura di un qualche tipo di crescita, soprattutto economica.
La lingua, soprattutto: il linguaggio trito e ritrito degli slogan per famiglie, i trend motivazionali dei lavoratori sfruttati, la bieca virtualità dei social network, che restituiscono un gergo asfittico, insieme a una sequela di immagini, tra le più grottesche e torbide, di perfetti sconosciuti o colleghi sodali di una vita. Una lingua che non sa reagire, che non sa sopperire, ancora, alla ricerca di uno spazio altro.
Ma questo spazio altro, alla fine, in cui “non c’era più il rischio di pericolose vicinanze”, si scopre ancora invaso dal un velo ottenebrante e traslucido, che è il rumore di fondo, il rumore dei nostri stessi pensieri, delle nostre stesse cicliche azioni minuziose, del nostro chiacchiericcio sempre in fieri, della nostra coscienza e autocoscienza sfinita, sempre percepita come secondaria rispetto a un orizzonte d’attesa più alto, più luminoso, un orizzonte misticheggiante che ovviamente non arriverà mai; resta giusto la nostra consapevolezza superficiale, propriamente (e tenacemente…) italiana.
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[…] di FRANCESCA FIORLETTA, “Nazione indiana”, 27 maggio 2015 […]