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les nouveaux réalistes: Fabio Ermoli

Dimensioni-Campo-Basket

playoff

di

Fabio Ermoli

Sabato vado verso l’Iper per necessità, con lo scooter attraverso Piazzale Accursio, guardo il campetto da basket che una volta era territorio del Pitone di Via Nansen, l’attuale Avv. Ranzoni, quando per la prima volta insieme ai soliti ragazzini filippini ci vedo un ragazzetto bianco bianco lungo e dinoccolato che in realtà si sta allenando da solo.
Nell’altro canestro.
Il semaforo rosso mi consente di osservare 4 tiri.
Il semaforo diventa verde ma non me ne vado pur di vedere il quinto. 
Tira da molto lontano, con la palla che schizza tra le gambe in arretramento, raccolta con la sinistra e tirata a canestro in sospensione cadendo all’indietro, come a liberarsi di un avversario che ha già affrontato.
Un movimento che conosce.
Non è roba da tutti, ve lo garantisco.
Nel campetto di Piazzale Accursio la retina del canestro si gonfia e la palla fa quel rumore che ci piace tanto, ciafff.
 Metto la moto sul marciapiede, ci penso un attimo, voglio solo chiedere al tipetto dove ha imparato a fare quei tiri. 
Uscito di casa ho addosso i jeans e le Champions da € 19,90 finte Converse, bianche, con le calze blu filo di Scozia che non c’entrano un cazzo. 
E una polo grigia di Robe di Kappa sfigatissima sotto il giubbotto nuovo di pelle.
Praticamente sembro uno sbirro da telefilm. 
Vabbè, al limite sembrerò un vecchio adescatore.
Mi avvicino al campo ed al ragazzetto che dimostra un 15 –16 anni, mi paleserò e lui si domanderà probabilmente che cazzo voglio.
E infatti mi dice: 
 – Cazzo vuoi?
 – Il pallone – rispondo io. – Guarda saran vent’anni che non faccio un tiro. Faccio solo due tiri e poi vado all’Iper a fare la spesa.
Fa tre passi in avanti tranquillo con la palla tra le mani, una Wilson di cuoio, bella.
Troppo bella per un playground della Bovisa.
Mi accorgo che complessivamente è alto come me, e io sono circa 1,90.
Mi tolgo in giubbotto, lo metto per terra, mi giro e lui mi passa la sfera.
La ricevo, faccio un paio di palleggi per capire, esco dall’area arretrando e faccio lo stesso tiro che gli ho visto fare per ultimo.
Diciamo saltando meno, ma quello è il concetto.
Che lui recepisce.
– Ah… ho capito, sei brutto cliente, tu, lo so – prende la palla che scende dal canestro e me la passa ancora.
Accento balcanico, quasi turco.
Niente preamboli.
– Vuoi giocare? Uno contro uno? Poi tu vai a fare tua spesa all’Iper.
Al che mi sono domandato.
Se uno decide intorno ai 50 anni di farsi deliberatamente del male in un campetto della Bovisa, che male c’è? 
Giochiamo, allora.
Palla a me, passaggio a terra.
La prendo mentre rimbalza, lui non si avvicina.
Aspetto un attimo, non viene.
Tiro. 
Canestro.
 Se non difendi, io segno.
Palla a me, all’americana.
Stavolta apro il palleggio per farlo muovere. Fermo il palleggio, lui non difende.
 Tiro. 
Canestro.
– Non difendi? – gli chiedo.
Lui sorride e mi fa:
 – Adesso tu ha voglia di giocare, vero?
Ha ragione.
Gli ridò la Wilson.
Mi porta a sinistra per entrare a destracercando un tiro dal limite dell’area, finta, sgamba sulla linea di fondo e al momento del contatto cerca di farmi un controllo del corpo spingendomi con la gamba destra.
Bellissimo movimento, ma io l’ho imparato nel 1983.
Più o meno alla tua età.
Fisso la mia linea difensiva con un piede sulla linea di fondo e lo fotto.
Esce dal campo con la palla in mano, non poteva tirare da dietro il tabellone.
– Dove hai imparato a giocare a basket? Sei forte, giochi bene – devo chiederlo, ha una preparazione tecnica che non c’entra niente con il campetto di Piazzale Accursio.
Dovrebbe stare in una palestra tutto il giorno a tirare a canestro finché non va alle Olimpiadi
Da dove spunta questo alieno?
I filippini dell’altra metà del campo si sono fermati e ci guardano.
Si sono ingolositi, lo chiamano e gli parlano, evidentemente lo conoscono.
Vorrebbero per una partita, almeno una volta, due giocatori nel ruolo di centro di 1,90 circa, uno per squadra, loro che generalmente arrivano al 1,70.
Ecco perché giocava da solo. 
Era troppo forte, o lungo, in ogni caso non giocava con gli altri nel multirazziale campetto di Piazzale Accursio, con la Wilson ci tira solo lui, infatti la mette sotto il canestro.
Il capo dei filippini mi convoca nel suo quintetto
 – Tu giochi con noi.
Fanno le squadre eccitatati e intanto gli chiedo: 
 – Come ti chiami?
 – Armin.
Armeno o giù di lì, dunque.
Io dovevo fare la spesa all’Iper, i miei gatti e mia figlia aspettano rifornimenti, ma sono troppo curioso.
Giochiamo, allora, mi stringo meglio le stringhe, sennò a cosa servono, se non a stringere?
Le Champions gemono, i piedi pure.
Abbiamo giocato per una mezz’oretta e passa.
Hanno vinto loro.
Armin ci ha fatto vedere tutta la pallacanestro che si può fare, e io ho difeso per fargli sudare ogni punto.
Totalmente rilassato, alla fine della partita ai 24 punti abbastanza concitata, il giovane espatriato ci ha regalato uno show di precisione, tirando quasi da fuori il campetto illuminato dagli ultimi raggi di sole di questo Aprile.
9 su 12, statistiche da Pro.
Dopo gli ho chiesto:
– Cosa ci fai qui oggi?
– Sono armeno e albanese, ho giocato per 3 anni in Turchia e ho vinto il campionato europeo Under 17 ma dopo sul confine a casa mia un casino, avevo un contratto a Istanbul con grande squadra, ma la mia famiglia è anche mezza siriana e ho dovuto aiutare, altri parenti hanno cercato fortuna, mio fratello era un campione di basket, per venire in Italia ci siamo fidati delle persone sbagliate, tutti i nostri soldi sono spariti, siamo arrivati tutti vivi solo perché io avevo dei soldi nascosti e abbiamo preso camion, tutti quelli che cercano di arrivare qui con il mare forse muoiono, ma forse sono già morti prima che partono.
– Come fai a dirlo?
– I nostri cugini sono morti in mare tanti anni prima di adesso, in mare.
– In che senso?
– È normale, se vuoi andartene, qualcuno della famiglia muore.
– È una cosa che pensate? È necessaria? Non c’è scelta?
Lui rimane zitto, mi guarda come se fossi un vecchio rincoglionito.
– Tutti i governi accettano che loro popolo scappi dalla loro terra perché vogliono soldi dagli altri paesi che devono prendere queste persone. Se muoiono tante persone è meglio, in giro per il mondo si muore di fame, anche vicino alla tua porta di casa e non te ne accorgi, ma adesso stanno venendo tutti in Europa.
– In Europa?
– Dalle altri parti del mondo non ci vanno, non si può, non li accettano più e li mandano indietro, fanno come tutti, aspettano che muoiono.
– Che lavoro fai?
– Il muratore in nero, con mio cugino.
– Ti faranno fare i controsoffitti senza la scala, vero?
– Non capisco…
– Scherzavo, quanti anni hai?
– 17.
– Anche no.
– 17 a ottobre.
– Giochi in una squadra?
– Niente documenti, niente squadra.
– Continua a giocare, sei veramente bravo.
– Lo so.
– Ciao Armin.
– Ciao.

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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