didascalie: Renata Prunas
La seconda pelle
di
Tiziana Gazzini
Smagliate, sbagliate, color carne, colorate, a pois, intere, tagliate, cucite, rovesciate, sovrapposte, strappate, slabbrate, sformate dall’uso e scombinate
le calze sono la seconda pelle delle donne. Resistenti, trasparenti, seducenti, ma anche assassine, preferibilmente nella loro versione collant, sono la materia di lavoro e d’arte di Renata Prunas che dal 9 al 12 maggio presenta a Roma, al Caffè Letterario della Casa Internazionale delle Donne in via della Lungara 19, la mostra La seconda pelle.
Sardo-napoletana – Renata Prunas ama definirsi così – esordisce nei primi anni ‘70 con lavori vicini all’arte povera e all’arte concettuale. La leggerezza e la porosità del sughero delle sue prime opere vengono presto abbandonate per l’irruzione di un altro materiale, più leggero, più povero e duttile: il collant.
Negli anni ‘80 espone anche in una piccola galleria al numero 15 di via della Lungara. Si chiamava il luogo e proponeva una generazione di donne che si esprimevano artisticamente con l’antica arte del filo e del cucito. Nella mostra filo-logia (1981), a cura di Mirella Bentivoglio (15 artiste, tra cui Maria Lai), Renata Prunas era presente con un’opera intitolata Pagine: un libro fatto di collant. Il filo e il logos.
L’ attrazione per la consistenza (e l’in-consistenza) del suo materiale di lavoro preferito è per Renata Prunas ancora irresistibile. Insieme al Grande Collant immagine-manifesto de La seconda pelle, in mostra a Roma, una bicicletta per pedalare tra le nuvole e una sedia a sdraio, dalla seduta che può sostenere solo il peso immateriale della nostalgia: è l’installazione poetica ALTROVE, dedicata al ricordo di Piero Berengo Gardin, il compagno della vita.
Trecce che sembrano appena strappate a giovani ragazze biondo/castane, Prunas le appunta a cascata su una sorta di espositore, come macabri trofei da memoria concentrazionaria. L’eleganza sofisticata dell’oggetto d’arte si scontra con il sentimento di repulsione per l’esperienza – anche solo accennata – del momento più buio dell’umano/non-umano.
Lontane dall’agiografia vetero-femminista, le opere di Renata Prunas parlano delle donne con una salutare distanza critica. Più rabbia che lacrime. La seconda pelle non ha paura di farsi parola, di farsi logos, e di sfondare un diaframma oltre il quale può corteggiare forme di design criminale (il bellissimo e inquietante Separé). Prunas dissacra anche il dolore e la violenza col sapore dell’ humour noir e dell’ironia, nella logica del rovesciamento dei fini ispirata al luogo che ospita le sue opere, il Palazzo del Buon Pastore, un tempo luogo di contenzione per laiche, poi trasformato in monastero e ora Casa al servizio del mondo femminile.
Un’acquasantiera d’epoca, incastonata nella parete del Caffè Letterario, diventa lo spunto per un angolo da devozione mariana. Un grande olio ottocentesco che rappresenta una MA-DONNA dal cuore trafitto, è velato da calze dai colori quaresimali, intessute nel nobile e sensuale filo della seta. Inutile cercare irriverenze o consolazioni negli interventi di Renata Prunas. E nemmeno tranquillità.
Per nulla tranquillizzanti anche le opere più recenti, che raccontano gli annessi della riproduzione, il trauma della nascita con grucce di ferro, veli di collant, e un trovarobato dadaista che imita potenti cordoni ombelicali per creature che non starebbero a loro agio nemmeno nella culla di Rosmary’s Baby.
Piccole invettive velenose e trasparenti che mentre strappano un sorriso procurano un brivido. Un modo per rammendare le inevitabili smagliature del logos.