Il canale bracco

 

di Marino Magliani

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(mi è sempre molto difficile scegliere un passo da postare in un testo di Magliani, perché vorrei poterne poi aggiungere anche un altro, e poi un altro ancora … e insomma mettere tutto; e con questo “Il canale bracco” più che mai; sempre i suoi ingredienti minimi, di disarmante pedissequità, e qui forse ancora più titubanti, quasi sfiancati, e più autoironici, ma poi i soliti improvvisi e abissali corti circuiti, gli usuali affondi poetici, quasi dolorosi di bellezza, i suoi distillati di saggezza, quasi messi lì per caso, quasi essi stessi a disagio, desiderosi di farsi dimenticare; perché certo la sua è magnifica scrittura, ma c’è dietro il suo mondo, o insomma un mondo, che spinge e pulsa e alita, misterioso e struggente nella sua maschera di semplicità, che a momenti quasi ci fa dimenticare la scrittura; dove siete seriosi critici militanti, sapete leggere un testo, capite qualcosa, sapete riconoscere la musica di un pensiero, il bisbiglio perentorio e toccante ma anche manigoldo – niente di meno naif – di un’anima?; e voi grandi e medi editori, con le vostre certezze su cosa può piacere ai lettori (li conoscete?), le vostre altezzose e pavide certezze, i vostri colpevoli conformismi?; ma mi scuso per la mia tracotanza, certo fuori luogo, certo ridicola, patetica, trattandosi in sovrappiù di un amico, e ringrazio l’editore per la disponibilità; GS)

Man mano che proseguo sul molo lungo, vado notando due pilastri di ferro e una grata. Si direbbe un cancello. La sabbia che il vento sputava fin sull’asfalto ha lasciato il posto a una schiuma di onde, ma il palmo d’acqua dimenticato dall’alta marea non è ancora mare. Una frontiera segnata da un ostacolo della dimensione di un gradino, il mare vero sta oltre quel dorso.

Il molo si allunga nel vuoto come un dito disteso; s’intravede meglio il cancello pieno di carie, e sul bordo di cemento che delimita il catrame, ogni duecento metri hanno fissato il solito cippo delle quote, come se ne trovano sulla Via Appia.

Oltre la metà (il cippo riporta 2100 m) il molo compie la sua brusca sterzata verso nord. Fin qui, a sfidare gli scrolli, i pescatori non salgono: vento e basta, aria che odora di alga e di isole, che raschia gli scogli, sposta i gabbiani.

Un classico faro bianco con le strisce orizzontali rosse segna una delle due estremità avanzate, l’altra sta di fronte, a circa trecento metri. L’acqua all’interno degli spartivento appare meno selvaggia che in mare aperto. Qui, dove il Mare del Nord fa le sue “prove di sonno”, nasce e muore il Noordzeekanaal.

Ho contato un centinaio di imbarcazioni, ma non saprei dire se ne sono entrate o uscite di più: scafi di ogni dimensione e forma, potenza e eleganza; e poi chiatte, petroliere, mercantili, pescherecci, persino barche a vela, gozzi. Solitarie o accompagnate dai rimorchiatori. Prima entravano nel porto di Amsterdam attraverso lo Zuiderzee, poi è stato utilizzato il canale di Den Helder, ma il progetto di scavare un corridoio che collegasse direttamente Amsterdam al mare aperto era nell’aria da tempo. La sfida venne raccolta da un inglese, un certo signor Lee, che appaltò il lavoro per la buona somma di 27 milioni di fiorini e nel 1876 consegnò l’opera.

L’accesso alla scaletta che dà sul piazzale del faro è sbarrato da una rete. Salto sugli scogli e aggiro il recinto. Mi siedo sul muretto, la schiena appoggiata al faro. L’altezza del sedile è di poco superiore a quella della panchetta ligure, il luogo del carruggio dove a quest’ora, probabilmente, me ne starei seduto a guardare le macchine che passano. Questa strana sensazione di appartenere anche da lontano a qualcosa mi ha sempre impedito di chiedermi What Am I Doing Here? Che ci faccio qui e non in Dancalia? Che ci fa in cima alle dune inzuppate uno come me, per dire, che dalla sua valle, per guardare qualcosa ha sempre alzato gli occhi? O a parlare di mari aperti, io che ho sempre considerato il mare un posto per turisti. Forse si sceglie l’Olanda per una sorta di compensazione, ho detto una volta a Piet. Non ci si arriva per caso in cima a un molo. Stavolta non è una questione di sovrapposizioni… Qui c’è nulla, Piet. E se c’è nulla ti accorgi che non c’è angoscia; un posto che non è un mucchio e non è un vuoto; un molo che non è terra né mare. Questo molo sta al quartiere di Zeewijk come Zeewijk sta alla Liguria. Si parte da una valle dove sei più famoso della Coca-Cola e tutti ti salutano, per giungere dove l’unica cosa che sanno di te è che non hai un cane. È un lavoro di sottrazione, si sparisce piano piano, mica di colpo. Tu ci riesci bene, Piet. Il desiderio di non lasciare nulla è un progetto che io, raccontandoti, potevo solo rovinare… Dovevo venire fin quassù per capire?

Mettila come vuoi, in Olanda la sera finisci per girarti il collo di sciarpe, schiacci berretti sulle orecchie ed esci a conoscere spiagge, stagni, canali, le mani in tasca. In un alternarsi di paludi e pinete, vai per sentieri modellati dalle conchiglie, e forse non ci fai neanche più caso che sparisci.

Nidi di gabbiani e gufi, chiarori a mezz’aria, le prime volte certi colpi d’ala mi spaventavano. E i conigli che scappano, i cervi che saltano il filo spinato, e gli arbusti dai quali all’imbrunire escono le volpi, e i bunker dal cemento granoso spesso due metri, tutti collegati lungo la costa, fino a Hoek van Holland, l’Angolo dell’Olanda. Ma la storia raggiunge anche gli angoli. E Dio mio, quanti partigiani delle dune mandati al massacro…

Dirimpetto al molo c’è Beverwijk. Bever significa castoro. Quartiere del castoro. Pare che qualche secolo fa ci fossero davvero molti castori da queste parti, poi hanno costruito il canale e sono arrivate le acciaierie. Passato Beverwijk c’è Wijk aan Zee, la piccola Svizzera la chiamano, ma è difficile intuirlo.

Mi trovo a sud ovest, spalle al canale, guardo Zandvoort mezzo nascosto nelle nebbie. Dune, vapori, e dietro le dune IJmuiden, Bloemendaal, Zandvoort, Scheveningen e lontanissimo Hoek van Holland. Tutte a rappresentare una scala di valori che parte dal “basso”: acciaierie e pesca a IJmuiden, borghesia a Bloemendaal, turismo a Zandvoort, magia a Scheveningen. I giocatori di scacchi la conoscono anche come una variante della “difesa siciliana”, un’apertura giocata per la prima volta a Scheveningen: il nero imposta la struttura pedonale al centro, come una diga. Sccccchefeningheen. Ma come si pronuncia? I romantici partigiani-fotografi di Hoek van Holland usavano un metodo infallibile per identificare le spie tedesche: far dire loro Scheveningen come parola d’ordine.

Scheveningen è in realtà una spiaggia, la città è Den Haag, la capitale politica dei Paesi Bassi. Poco più di un paesone, formato da due strade e dai quartieri Belgisch Park e Duindorp, Scheveningen è molto più antico di Den Haag. I suoi abitanti dovevano essere vichinghi provenienti dalla penisola danese. Terra da sempre di tempeste e di gente che ha ricostruito ogni volta sul fango, fin quando Constantijn Huijgens non ha inventato la Scheveningseweg, il tratto che ha unito il villaggio a Den Haag. Il vero mutamento, tuttavia, l’ha conosciuto il secolo scorso con la costruzione degli stabilimenti balneari e del pier, il molo passeggiata, luogo di culto per gli olandesi.

Qualche anno fa, in occasione del Vlaggetjesdag, il giorno delle bandiere, sono andato a vedere le SprookjesBeldeen aan Zee, le statue del mare che popolano Scheveningen dal 9 giugno 2004. Si può dire che da quel giorno Scheveningen abbia ventitrè abitanti in più. Ventitrè statue in mezzo alle piazze e al boulevard, ventitre glorie figlie dello scultore Tom Ottorness, artista americano di Wichita, Kansas. Il materiale usato è il bronzo, il tema la lotta tra gli umani e il mondo. Gulliver, alto più di undici metri, Moby Dick, Geppetto e Pinocchio, Tin Soldier Boat, Ballerina, Oh, Lars, My Son, Il Leone e il Topo, Il Pesce e il Soldato.

Quanto buio in cima al molo. I primi tempi venivo qui a tradurre le parole per viverle. Solitudine è eenzaamheid. La pronunciavo male, diventava eindzaamheid. Una parola che qui non esiste. Tradotta alla lettera sarebbe “fine dell’essere”, che in italiano un senso ce l’ha.

Scendendo, rifaccio la conta dei cippi, alcuni mancano, cancellati dalle mareggiate.

Il cancello si trova a quota 1200 metri.

Oltre le sbarre, tra risciacqui e grida rotte e aeree, sento qualcosa. Una musica. Una musica? Una radiolina forse. Qualche pescatore notturno; c’è una bicicletta sul cavalletto, tre canne da pesca. Ma lui dov’è? Sarà nascosto, mi ha sentito arrivare e s’è nascosto tra gli scogli per non restituirmi il saluto. Piet dice che quassù ci vengono i selvatici. Non mi fermo, è notte e fa freddo, l’ora in cui girano solo le luci dei fari e i gabbiani, su questo molo sbilenco e tagliato in due. E poi sono stanco. Non sembra, ma hai camminato più di tre ore, mi dico. E tutto quel sale in faccia, seduto lassù in cima, mi ha dato sui nervi. C’è un odore di alghe grasse tra le dune, e i miei passi sorprendono gli animali, sciami di stornelli, i saltelli di un coniglio. La luce del faro scolpisce il profilo di un bunker. Mi ritorna alla mente Eindzaamheid, la parola nata dal caso e dall’errore: la fine dell’essere… la fine di un luogo.

 

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4 Commenti

  1. Concordo nel modo più assoluto con quanto ha scritto Giacomo Sartori en ouverture. Marino Magliani è uno degli autori più interessanti del nostro paesaggio letterario, ma l’editoria e la critica in italia, si sa, sono da tempo turisti distratti in cerca soltanto di un panorama. Così al cartografo Marino auguro mille viaggi ancora perché possa poi raccontarceli. effeffe

  2. I viaggi di Marino… lo porteranno presto a Torino!
    Sabato 16 maggio, alle ore 18.30 presso la Luna’s Torta (via Belfiore 50/e):
    Presentazione de “Il canale bracco”.
    A seguire apericena e alle ore 21.00:
    Presentazione di “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi reinterpretato da Marino Magliani e Marco D’Aponte in versione graphic novelper l’editore Tunué.
    Vi aspettiamo!

  3. “Altezzose e pavide certezze”: non si sarebbe potuto dir meglio! Sembra di ascoltarli, editore e editor: eh sì, questo Magliani scrive da Dio, ma questa è roba che non si vende.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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