Ida Vallerugo (poeti friulani # 2.1)

testi di Ida Vallerugo, fotografie di Danilo De Marco

Ida Vallerugo che guarda  copy

 

 

 

 

 

 

Alba sull’Acropoli

 Ma mi assale il tempo. Non qui, non ora

in quest’alba calma fra queste colonne.

Non qui, non ora, in questo silenzio vivo, fra le voci

in cui sono nata. Abbiamo un appuntamento, tempo,

ma non qui, non ora, in questa perfezione

che lenta scompare.

 

E tu ti torci nella pietra lassù, cavallo,

occhio grande, spaventato. Calmati, sei perfetto così.

Vuoi tornare alla sua mano, tu.

Non è qui Fidia, con gli scalpellini morti di Meduno lui ora

 cena.

 

Non qui. Non ora. Ma con te non posso lottare.

Resta allora, senso del tempo, che dandomi la misura del

passare

pronta mi fai a partire dove non arriverò.

Nei vapori mattutini riavvia la ruota Atene e sono anch’io

nel coro di voci e rumori a contrastare il coro improvviso

di antichissime cicale che grideranno

ancora insieme qui, solo loro…

 

Ma impagliata negli sterpi, la ciocca del dio

che ci corre nelle vene di dormienti inquieti che aspettano

di risalire per le giovani linfe che spargemmo

 

nella tua dura luce, nostro umano passare.

 

Ida striscia copy (2)

 

 

Libertà

 

Tu sei il fucilato. E tu l’ala nell’ambra.

E tu è una vita che ceni da solo.

 

Si espandesse la mente nell’universo, come soltanto lei sa

fare,

la tribù è eterna e sempre esclude

chi sceglie te, intollerabile, libertà.

 

 

Magredo*

1

Pietre

 

Mia vita, distratta, impietosa

sono io che cammino qui, ora?

 

“Questo è il magredo.

Qui non ci sono rive alte, ma solo ciò che vedi.

Cercati qui.           Trovalo qui un lineamento.

O guardati nella luna mattuttina”.

 

Il passo. Le pietre. Le acque lontane.

Non mi sei mai scivolata addosso, vita,

e pur di stringerti ti lascio andare.

 

Pietre, rimorsi

di vaghe colpe, vaghe sí,

mi ha sorpreso il sonno, non so quando

forse in un giro di specchi mattutini quando ho visto

il mio volto che non sapevo

e poi ho guardato la mia povertà

che pure ha visto quel volto.

 

“Finirà prima di te il magredo, cammina”

 

È che c’era tempo. C’era tempo.

Poi il risveglio. I riti. L’accecamento. Ma che lisce

le scale in discesa del tempo.

 

Che chiaro là in fondo quel suono di acque al buio.

 

Che limpido laggiù il tuo canto, Orfeo.

 

* “Magredo” significa “terra magra”, cioè arida e povera d’acqua per la presenza dei sassi, tipico del Friuli, dove le acque dei torrenti Cellina e Meduna sprofondano nella falda aquifera.

 

05-Ida-Vallerugo117-copia copy

 

 

Luna privata

 

Luna dei giorni miei, luna accecata

se la pietà è morta, perché la poesia?

 

“La pietà non è morta. Non muore la poesia”.

 

Sono stanca, luna, e anche tu sei stanca.

 

*

 

Luna sul volto di mia madre

che non vista canta sulla clivia a fantasia, un canto muto

a labbra chiuse il suo.   Tu guardala

come guardi dio che non visto canta.

 

Canta, Eva. Tutte le donne in te prendono a cantare.

 

O madre che sulla clivia canti.

 

*

 

Luna di Ritsos a Makrònissos

luna del rifiuto, del suo sí alla vita, tu l’hai visto scrivere

i versi sulle ginocchia al tuo lume.

E c’erano le sbarre, i secondini e l’Egeo per lui mattutino.

Sfiora per me il suo volto, luna.

 

Ho bussato alla sua porta

con una rosa ma mi ha preceduto la morte.

Fra i turisti, al sole del Pireo, cercava qualcosa Omero.

Nella tunica ho infilato la rosa.

 

*

 

Luna di Ostia, chi uccide Pasolini?

 

Tu l’hai visto lieto e disperato scavare

accarezzando la zolla fiorita di una terra lontana, irreale.

Scavando, scavando, la febbre che sale.

 

Quiètiti frut. Ragazzo, riposa.   Tu designato

 

come da sé, sulle tue rive, la primula, la viola.

 

*

 

Luna sul volto di Federico

che non ha più una terra sua dove cercarti, luna.

Tu lo vedi, è sempre il bambino

che va avanti nel buio a stento come te sulle macerie nostre.

 

Poterlo stringere. Dire alla morte “È nostro”.

 

*

 

Luna Guevara tu l’hai visto a La Higuera.

Li hai visti i volti d’aria alla sua veglia.

 

Ora lui è il campesino che dopo aver cenato

 esce a maggio a scuotere la mela.

 

Illumina la mano al ramo.

Illumina il ramo alla mano.

 

*

 

Luna Mandela

acqua di donna sul suo volto alle sbarre

tu che come lui splendi uguale per tutti

illumina, umana ancora, gli uccisi che prendono a cammi-

nare

dal fondo dei continenti.

 

*

 

Tu che come noi nel tuo vuoto vai.

 

 

 

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L’ippocastano

 

È in notti come questa

in queste nebbie

 in questo silenzio di mondi conclusi

 

che l’ippocastano oltre il muro

scaglia i suoi frutti sul marmo

della pista da ballo dismessa, spari nel sonno.

 

 

Danza di Loro che schiacciano i frutti impropri!

E si agitano in me questi figli.

 “Dormi Gaza.

 Davide, dormi. È il vento che scrolla i muri”.

 

E piano mi dico     “La vittima è in fiore,

questo è il silenzio che insegue memorie”.

 

 

Da Stanza di confine, Crocetti editore, 2013:

Appassionata cultrice di Ghiannis Ritsos, al quale si avvicina per ampiezza e profondità di visione, Ida Vallerugo, nascosta nella sua stanza di confine (a Meduno in provincia di Pordenone), sembra suggerirci che l’eternità ci cammina accanto e che sta a noi allungare il braccio per coglierne la polpa, fino a ricondurla a una dimensione domestica, sostenibile per noi mortali, e sta ancora a noi avere gli occhi abbastanza puliti per applaudirla quando entra in città.

“E dopo? Sarà stato tutto un sogno dopo,// risvegliandosi qui o nell’eternità,/ una tazza di caffè in mano. E posandola ora// per applaudire il circo che entra in città.// Gli acrobati. La tigre. Il poeta”.                                                                                                            Pierluigi Cappello

 

Nota: questa è la seconda tappa di un iterario ideato da Danilo De Marco riguardante alcuni poeti friulani attuali non conosciuti dal grande pubblico, e cominciato con il grande Federico Tavan. Con il suo consueto modo di operare/fotografare, e di concepire la fotografia, De Marco ha ritratto questi autori, non tutti facili da avvicinare, solo dopo averne una conoscenza intima, e con una grande empatia, seppure non priva forse di qualche venatura ironica. Nei prossimi giorni una seconda puntata riguarderà la poesia in friulano della Vallerugo, che ha sempre vissuto a Meduno, e poi il percorso continuerà con altre voci. GS

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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