Il pallone, la Citroën, l’antifascismo involontario
di Helena Janeczek
L’imminenza del 25 aprile mi ha fatto tornare in mente una storia. Non è una storia italiana, neppure una storia di resistenza in senso stretto. La trovo sorprendente, anzi bella, proprio perché è ambivalente e di profilo basso. Una storia tedesca. E di calcio.
L’aggancio per scoprila è stato un amico di mia madre, anche lui ebreo polacco di quelli scampati per miracolo, che gufava con tanta foga contro la Nationalmannschaft quanto tifava sfegatatamene per il Bayern. Non ci si poteva azzardare di allontanarlo dal televisore quando “i rossi” giocavano e qualche volta andava persino allo stadio con suo figlio.
Anni dopo stavo scrivendo un pezzo su Monaco e andai a controllare perché secondo questo anziano signore così simpatico, il Bayern era al di sopra del sospetto di compromissione con i nazismo e lui legittimato a sostenerlo.
In primo luogo perché veniva chiamato il “Judenclub”. Hitler che a quei tempi com’è noto abitava a Monaco, tifava naturalmente per la squadra avversaria, l’”ariano” e popolare TSV1860 München.
Nel 1932, il Bayern conquistava il primo titolo tedesco con un allenatore e un presidente ebreo, costretti a emigrare in Svizzera (il secondo dopo quattro mesi a Dachau).
Ma nel ’40, durante una partita amichevole contro la nazionale elvetica, i giocatori del Bayern riconoscono il loro ex-presidente Kurt Landauer e vanno ai piedi della tribuna a salutarlo. La Gestapo minaccia ritorsioni, ma poi chiude un occhio.
Richard Dombi nato Kohn, lui stesso giocatore in Austria da ragazzo, invece va a allenare i Grasshoppers Zurigo e riesce a portarsi dietro il più grande attaccante del momento, Oskar Rohr.
Della storia di questo formidabile campione circolano grosso modo due versioni.
Nella prima, di probabile origine francese, appare la parola “antifascismo”.
Nella seconda, forse più esatta o forse più in linea con il giornalismo sportivo, invece si sostiene che il giovane dai piedi d’oro voleva solo farseli pagare lautamente. Per questo, pur avendo già fatto sfracelli nei primi tornei, avrebbe rinunciato alla Nazionale che non ammetteva giocatori professionisti e giocoforza anche alla stessa Germania.
Nessun motivo politico. Nemmeno un particolare attaccamento a Dombi che l’aveva portato al Bayern e alla vittoria in campionato: e se la cosa era anche reciproca, era comunque stato l’allenatore a tirare fuori il meglio del suo talento. Ossi Rohr, scrivono, era uno che puntava ai soldi.
Però quei soldi li ha pagati cari. In Germania lo chiamavo “disertore” “gladiatore mercenario”, “traditore della patria”. Figuriamoci: si usa così ancora adesso, nel calcio moderno-e-democratico, e quelli erano gli anni in cui la fede mistica e fanatica in Volk, Reich e Führer era all’apice.
Da Zurigo, Oskar Rohr va al Racing Strasbourg che sino a oggi non ha mai più visto tanti gol – 117 in cinque anni – fatti da un solo attaccante. Lo trattano benissimo, gli regalano una Citroën decappottabile con cui si dà alla bella vita. Leben wie Gott in Frankreich, vivere come Dio in Francia, è un modo di dire che sarà molto in voga anche presso gli occupanti che lo seguiranno tra non molto.
Quando questo accade, Ossi fugge dai suoi connazionali verso Sud, la zona ufficialmente “libera” della Francia di Vichy. Si stabilisce vicino a Sète, amena cittadina sul Meditteraneo, dove secondo alcuni vive tranquillo e gioca nella squadra locale, ma su questo le fonti sono incerte.
Sul fatto che, a un certo punto, si fosse invece arruolato nella Legione straniera c’è di nuovo discrepanza. È solo una leggenda messa in giro all’origine come ulteriore tentativo di screditarlo, dicono da una parte, perlopiù tedesca. C’è andato, invece, ha combattuto contro i tedeschi, scrivono dall’altra, quella francese. L’ipotesi non appare poi tanto romanzesca sei i guai di Ossi Rohr, com’è verosimile, non sono cominciati con l’invasione della Wehrmacht ma poco dopo quel settembre del 1939 che segna l’inizio della Drôle de Guerre; momento in cui, appunto, ai francesi richiamati non succedeva niente, mentre gli uomini di nazionalità tedesca, inclusi quelli che per ragioni politiche o razziali l’avevano perduta, finivano internati dalle autorità francesi. Entrare nella Légion étrangère era l’unica alternativa ufficiale che veniva loro offerta. Ma dato che quei campi d’internamento contenevano più più ebrei e oppositori di regime che spie naziste, visto che quella misura presa dall’ultimo governo libero per difendersi dagli alien enemies si rivelò utilissima per consegnare, poco dopo, un numero considerevole di vittime designate ai tedeschi e farle instradare verso altri campi, si tratta di un capitolo che non ricorda volentieri pressoché nessuno.
Quel che è certo è l’arresto di Ossi a Marsiglia, all’epoca capitale mondiale di premi Nobel alla macchia e collaborazionisti, nonché dei Marsigliesi che in genere preferivano far soldi su chi voleva scappare dalla Francia anziché mettersi in combutta con chi cercava di impedirglielo: benemerenze della criminalità organizzata.
Insomma Rohr lo sbattono dentro per propaganda “antifrancese e comunista”, opuscoli finiti chissà come nella sua camera d’albergo. Dalla galera francese fa reingresso in patria dai cancelli di un campo di concentramento (Kislau-Karlsruhe) dove sconta gli altri due mesi che gli restano. Siamo agli inizi del 1943, lo spediscono sul Fronte Orientale per direttissima come soldato semplice di fanteria. C’è di nuovo chi interpreta la decisione come volontà di statuire un esempio, in pratica mandarlo a morire ammazzato, e chi sostiene che Rohr avrebbe avuto il privilegio di giocare a calcio nella formazione della Wehrmacht anche nel gelo dell’Unione Sovietica. Si dice soprattutto che un pilota tifosissimo del Bayern lo avrebbe riconosciuto e riportato nel Reich anziché lasciarlo sul campo ferito a attendere di finire prigioniero dell’Armata Rossa.
In ogni caso, finita la guerra, Oskar ritorna a Mannheim, dov’era nato nel 1912, ultimogenito di semplici gestori di una Gasthaus. Continua a giocare a calcio finché gli reggono le gambe e vive fino al 1988.
Qui finisce la storia di Oskar Rohr chiamato “Ossi” o “Der Stürmer”, l’attaccante per antonomasia, senza che quel nomignolo prebellico avesse a che fare con il giornale di partito. Nessun eroe antifascista, dunque. Un semplice sportivo che, dopo aver portato la sua squadra al titolo quando aveva solo vent’anni, pensava di far fruttare il suo talento. Ma perché nel novembre del ’42 si trovava in una pensione a Marsiglia? Perché non era rimasto nella placida Sète dove, se è vero che poteva tirare il pallone in porta, la cittadinanza e le autorità locali avranno chiuso un occhio se non due in cambio di vittorie?
A Marsiglia molto probabilmente c’era andato per investire i suoi guadagni da pioniere del football professionista in due articoli di lusso: documenti falsi e un passaggio su una bagnarola che lo portasse fuori dalla Francia. A Casablanca, possibilmente, come nel film con Humphrey Bogart. E da lì su un transatlantico diretto verso uno di quei paesi dove il calcio lo considerano un passatempo per immigrati.
Oskar Rohr, infatti, aveva ottimi motivi per temere molto peggio di quel che da lì a breve gli sarebbe capitato. Era, a tutti gli effetti, diventato un disertore. Era stato dichiarato una Unperson, una persona non grata. Era uno che aveva preferito seguire il richiamo di un allenatore ebreo e di un contratto ben pagato piuttosto che rimanere sempre fedele: alla sua squadra, alla nazione e Nazionale, ai milioni di tifosi che l’adoravano e credevano alla gloria imperitura che avrebbe portato in campo. Un traditore. In effetti, ci fosse stato Ossi a guidare l’attacco della squadra, la Germania hitleriana non sarebbe stata battuta 2 a 0 dalla Norvegia nelle Olimpiadi del ’36 o eliminata al primo giro di qualificazione nei Mondiali del ’38, mentre già nel ’34 aveva perso la semifinale contro la Cechoslovacchia allo Stadio Nazionale di Roma.
In quell’anno Oskar Rohr fa vincere ai Grasshoppers il campionato svizzero. Da quello dopo, diventa l’indimenticabile capocannoniere del Racing di Strasburgo. C’è una bella differenza. E questa differenza che rende Ossi un personaggio dimenticato e all’epoca rendeva la Germania meno invincibile di quanto sarebbe piaciuto al popolo e alla propaganda, era stata soppesata soltanto in denaro? Solo per i soldi Ossi aveva deciso di non poter mai più mettere piede a Mannheim, non vedere più genitori e fratelli, non mantenere i contatti con gli amici, non potersi fidanzare con una ragazza tedesca? Mettere in conto che l’adorazione si sarebbe rovesciata in odio? Non si aspettava che i giornali e la radio l’avrebbero infangato con ogni mezzo? Gli bastava guardare l’estratto conto perché quelle ingiurie gli passassero sopra come acqua fresca? E tra settembre ’39 e l’invasione della Francia, quando i soldi e i gol finiscono, cosa è successo? Perché Rohr ha ignorato il dovere di presentarsi alla leva, lui che non era ebreo né rosso o pacifista?
Oscar Rohr non è stato un Eroe della Resistenza, un esempio luminoso di coscienza antifascista. Ma dev’essere stato radicalmente refrattario al clima da stadio imperiale che stava avvolgendo la sua Heimat. Cosa notevole per un campione di calcio. Ha rinunciato a moltissimo: per rischiare, alla fine, anche la vita. Per una Citroën decappottabile? Perché no, in fondo? Ma credo che all’origine dev’esserci stato anche un istintivo, profondo vaffanculo. A volte il coraggio non è frutto della giusta coscienza ma somiglia piuttosto al suo contrario.