L’Amalassunta, animale strafottente

di Giacomo Verri

È un romanzo che ha la pazienza di perdersi. Che va e viene e torna sui propri passi. L’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte, vincitore del Premio Calvino 2014 (ora in libreria per i tipi di Giunti), racconta l’anima inquieta di un io narrante, Antonio Accurti (il nome è svelato solo a pagina 51), che tanto sa d’alter ego da assottigliare pericolosamente la linea che separa la persona reale dell’autore dalla finzione-funzione di narratore.

Antonio molla tutto, quasi improvvisamente, per inseguire una specie di sfilacciata amenza, la passione forse insana, certo ineludibile, per la “storia del pittore”: è Osvaldo Licini, fiorito all’Accademia di Belle Arti di Bologna, astrattista in bilico sempre tra sottili chimere e periclitanti e liriche geometrie. Era originario di Montevidone, il buon Licini, un paesino dell’entroterra marchigiano, a forma di P, adagiato al colle, neniato in cima alla sella che scandisce la valle: lì torna dopo gli studi bolognesi, dopo il soggiorno parigino, dopo le delusioni incassate qua e là lungo la groppa movimentata della penisola (i primi importanti riconoscimenti gli verranno solo a fine carriera, alla Biennale veneziana, nel 1958). Anche Antonio torna, rimette i piedi a Torano, quaranta chilometri a sud di Montevidone. Ci torna per una fantasmatica e potentissima “forma di inconsistenza”, lascia la morosa, Nina, lascia Torino, lascia le vuote certezze della vita. Non che quella di prima fosse un’esistenza falsa, e quella di ora sia autentica. Com’era nella sensibilità del pittore, la vita è marcata dal bilico silenzioso e assolutizzante di chi sta per lanciarsi nel vuoto, di chi “rimane così, spiovente sulle leggi di Euclide”. E il ritorno ha un significato al limite dell’ermetismo, un significato attorno al quale l’io narrante preferisce non essere assillato.

Nelle vallate fermane, tra Torano e Montevidone, Antonio parla di Licini con l’amico d’infanzia Germano, con Marcello, che comanda un drappello di giovani archeologi venuti a “cercare i reperti nella valle”, e con altre donne o uomini che lo conobbero – anni Trenta – quando l’artista tornò al paese a braccetto della moglie straniera. Antonio va a vivere nella vecchia barberia del nonno: e lì respira quell’aria stantia, diroccata, ma ricca e sofferente e estremista, perfino, che diede corpo alle tramutanti idee del pittore.

Il pittore, sì. Il romanzo lo rincorre, come si rincorrono i miti finite le esaltanti prime sensazioni. La passione ossessiva che ci sconvolge, per un uomo, una donna – badate bene: non parlo d’amore –, per un’idea, per un’opera, vive dapprima di slanci ubriacanti, di impazienti estremismi. Ma quando poi si è superato l’iniziale strato di familiarità, il contatto con il nostro mito diventa più intimo, e più difficile, a un tempo. Che può dire, ancora? Fino a dove? Fino a dove ciò che io posso sapere di lui – nel nostro caso, ‘il pittore’ – può invaderci, intriderci, levigarci? Brandimarte di Licini ripercorre, con una struttura a spirale che agglutina di continuo, e di conserva, passato e presente, le tappe della vita, quelle grandi e quelle minori, gli studi, la guerra, le ferite, l’amore delle infermiere e l’altro, le delusioni e le passioni e la rabbia. Dalla china dei lustri, risalgono all’oggi tanti insegnamenti sempre validi, tante impressioni sempre dorate. Lo stesso trattamento stilistico – dal lessico alla sintassi – che il narratore dispone per la propria materia ha echi che affondano in quel passato: dai primi dei decenni del secolo breve discendono le pagine di Brandimarte, punteggiate come brevi poemi lirici che ricordano tanto le prose bellissime e impareggiabili di chi scriveva a cavallo del primo conflitto mondiale, quando cioè la regola era che la singola parola, nell’inconsutile tessuto testuale, affiorasse alle carte solo dopo attente meditazioni, con una persuasione quasi superstiziosa. È bello da leggere il libro di Pier Franco Brandimarte, perché, con una sguardo nel presente, smuove rumori antichi, i passi spirituali di chi era partito volontario per le trincee e aveva scommesso l’intera propria esistenza sul fango.

Lo scavo nel passato è qui sempre un dialogo: esaltante, sulle prime, qualunque cosa ne sorga: “la parte più eccitante viene quando si scava, allora prima di riesumare un vecchio tappo di birra si può immaginare un tesoro disperso, una moneta romana o un bracciale piceno”. Un dialogo, certo, a volte inconcluso, spesso labirintico, eppure l’impressione è che tutto si tenga come nelle architetture dei trabocchi che si protendono in mare. L’Amalassunta, che è la luna, – e assieme a lei altre tante tele di Licini – sono come “estensioni della capacità umana di toccare e prendere”, sono portolani e mappe dell’esperienza; e Licini medesimo è “il cacciatore-pittore” che “delinea i percorsi noti fin dove conosce, e dove non conosce arriverà la sirena, il drago, l’abisso o l’Amalassunta”. L’Amalassunta è una enorme e struggente lassa testuale che s’avvinghia, come fanno i sogni, attorno al mistero della vita, soprattutto della vita adolescente, dove un senso d’eternità percuote le vicende di tutti i giorni.

Così, in ogni alba di Antonio Accurti, in ogni alba di Osvaldo Licini c’è un senso di lontana ripetitività che “inganna il tempo, lo mescola come lo zabaione, lo rende cremoso e denso”. È un romanzo colmo, come pochi se ne leggono oggi, in cui le vite seguono una linea che non è sempre quella segnata dalla volontà, ma spesso è quella comandata dalle venature del materiale di cui è fatta, come avviene nel marmo. Perché la vita è composta di tanta realtà, e di essa una creatura umana ne può sopportare solo una certa misura. L’Amalassunta è allora il viaggio interiore che conduce a trovare quella misura e a superarla, dando sfogo alla “voglia d’indeterminato, d’inconcluso, voglia di giocare eternamente coi possibili, di evadere la forma”, trasformando l’esistenza in un continuo palinsesto di se stessa. “Mi accorgo che tutte le similitudini fabbricate in questi mesi non valgono a fermare quella luna che come un animale strafottente non appena inquadrato cambia forma, si riavvolge, si tramuta in qualcos’altro”. Sì, è così.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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