Le culture del precariato

di Silvia Contarini

“Pensare il precariato e le differenze nell’Italia della globalizzazione”9788897522973

L’articolo è incluso nel volume Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Verona, ombre corte, 2015.

 

Questo nostro saggio intende contribuire a pensare l’interazione tra precariato e differenze, con riferimento specifico alla situazione italiana attuale. Procederemo per giustapposizione di problematiche allo scopo di mostrare come una riflessione sul precariato non possa ignorare fattori quali l’appartenenza sessuale, la questione razziale e il fenomeno migratorio: “La precarietà della condizione salariale riguarda alcuni gruppi sociali più di altri: le donne e gli immigrati, a cui generalmente erano riservati settori specifici nel mercato del lavoro, sono generalmente i più colpiti. Sessismo e razzismo si combinano infatti […] per mantenere una parte della popolazione in posizioni subordinate nel mercato del lavoro”[1].

Premettiamo che su questi temi si interrogano da anni femministe di orientamenti diversi, tra cui quelle che fanno capo al cosiddetto femminismo postcoloniale, come Talpade Mohanti, che riflette sulle “connessioni esistenti tra strutture sessiste, razziste e classiste a livello internazionale” nonché sul “lavoro da donne”[2]. Anche il femminismo italiano si interessa alle nuove configurazioni e accezioni del “lavoro femminile” in connessione con precariato e migrazioni, nel più generale contesto della globalizzazione e della decolonizzazione[3].

  1. Somali a Roma

Nel suo romanzo Madre piccola, Cristina Ali Farah, scrittrice di madre italiana e padre somalo, vissuta fino a diciotto anni a Mogadiscio poi fuggita in Italia a causa della guerra civile, racconta le vicissitudini della diaspora somala, in particolare della comunità romana. Una delle protagoniste, Barni, da anni immigrata a Roma e piuttosto felice di viverci, di professione ostetrica, così commenta la situazione: “In fondo per noi donne è molto più semplice, non è forse vero che facciamo la stessa vita ovunque ci troviamo? Non continuiamo forse a occuparci, a prenderci cura di qualcuno?”[4]. Barni afferma insomma che uomini e donne non vivono l’e/im/migrazione nello stesso modo, le donne si adattano meglio grazie a un’atavica abitudine al sacrificio di sé e alla dedizione; inoltre, il tipo di attività che esse svolgevano in patria (lavori domestici o di cura) è lo stesso nel nuovo paese di residenza. Questo succede nella fiction romanzesca[5], come nella realtà: Nuruddin Farah, scrittore somalo di lingua inglese, descrive una situazione simile in Rifugiati, Voci della diaspora somala[6], un libro composto da riflessioni personali e interviste a somali in diaspora. Come un leit motif, le donne somale intervistate gli raccontano che sono costrette a lavorare per mantenere mariti, figli, fratelli, cugini; tuttavia così si emancipano e si integrano e perciò “se la passano meglio degli uomini” o addirittura “stanno godendo di un certo successo economico”[7]; gli uomini, invece, non si abbassano a fare lavori umilianti, e bighellonano nei luoghi di ritrovo comunitari, restano tra loro, e “per sopravvivere, contano esclusivamente sul sudore delle donne, piuttosto che su quello della propria fronte”[8]. C’è di più: benché alla fine dipendano dalle donne, gli uomini continuano a considerarle loro subordinate e pretendono di essere serviti. Dice una somala che ospita numerosi “ragazzi” della sua famiglia:

“Pur essendo padrona di me stessa, non sempre riesco a mantenere il controllo sulle cose […]. Io indosso la veste di donna di servizio sei giorni a settimana, per guadagnare da vivere, e il mio stipendio mi serve per dare da mangiare a degli uomini che pretenderebbero fossi io a mettere in ordine il loro caos, dopo che ritorno a casa mia. In quanto donna, sono perennemente soggetta a recriminazioni e rimproveri, se non servo gli uomini in tutto e per tutto”[9].

 

Va subito osservato che questi comportamenti maschili e femminili, lungi dall’essere imputabili a una cultura specifica somala, riproducono strutture patriarcali dominanti su scala transnazionale. Ma va osservato anche che alle donne immigrate, doppiamente subordinate, vengono doppiamente assegnati lavori di domesticità, di cura. Il cosiddetto fenomeno delle domestiche della globalizzazione, già oggetto di studi[10], assume particolare rilievo in Italia[11] dove l’immigrazione fin dagli anni Novanta è caratterizzata da una forte presenza femminile, spiegabile in gran parte con l’invecchiamento della popolazione e le carenze del welfare[12]. Le donne immigrate sono dedite in grandissima maggioranza a tre attività: lavori domestici o di assistenza familiare (colf, badanti, infermiere, etc.), lavoro casalingo (donne arrivate per ricongiungimento familiare), lavoro nell’industria del sesso (il commercio sessuale è svolto in percentuali superiori all’ottanta per cento da immigrate)[13]. Le immigrate rimangono quindi confinate a lavori di cura e di prostituzione, ossia attività convenzionalmente femminili. Si osservi anche il divario che si instaura tra le donne italiane, che svolgono fuori casa attività socialmente riconosciute, e le donne immigrate, che le sostituiscono nei lavori domestici: l’emancipazione delle une si fa grazie al mantenimento delle altre in ruoli subordinati[14]. Secondo i punti di vista, alcuni notano che in questo modo due donne lavorano, altri che due madri non si occupano dei propri figli…

Un’ulteriore osservazione va a rimarcare che il lavoro di cura diventa fonte di reddito: se tra le immigrate si perpetuano ruoli di genere tradizionali, il lavoro, sia pure quello domestico, umile e precario, rappresenta un momento di autodeterminazione e uno strumento di autonomia economica; di conseguenza, l’immigrazione crea una possibilità di svincolo dalle strutture familiari e dalla cerchia comunitaria, crea una possibilità di transizione da una condizione, certo stabile ma ancestrale e fissa, a un’altra certo precaria ma autonoma e in movimento. E, come nota Campani, “il cambiamento di ruoli tra uomini e donne, nei più recenti flussi migratori, è percepito all’interno dei gruppi immigrati e non manca di provocare tensioni, crisi, difficoltà”[15].

Un’ultima osservazione, trattandosi nel caso preso in esame di immigrazione dalla Somalia, riguarda il fattore postcoloniale, poiché le eredità del colonialismo “hanno giocato un ruolo fondamentale nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia contemporanea”, afferma Sabrina Marchetti nel suo recente Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale[16], libro dedicato all’immigrazione femminile in provenienza da un’altra ex-colonia, l’Eritrea. Marchetti si interroga sulle relazioni tra soggettività migrante postcoloniale, lavoro domestico e di cura, e storia del colonialismo e della decolonizzazione; come suggerisce, si potrebbe vedere nelle colf e badanti del corno d’Africa oggi in Italia una variante neo-coloniale delle donne a servizio nelle famiglie italiani ai tempi del colonialismo. Anche su questo punto, la fiction fornisce rappresentazioni suggestive; basti pensare al romanzo Regina di fiori e di perle, dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi, nel quale leggiamo la storia di Woizero Bekelech: era meno sfruttata quando lavorava come domestica in una famiglia italiana di Addis Abeba, di quanto lo sia ora che fa la badante in un paesino emiliano, presso una famiglia che le fa subire anche umiliazioni di stampo razzista e colonialista[17].

  1. Femminilizzazione del lavoro

Queste osservazioni, che pertengono alla questione del precariato in rapporto a immigrazione e genere, ci hanno permesso di entrare in materia. In una prospettiva diversa, focalizzata sulla valorizzazione del care, si situa invece il recente saggio di Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, pubblicato con una prefazione di Judith Revel nella collana UniNomade di ombre corte[18]. Morini sviluppa diverse osservazioni sulle donne e il care labour, i lavori di cura alle persone, formulando la proposta originale di incrociare i due concetti di differenza e precarietà, per definire la condizione del soggetto precario-differente, un soggetto multiplo, dice, senza identità fissa né sostanza stabile, soggetto transitorio e in trasformazione[19]. Nel primo capitolo intitolato Razza precaria, Morini spiega che la transizione è lo status comune del soggetto contemporaneo, e perciò occorre far leva sull’alterità piuttosto che sull’identità[20]. Precisa però che il concetto di differenza è di per sé insufficiente per spiegare le trasformazioni del mondo del lavoro, in particolare la sua femminilizzazione. Nel secondo capitolo, intitolato appunto La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo, Morini precisa che per femminilizzazione intende non tanto un aumento quantitativo della popolazione attiva femminile[21], quanto piuttosto una modificazione qualitativa del lavoro contemporaneo, di cui il lavoro femminile diventa paradigma: le condizioni normalmente riservate alle donne (assoggettamento, precarietà, bassi livelli salariali, disvalore sociale) si estendono agli uomini; nel contempo, la manodopera a basso costo, flessibile, ricattabile, ricercata a livello mondiale con le delocalizzazioni, si trova anche in loco, in Occidente, grazie alla presenza sul mercato di donne e immigrati. Infine, per femminilizzazione del lavoro intende anche l’estensione del care labour, concetto inclusivo del cognitive labour, in correlazione al disfacimento di un sistema welfare che assicura sempre meno prestazioni sociali.

Nel seguito del saggio, Morini riporta una sua inchiesta di terreno, condotta a Milano, tra lavoratori della conoscenza precari (giornalisti free lance). Ora, a nostra sorpresa, le interviste di Morini danno risultati curiosamente simili a quelli delle interviste alla comunità somala condotte da Nuruddin Farah. Le giornaliste italiane free lance, come le immigrate somale, confrontate a una nuova situazione, hanno maggiore capacità di adattamento degli uomini, i quali “mostrano più difficoltà ad adattarsi alle nuove dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo”[22]. Questa dimensione polivalente e qualitativa introdotta dalla femminilizzazione del lavoro includerebbe una generalizzazione dell’oblatività, ossia la richiesta di totale disponibilità e dedizione da parte del soggetto. Ne traiamo la seguente conclusione: proprio la capacità di adeguarsi e consacrare se stesse che rende le donne appetibili per il mercato del lavoro, rende il lavoro non più appetibile a chi non voglia adattarsi e dedicarsi, ossia femminilizzarsi… Insomma, il mondo del lavoro attuale richiede requisiti (sacrificio di sé, disponibilità totale, predisposizione alla cura) di cui le donne si avvarrebbero senza sentirsi svalorizzate, o perché già tali.

Il saggio di Morini indurrebbe a osservare che la precarietà sembra contribuire alla de/ricostruzione identitaria, degenerizzando il lavoro; in altri termini, la precarietà andrebbe contro la dicotomia, anche fordista, uomo/donna, produzione/riproduzione; il lavoro oggi andrebbe “oltre il genere”, oltre la classica divisione sessuale del lavoro[23]. Ne consegue, per Morini, che uomini e donne, entrambi precarizzati nel mondo globalizzato, subiscono le stesse condizioni e devono portare avanti la stessa lotta e le stesse rivendicazioni; per esempio, nell’immediato, la richiesta di un basic income (reddito garantito), il quale permetterebbe il recupero dell’autonomia del soggetto, l’autodeterminazione, il diritto alla scelta del lavoro. Un’ulteriore affermazione di Morini si pone sotto il segno della volontà di cambiamento: rivalutare e riappropriarsi del care può indicare “un fare comune”, la costruzione di un modo diverso di pensare e vivere nel mondo[24].

Sebbene le analisi proposte da Morini siano stimolanti e individuino con precisione molti nodi problematici, né l’una né l’altra delle conseguenze che ne trae sono del tutto convincenti, e anzi sollevano perplessità. Nell’affermare che nel mondo globalizzato e precarizzato donne e uomini, italiani e immigrati, bianchi e neri, subiscono le stesse condizioni, si appiattiscono proprio quelle differenze poste inizialmente alla base della riflessione sul soggetto precario-differente; e l’invito di unirsi rivolto ai precari rischia di riattualizzare la vecchia diatriba sulla priorità della rivoluzione di classe rispetto ai movimenti di liberazione. Ma le maggiori perplessità vengono dall’altra conclusione di Morini, l’incoraggiamento a rivalutare il care, ossia il prendersi cura degli altri, prerogativa culturalmente e storicamente assegnata al genere femminile, per farne la base di un nuovo modo di vivere comune, senza interrogarsi sul fatto che così si estenderebbero agli uomini (o piuttosto, a certi uomini, disoccupati, immigrati) i valori su cui si è costruita nei secoli la condizione di assoggettamento e sottomissione delle donne. Noi non saremmo così sicuri che il sacrificio di sé, l’oblatività, la domesticità, il curare anziani, malati e bambini, la mutua assistenza siano le migliori fondamenta per un cambiamento positivo.

  1. Connessioni precarie

Alle lotte contro il precariato sono dedicati diversi siti e progetti[25], ma di connessione tra differenze e precariato, con attenzione specifica ai fenomeni migratori e alle problematiche di genere, si parla soprattutto su connessioniprecarie.org, un sito fondato da precari e migranti, ricco di materiali a carattere politico, sociale e culturale, condivisibili o meno. La dichiarazione di intenti che figura in home page è particolarmente interessante; leggiamo: “∫connessioni precarie è un’area di uomini e donne, precari e non, migranti e italiani che hanno assunto come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e complessiva del lavoro contemporaneo. La nostra scommessa è quella di rompere l’isolamento dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dalle differenze che li dividono. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà”. Un “legame globale” personificato dai migranti, “il pezzo di globalizzazione soggettivamente presente in Italia e in Europa”[26], così definiti in un altro articolo, dedicato al basic income, la cui attribuzione, secondo gli autori, vedrebbe opposti lavoratori precari italiani e immigrati con difficoltà di regolarizzazione.

I fondatori e animatori di questo sito ritengono quindi che le diverse forme di precarietà e le diverse lotte non vadano pensate al di là delle specificità, ma proprio a partire da queste. Leggiamo, in un altro editoriale, che “il lavoro è sempre più frammentato, solcato da differenze e gerarchie che sono contrattuali, sessuali, razziali, di cittadinanza”[27]. Le connessioni tra migrazione, precarietà e genere, sono ribadite anche nel testo-manifesto, I diritti e qualcosa di più: Verso una Precarious’ Charter, diviso in dieci “comandamenti”. Recita il quinto comandamento: “Precario ricorda che sei migrante. Il lavoro migrante è una forma paradigmatica di precarietà”, insistendo sulla ricattabilità del precario, sulla precarietà del permesso di soggiorno, e sul razzismo istituzionalizzato.

Recita il sesto comandamento:

“Precaria ricorda che sei donna […]. La femminilizzazione del lavoro non riconosce alcuna qualità specificamente femminile, ma è una modalità di messa al lavoro e di sfruttamento di tutti i precari e ancor più delle donne. Nel privato le donne pagano – spesso con il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e di cura; nel pubblico, il welfare che ancora sopravvive fornisce contributi monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di cura. Le donne non sono solo un segmento del lavoro tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma contemporanea di tutto il lavoro”[28].

Insomma, le due categorie che più subiscono il precariato e lo sfruttamento sono gli immigrati e le donne[29]; gli uni perché ricattabili e oggetto di disprezzo a connotazione razziale, le altre perché storicamente confinate a lavori di cura. L’analisi qui sopra, vicina a quella di Morini, se ne distingue per due sfumature che teniamo a sottolineare e sviluppare: la prima è che la cosiddetta femminilizzazione del lavoro non rimanda a qualità specificamente femminili, col rischio di naturalizzarle, è una modalità di sfruttamento radicata in secolari rapporti di dominazione. La seconda è che riflettere sulla posizione delle donne (ovvero: la sedicente predisposizione femminile alla cura, al dono e al sacrificio, sfruttata dalla società patriarcale) permette di pensare la posizione attuale del precario, sfruttato dalla società neoliberale.

  1. Connettere le disconnessioni

Nel presentare in un primo capitoletto, attraverso un romanzo e un libro di interviste, la situazione delle donne somale in Italia e più in generale la situazione delle domestiche della globalizzazione tra emancipazione e precariato; in un secondo capitoletto, lo studio di Cristina Morini sulla femminilizzazione del lavoro e sull’influenza e la diffusione del care; e in un terzo, un sito web di lavoratori precari dall’emblematico nome connessioni precarie, in cui si afferma l’importanza delle differenze per affrontare la riflessione sulla precarietà, abbiamo operato anche noi un collegamento, forse temerario, di problematiche e materiali disparati, con l’intento di “attraversare” le differenze, farle dialogare. Così operando abbiamo voluto soprattutto mettere in rilievo non tanto l’evoluzione del mercato del lavoro e della precarizzazione nello specifico italiano, quanto lo stretto legame su scala mondiale tra migrazione, femminilizzazione, precariato, e quindi affermare la necessità – quando si vogliano pensare le trasformazioni in corso nel mondo globale attuale, e quindi in Italia – di non sottovalutare le interazioni tra fattori di differenti soggettività.

Per concludere, vorremmo citare ancora Morini, quando afferma che “il potere non disdegna di ‘femminilizzare’ anche gli uomini, se questo significa abbassarne le condizioni e ridurne i diritti. Li femminilizza anche nella richiesta di partecipazione e di oblatività”[30]. Leggendo questa giusta osservazione, ci siamo chiesti: allora, hanno ragione gli uomini somali quando rifiutano di accettare la condizione di migranti e precari, rigettando lavori di cura o schiavizzanti (come la raccolta di pomodori), perché così esprimono il rifiuto di una condizione degradante, quella riservata alla donna e al servo, una condizione di doppia sottomissione? Il loro rifiuto della femminilizzazione di sé, in questo senso, è rifiuto della subalternità nella sua forma neocoloniale. Ma ci si può chiedere anche se non abbiano ragione le donne (somale, eritree, italiane, etc.) che, accettando la disponibilità e l’abnegazione insite nel care, accettano anche la transitorietà e il cambiamento, facendo propria una nuova condizione in cui vedono l’opportunità di autodeterminazione e autonomia.

Una prima risposta la possiamo dare insistendo sulla necessità di non semplificare la complessa articolazione dei rapporti di dominazione, in particolare l’interazione dei fattori di genere, etnia, classe, rinviando al dibattito, tuttora in corso in ambito femminista, sul concetto metodologico di intersezionalità, che permette di pensare la difficoltà dell’articolazione dei rapporti di discriminazione ed esclusione[31].

Una seconda risposta ci permette di tornare su una precedente considerazione. Quando si propone di rivalutare il care per farne la base della costruzione di un “fare comune”, o quando si parla di degenerizzazione del lavoro come superamento positivo della divisione sessuale del lavoro, si rischia di sottovalutare il radicamento della polarizzazione femminile/maschile, la determinazione di prerogative che culture secolari hanno assegnato a donne e uomini: perché di fatto il femminile resta fortemente ancorato alla negatività (degrado, subordinazione, passività) squalificando qualunque soggetto ne porti il segno, sia esso donna o uomo; mentre il maschile resta il polo positivo, che implica affermazione, forza, intelletto, dominio. Vogliamo dire, ricordando queste ovvietà, che il fattore di genere come quello di razza rinviano – oltre a divisioni di ruoli sociali – anche a categorie ideologiche (e non naturali), a interiorizzazioni di valori; e queste sono molto più insidiose, molto più profonde di quanto si pensi, e perciò molto più difficili da scardinare.

In altri termini, una riflessione sul precariato che ignori l’impatto delle differenze è inevitabilmente parziale, nel duplice senso di incompleta e di parte. Come ricorda Talpade Mohanty, “Proprio come le idee di ‘maternità’ e di ‘domesticità’ sono costrutti storici e ideologici piuttosto che ‘naturali, l’idea di un ‘lavoro tipico da donne del Terzo mondo’, in questo contesto particolare trova il proprio fondamento nelle gerarchie sociali strutturate da sesso/genere, dalla razza e dalla classe”; e ancora: “Le ideologie della clausura e della domesticità delle donne sono di chiara natura sessuale, essendo la derivazione diretta delle nozioni maschili e femminili di protezione e proprietà. Si tratta anche di ideologie eterosessuali, basate sulla definizione normativa delle donne in quanto mogli, sorelle e madri – mai slegate dalla relazione matrimoniale e dalla ‘famiglia’”[32].

[1] Giovanna Campani, Genere, etnia e classe. Migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa 2005, p. 136.

[2] Chandra Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti, trad. it. di G. Giuliani, ombre corte, Verona 2012, p. 102. Ai fini del presente studio, si rimanda soprattutto ai capitoli Cartografie della lotta, pp. 63-114, e Lavoratrici e politica della solidarietà, pp. 137-175.

[3] Menzioniamo almeno: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della ri-produzione, Rubettino, Roma 2001; Beatrice Busi, Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale, in Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi, culture, lavoro, manifestolibri, Roma 2006, pp. 69-83; Alice Mattoni, La questione femminile nelle lotte contro la precarietà in Italia, in “Inchiesta”, luglio-settembre 2008, pp. 102-115; Laura Fantone (a cura di), Genere e precarietà, Scriptaweb, Napoli, 2011, scaricabile in formato PDF su https://www.academia.edu/7204504/Genere_e_Precarieta. Benché non riguardi direttamente la situazione italiana, si veda anche Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, trad. it. di A. Curcio, ombre corte, Verona 2014.

[4] Cristina Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, Milano 2007, p. 264.

[5] Vedi anche il romanzo di Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma 2004, in cui una delle tre protagoniste, Barni, “faceva la domestica a ore e si doveva scapicollare per diverse zone di Roma a lavare cessi rosa molto sudici” (p. 21).

[6] Nurrudin Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, Roma 2003, trad. e intr. di A. Di Maio.

[7] Ivi, p. 212 e p. 238.

[8] Ivi, p. 105.

[9] Ivi, pp. 108-109.

[10] Vedi per esempio Rhacel Salazar Parreñas, Servants of Globalization Women. Migration, and Domestic Work, Stanford University Press, Stanford 2001; Ruba Salih, Mobilità transnazionali e cittadinanza. Per una geografia di genere dei confini, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 153-166; Silvia Cavallini, Il lavoro domestico delle donne immigrate in Italia, in Maria I. Macioti, Vitantonio Gioia, Katia Scannavini (a cura di), Migrazioni al femminile. Protagoniste di inediti percorsi, EUM, Macerata 2007, pp. 65-86.

[11] Tuttavia, anche in altri paesi, si assiste a fenomeni simili; si veda per esempio Maria Kontos, Donne migranti in Germania e mercato globale del lavoro domestico, in Giovanna Campani (a cura di), Genere e globalizzazione, ETS, Pisa 2010, pp.159-175.

[12] I dati Istat aggiornati al primo gennaio 2013, confermano la tendenza: le straniere residenti sono 2.327.968, gli stranieri 2.059.753 (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1&Lang=). Cfr. anche Antonio Ricci e Franco Pittau, La presenza femminile nella immigrazione: famiglia, matrimoni e coppie miste, in Migrazioni al femminile, cit., pp. 17-63; Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, p. 20.

[13] Sui settori di attività delle donne immigrate, rinviamo a Campani, Genere, etnia, cit., pp. 112-146. Sul lavoro sessuale, rinviamo a Busi, Il lavoro sessuale, cit.

[14] Non è questa la sede per attardarsi sul punto, ma vorremmo attirare l’attenzione sul pericolo insito nell’idea di una di emancipazione “colpevole” delle donne occidentali, quale emerge, per esempio, dalla Presentazione di Renate Siebert al volume di Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., pp. vi-vii.

[15] Ivi, p. 141. A cura della stessa Campani, meno incentrato sulla situazione italiana e sul mercato del lavoro, si veda anche Genere e globalizzazione, cit.

[16] Sabrina Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Ediesse, Roma 2011, p. 26.

[17] Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007. La Storia di Woizero Bekelech e del signor Antonio è alle pp. 243-277.

[18] Ricordiamo anche il precedente: Cristina Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, DeriveApprodi, Roma 2001.

[19] Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010, p. 38.

[20] Ivi, p. 48.

[21] Sul punto, ma con prospettive diverse, si veda Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., la quale analizza il “processo di femminilizzazione della produzione sia a livello concreto che metaforico” (p. 47) nei mutamenti globali in corso. E si veda anche Judith Revel, Féminisation du travail et précarisation de l’existence: deux paradigmes superposés, in Silvia Contarini e Luca Marsi (a cura di), Précariat. Pour une critique de la société de la précarité, Presses Universitaires de Paris Ouest, Nanterre 2014, pp. 125-136; Revel osserva anche che nel processo di femminilizzazione delle condizioni di lavoro (ossia di degrado) le donne, inizialmente preposte a questo genere di lavori, vengono sostituite da immigrati e precari. Si veda infine Gruppo Sconvegno, Un’istantanea della precarietà: voci prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà, in Fantone (a cura di), Genere e precarietà, cit., pp. 117-133.

[22] Ivi, p. 70.

[23] Ivi, p. 124.

[24] Ivi, pp. 20-21.

[25] Cfr., per esempio, http://www.precaria.org/ e http://www.universitadelledonne.it/precas.htm.

[26] Costellazione precaria: riflessioni minime sul reddito garantito, 12 gennaio 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/01/12/costellazione-precaria-riflessioni-minime-sul-reddito-garantito/ (senza firma).

[27] Dai precari alla precarietà: per dire addio a entrambi, 22 settembre 2011, in http://www.connessioniprecarie.org/2011/09/22/dai-precari-alla-precarieta-per-dire-addio-a-entrambi/ (senza firma).

[28] I diritti e qualcosa di più: verso una Precarious’ Charter, 19 marzo 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/03/29/i-diritti-e-qualcosa-di-piu-verso-una-precarious-charter/.

[29] Sulla precarietà lavorativa e esistenziale delle donne, cfr. anche saggi e testimonianze raccolti da Clotilde Barbarulli e Liana Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari 2006.

[30] Morini, Per amore, cit., p. 125

[31] Cfr. tra i vari studi, in lingua italiana, Sabrina Marchetti, Intersezionalità, in Caterina Botti (a cura di), Le etiche della diversità culturale, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 133-148. Si veda anche Elsa Dorlin, “Sexe” “race” et “classe”: comment penser la domination?, in Sexe, genre et sexualités, PUF, Paris 2008, pp. 79-88.

[32] Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere, cit., p. 102, la prima citazione, p. 152 la seconda.

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1 commento

  1. […] [Di tutta la faccenda scandalosa e sintomatica riguardante i mancati pagamenti della casa editrice Isbn nei confronti di autori, traduttori & collaboratori a vario titolo, la cosa che io trovo più scandalosa e sintomatica è il fatto che la denuncia esplicita e mirata sia venuta da un signore straniero, quando è evidente che, in termini numerici, le vittime di queste condotte ciniche siano state innanzitutto persone italiane. Non si tratta di rigirare il coltello nella piaga, ma di cominciare a fare i conti anche con l’omertà delle vittime che rafforza giornalmente quella dei carnefici. Certo, è tempo di dare forma politica, e ancor prima sindacale, alla rabbia e alla frustrazione che lo scandalo suscita. Ma varrebbe anche la pena di riflettere in una prospettiva più ampia sulla figura del lavoratore culturale, sulla cultura del precariato in cui s’inserisce, sulle ambiguità del suo posizionamento etico e politico. Quello che segue è un mio contributo a questo tipo di riflessione. Esso è raccolto nel volume Le culture del precariato, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi,  Ombre corte, 2015. Un altro intervento qui.] […]

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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