les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti
La Luna, forse
di
Maria Luisa Putti
C’è sabbia dappertutto. Negli occhi che appena riesco ad aprire, sulla pelle del viso. La sabbia è roccia che si sgretola. Pesa sul mio corpo sepolto, scricchiola sotto i denti. I capelli sciolti intrappolati nella terra mi tengono ancorata, immobile. Non mi posso alzare. Non posso liberare null’altro che i pensieri dalla duna bianca che mi avvolge. Sono sulla Luna forse, e attorno a me non c’è che uno spazio vuoto; organismi primordiali a cui ora assomiglio. Con le dita provo a scavare un tunnel. Non ho mai sopportato la sabbia sotto le unghie, nemmeno quand’ero bambina e mia madre mi lasciava giocare sulla riva: «Fai un bel castello!», mi diceva. Ed io me ne stavo lì, con il mio cappellino turchese – uno di quei cappelli da marinaio – e i secchielli di plastica pieni d’acqua, per liberare le mani dall’arsura della materia inerte che si essiccava al sole. Mi mancava l’aria, come adesso, che non so dove sono. Guardavo le conchiglie, gusci vuoti, saturi di polvere d’oro, e immaginavo che nascondessero labirinti segreti, stanze abitate dalle fate; minuscole bambine vestite di bianco, che si rincorrevano fino al mare. Avrei voluto tenerle sul palmo della mia mano, e pettinarle, come facevo con le bambole. Mi sembrava di sentire le loro vocine, il fruscio delle vesti che le coprivano fino alle caviglie, ai piedi.
Sì, i piedi. Li avverto ora come corpi estranei, divorati da milioni di microscopici insetti, lucertole, piccoli rettili e animali preistorici che credevo estinti. E le gambe: la sabbia le ha inghiottite fino a lasciarne solo il ghiaccio delle ossa vuote.
Il tunnel che ho scavato con le dita non basta a liberarmi le braccia dalla morsa che mi stringe. Mi sembra di sprofondare ancora più giù, come se le mie mani avessero aperto un varco sotterraneo che affaccia sull’abisso. Un mulinello d’aria di correnti sconosciute lambisce i miei fianchi. Ho freddo. D’un tratto, quasi animata da una forza estranea – o forse è solo l’istinto di sopravvivere – riesco a far leva sui gomiti e sento che una delle mie spalle è quasi fuori. Finalmente posso muovere il collo. Ecco, così. Ora anche l’altra spalla è libera. Mi faccio forza con i palmi delle mani sulla sabbia che mi circonda, emergo fino alla vita, e sento i granelli sottili muoversi sotto di me, lungo le gambe, sui piedi, tra le dita formicolanti e fredde, come filtrati dal foro sottile di una clessidra.
Posso respirare ora, un respiro profondo che odora di fiori, dei pollini dolci di aprile che riempiono l’aria da un finestrino abbassato, di un’auto ferma al rosso di un semaforo o nello slargo verde della strada che costeggia le mura, dove mi fermavo con le amiche a chiacchierare dei nostri segreti di ragazze.
Attorno a me le piccole creature primordiali si muovono operose in cerca di cibo. Raccolgono frammenti di alghe essiccate, petali, foglie, minuscole bacche colorate che sembrano le bocce di un biliardo, o le biglie che mi piacevano tanto quando ero bambina: le infilavo una ad una attraverso il collo di una bottiglia, fino a riempirla tutta quanta, e dopo cercavo di farle uscire, con le dita, per giocarci ancora. Una bacca celeste scivola sulla sabbia, ed io me la ritrovo in mano. D’un tratto dinanzi ai miei occhi le luci delle macchine abbagliano i miei ricordi: una bellissima ragazza bionda fa rotolare e saltare e scomparire e poi ricomparire ancora una pallina dello stesso colore. Dopo si avvicina ai finestrini per chiedere qualche spicciolo; ha gli occhi scuri, e porta un paio di occhialetti tondi da ragazzina delle scuole medie. Sorride, come se il suo lavoro di giocoliera nel traffico delle ore di punta bastasse a farla felice: è felice, è in vacanza, è a Roma!
Su un ramo che sporge dalle pareti di roccia a picco sulle dune c’è un alveare, lo vedo da lontano, lucente d’oro come il becco lungo degli uccelli che planano sulla riva. Le piccole bambine vestite di bianco si tengono per mano, come perline di una collana, una accanto all’altra, e adesso le sento cantare. Camminano tutte insieme, con i capelli sciolti, e le risate piccole dei loro giochi infantili. E loro giocano, e giocano, arrampicandosi sul dorso di animali giganteschi, gusci di tartarughe dalle strane teste, esseri preistorici impastati di sabbia, che si muovono lenti come il respiro di questo vento immobile. Senza paura, si avventurano nelle fauci aperte da uno sbadiglio torrido di un sonno antico. E tenendosi saldamente l’un l’altra per mano, come in un gioco di contrappesi, si lasciano pendere dall’alto di un’ala aperta in volo, catenella sottile di innocenza.
Guardare quelle creature minuscole mi porta lontano da me stessa, dal luogo in cui mi trovo ora, intrappolata, sepolta per metà in un mare di sabbia, la sabbia del tempo che mi fa prigioniera, che mi scorre accanto, lasciandosi sprecare nel suo fluire indifferente. Non contano gli orologi scolpiti nei fianchi ripidi delle montagne: le loro lancette giocano a rincorrersi, un minuto dietro l’altro, un’ora dietro l’altra, all’infinito. Le guardo senza più pensare che il tempo è la materia della vita, che plasma e disegna tutto attorno a sé, mutando le forme di ogni cosa. Me ne sto qui, ancora sepolta in questo paesaggio lunare, in questo mare che inciampa nelle sue stesse onde. È un lungo clacson che suona ininterrotto di auto incolonnate in disordine.
Una donna anziana attraversa la strada e porta per mano un bambino. I capelli grigi sciolti sulle spalle in una piega morbida, i vestiti colorati sul corpo sottile, l’azzurro della sciarpa, la fantasia lucente della giacca. Si volta verso il mare di macchine ferme; scatta il semaforo ma nessuno riparte, come se ogni cosa, gli appuntamenti, gli impegni, il ritardo, la fretta di correre chissà dove si fossero d’un tratto dissolti, al di là del tempo, che improvvisamente rallenta, e rallenta, fino a svanire: tutti guardano lei, il suo passo lieve, il suo essere ancora, sempre, bellissima.