Scritti dopo gli attentati di Parigi – un e-book di Nazione Indiana
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Proponendo un e-book che raccoglie quanto è stato scritto su questo blog e sul blog amico alfabeta2 dopo gli attentati di Parigi di gennaio 1, viene subito da chiedersi se tale operazione editoriale abbia minimamente senso. C’è qualcuno a più di tre mesi di distanza da quegli eventi, che ha ancora voglia di rileggere questi testi, o di leggerli, magari, la prima volta? Un fatto è certo, gli attentati di Parigi hanno costituito un trauma per i francesi, ma anche probabilmente per tutti gli europei, e forse addirittura per tutti noi “occidentali”, anche se non mi è poi così chiaro cosa voglia dire “occidentali”. Il trauma in Francia c’è stato: lo conferma la mobilitazione straordinaria di quattro milioni di persone in occasione delle manifestazioni “ufficiali” di domenica 11 gennaio contro il terrorismo. Io ho seguito gli avvenimenti dalla Francia, dove vivo, e il mio coinvolgimento è stato intenso, come quello della maggior parte dei cittadini francesi. Negli altri paesi, come l’Italia ad esempio, l’impatto dell’evento potrebbe essere misurato considerando sia l’attenzione mediatica che gli attentati hanno riscosso nei canali ufficiali d’informazione, sia la quantità di materiali e discussioni in circolazione sui social network e sui blog durante quelle settimane. Si è reso evidente, tra l’altro, un fenomeno che io chiamerei di opportunismo mediale. Di fronte all’irruzione della violenza terroristica nel tessuto familiare della vita ordinaria, non vi è uso pregiudiziale dei media: tutto può servire, tutto può essere utile. Ogni gerarchia si dissolve: le grandi testate giornalistiche sono divorate con altrettanta curiosità del blog minoritario e indipendente, il social network più apolitico veicola dibattiti e materiali altrettanto politici della rivista di studi strategici. Ma questo consumo abnorme d’informazioni, come ci insegna Nietzsche, ha qualcosa dell’esorcismo: la conoscenza è una forma di neutralizzazione dello spavento.
Posto quindi che gli attentati di Parigi hanno probabilmente toccato da vicino anche chi non è francese e non abita in Francia, varrebbe la pena di chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’urto nelle nostre vite. Potrebbe darsi che l’evento sia stato abbondantemente consumato, che di esso non rimangano più residui, schegge disturbanti, a tenere vive la memoria e l’analisi. Il lavoro di ricerca e riflessione non ci riguarderebbe più in prima persona, e sarebbe stato nuovamente delegato ai media d’informazione di massa, come in genere avviene per le “grandi questioni” che agitano la nostra società. Il carattere traumatico dell’evento è consistito, infatti, non nella semplice scossa emotiva, ma in qualcosa di ben più importante che a questa scossa si accompagnava: l’esigenza di voler capire, e di prendere la parola. Il sentirsi bersaglio quasi in prima persona, confrontati alla violenza indiscriminata fin dentro la dimensione intima, domestica, del vivere, ci ha chiamati in causa tutti in un primo momento e non solo per condannare, ma anche per ragionare. Oggi, forse, si è accettato nuovamente che siano soprattutto gli opinionisti, gli esperti, i capi di stato o dei servizi segreti ad occuparsi di questa faccenda.
In Francia, il vivo dibattito che si era reso visibile sulla stampa durante tutto il mese di gennaio, e che si sforzava di far emergere il contesto più ampio e variegato all’interno del quale situare gli attentati, fa spazio oggi all’iniziativa del governo, che con procedura d’urgenza vuole imporre un disegno di legge sulle attività dei servizi segreti, per rendere più efficaci le procedure di controllo e prevenzione degli atti di terrorismo. Di fatto, questa legge rende legali tutte le attività di sorveglianza informatica generalizzata che erano finora considerate illegali, e amplia i motivi che legittimano l’azione dei servizi segreti nei confronti della vita dei cittadini, inserendo voci estremamente generiche quali “prevenzione di attentati alla forma repubblicana delle istituzioni” o “interessi prioritari della politica estera” (www.lettera43.it/politica/la-francia-verso-una-sorveglianza-di-massa-del-web_43675165388.htm). Contro questa legge si sono già mobilitati in molti, dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani e dai sindacati della magistratura fino agli stessi provider. Essa sancisce comunque la scomparsa del dibattito sulle cause e i motivi degli attentati di Parigi, spostando tutta l’attenzione sulla questione “sicurezza”. Il governo, in questo modo, non è solo l’autore di un disegno di legge liberticida, ma anche colui che definisce le priorità del dibattito pubblico. Il terrorismo da fenomeno ambiguo e complesso, che richiede di essere indagato e chiarito nei suoi molteplici aspetti, diviene un assunto indiscutibile, un semplice dato di fatto, che suscita semmai una discussione sui metodi scelti dallo Stato per combatterlo.
Nel frattempo il rumore di fondo mediatico e politico alimentato dal fantasma dello “scontro di civiltà” è ancora percepibile, e cresce semmai d’intensità. L’idea che sia in atto una sorta di guerra contro l’occidente, e che questa guerra si generi nel seno di un soggetto dai contorni vaghi e ampi, come il mondo arabo-musulmano, è qualcosa che piace sia ai giornalisti sia ai politici, in Italia e altrove. Negli scritti apparsi a caldo su Nazione Indiana e alfabeta2, pur nella diversità di approcci e di posizioni, ci si è tenuti ben lontani da un tale schema interpretativo, non solo perché ritenuto infondato, ma anche perché foriero di ulteriori sofferenze e violenze.
Non si troveranno in questi testi analisi geo-politiche sul Medio Oriente e sul Maghreb, sul bilancio catastrofico delle politiche statunitensi e europee in tali regioni del mondo; neppure studi sulla genesi storica, sociale e politica del jihadismo o sulle guerre intestine che, in nome delle diverse confessioni musulmane, s’innestano su conflitti regionali di origine politica ed economica. Ognuno di questo testi, però, ha colto negli eventi traumatici di Parigi come una cristallizzazione di molteplici realtà, che richiedono di essere pensate assieme, approfonditamente e senza alcuna scorciatoia. Non ha senso, ad esempio, celebrare astrattamente la libertà di espressione, senza considerare ogni contesto determinato in cui tale libertà è esercitata. Non esiste un metro campione di tale libertà, al di fuori della dialettica storica che vede concrete battaglie per salvaguardare tale libertà da minacce di diversa natura. Non ha senso considerare gli attentatori di Parigi come dei puri prodotti della propaganda jihadista internazionale, come se essi non fossero stati dei cittadini “occidentali”, ossia dei francesi nati e vissuti in Francia, e quindi ampiamente impregnati di esperienze fatte in seno alla società francese.
Vorrei, per concludere, aggiungere un paio di considerazioni. La prima riguarda nuovamente l’idea mediaticamente e politicamente prediletta dello scontro di civiltà o di culture. Ora, mi sembra che già da un punto di vista teorico una tale idea sia una completa assurdità. Per avere uno “scontro fra civiltà” bisognerebbe innanzitutto che esistessero due entità sufficientemente omogenee e discrete in grado di opporsi. Dubito che queste “entità” esistano. Qualcuno ha un’idea chiara di cosa sia la civiltà occidentale? E soprattutto questa civiltà occidentale ha una personalità semplice, dai confini precisi e una volontà univoca, a cui potremmo opporre un’altra personalità altrettanto semplice e precisa, dalla volontà anch’essa univoca? E quale sarebbe quest’altra civiltà? Quella araba? O quella musulmana? O quella frutto del mosaico stratificato di culture, regimi politici, identità nazionali, che si snodano dal Maghreb al Mashrek e che hanno intricatissime storie locali, nazionali e internazionali? Uno dei presupposti principali che dovremmo ormai accettare, all’alba del XXI secolo, quando parliamo di civiltà, è che ogni civiltà porta con sé elementi di progresso umano e di barbarie. E che ogni visione manichea, da questo punto di vista, è già un partito preso verso la barbarie.
La seconda considerazione riguarda la giovane età dei jihadisti, e indico con questo termine coloro che, da varie parti del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Africa all’Asia, cercano di raggiungere la Siria o l’Iraq o qualsiasi altro luogo dove sembra svolgersi la battaglia campale tra i santi valori dell’Islam e le forze della corruzione e del male, siano esse rappresentate da un regime arabo considerato illegittimo o da forze militari e politiche occidentali o filooccidentali. Durante tutte le guerre, ma anche tutte le rivoluzioni, alcune delle cose più straordinarie e generose e molte delle cose più terribili e disumane sono state fatte da ventenni o sono state fatte fare a dei ventenni. Da europei celebriamo ogni giorno con orgoglio la nostra condizione di cittadini di paesi che vivono in pace, che non conoscono la guerra a casa loro. Bisognerà, però, interrogarsi su questo numero, minoritario certo, ma significativo, di giovani e giovanissimi europei pronti a partecipare ad una guerra, a sacrificare le loro vite, e a distruggerne delle altre. Anche in questo caso non ci sono risposte semplici, ma le caratteristiche del Corano non sono di certo sufficienti, ancora una volta, per spiegare questi comportamenti. Nel suo articolo su Le Monde diplomatique di aprile, Pour en finir (vraiment) avec le terrorisme, Alain Gresh cita uno specialista statunitense dell’islam ed ex funzionario della CIA, Graham Fuller. Quest’ultimo scrive: “Anche se non ci fosse una religione chiamata islam o un profeta chiamato Maometto, lo stato delle relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente oggi sarebbe più o meno identico. Ciò può sembrare controintuitivo, ma mette in luce un punto essenziale: esiste almeno una dozzina di buone ragioni per le quali le relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente siano cattive (…): le crociate (…), l’imperialismo, il colonialismo, il controllo occidentale delle risorse energetiche del Medio Oriente, la promozione di dittature pro-occidentali, gli interventi politici e militari occidentali senza fine, le frontiere ridisegnate, la creazione da parte dell’Occidente dello Stato d’Israele, le invasioni e le guerre americane, le politiche americane (…) riguardanti la questione palestinese, ecc. Nulla di tutto ciò ha alcun rapporto con l’Islam. ” Il fatto che le molteplici ragioni di conflitto tra Medio Oriente e Occidente, pur avendo carattere sociale, economico e politico, siano formulate prevalentemente in termini culturali e religiosi, non ci deve esimere dal compito di identificare lucidamente le cause principali di questo conflitto e di considerare la responsabilità dei dirigenti occidentali, quelli statunitensi in testa, nel perpetrarsi di tale situazione.
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[I testi di Alain Badiou (la traduzione italiana), Andrea Inglese (Note su “Io sono Charlie” e il suo contraltare), Enrico Donaggio, Franco Buffoni, Youssef Rakha, Davide Gallo Lassere sono apparsi sul sito di alfabeta2 nello speciale Toujours Charlie? a cura di Andrea Inglese (impaginazione web Nicolas Martino) il 7 febbraio 2015. Tutti gli altri testi, presentati in ordine cronologico, sono apparsi su Nazione Indiana tra l’8 gennaio e il 27 febbraio 2015.]
- Eccezion fatta per il pezzo di Philippe Muray, apparso nel 2002↩