La salvezza sta fuori, nel nulla
di Giacomo Verri
In Metropoli, il nuovo romanzo di Massimiliano Santarossa, il racconto del futuro.
Nel duemilatrentacinque la Terra potrà riconoscere sulla propria groppa una sola enorme città: Metropoli. Sarà essa il solo ganglio della poststoria, il solo confine alle lande desolate che s’apriranno maestose quando tutto sarà azzerato, quando nel cielo, perpetuamente crollante di piogge, starà crocefisso, come una misera “palla incolore”, “il sole artico del mondo pietrificato”.
Metropoli, mostruosa tromba apocalittica cantata da Massimiliano Santarossa (che ora torna in libreria per Baldini e Castoldi, dopo l’agghiacciante Il Male del 2013), è una città, calvinianamente cresciuta nelle menti di ognuno, ma con bibliche proporzioni da incubo, “nata tra mura infrangibili, alte ventisette metri e spesse cinque, che erano l’opera più poderosa e fondamentale costruita dal Crollo Produttivo in poi, e con esse le Industrie delle Zone Lavoro, i Palazzi del Popolo, le Zone Svago, le arterie viarie sopraelevate”.
Sembra un libro delle Cronache, Metropoli, sembra un testo sacro in cui potrebbe essere contenuta la sapienza del futuro. Ma Metropoli non sorge con le misure della saggezza, tanto è vero che è potenzialmente infinita, perennemente schiacciata sul presente, non ha centro e manca di un sancta sanctorum: nessuno la governa, né un dio né l’uomo, ma è un mostro che innalza labirintici patiboli in cui gli esseri umani sacrificano tutta intera la loro vita, è un aberrante incrocio tra un lager e una città chiusa dell’Unione Sovietica.
Reduce dalla vita, qui giunge, tra algidi bagliori, un uomo, un viandante del mondo perduto; varcate le porte di Metropoli diviene il cittadino numero 5.937.178. In qualità di Sopravvissuto al Crollo Produttivo, viene indirizzato al Ricovero Fisico Psichiatrico, dove è lavato sotto un getto di acqua bollente, vestito con abiti “grigi, leggeri, candidi, inodori”, nutrito e ospitato in una Stanza di Contenimento, la numero 111. Sebbene il primevo impatto cromatico sia a Metropoli con il puro colore bianco, presto si scopre che quella è la tinta della disperazione che tutto riempie e tutto annulla. Annulla, sì, i guasti della precedente democrazia travestita da capitalismo (o del capitalismo velato da un approccio egualitario che ricorda la critica alla democrazia americana di Alexis de Toqueville: “Nulla era stato mai pensato per il progresso generale, milioni e milioni di persone si erano mosse esclusivamente a fine privato, ombelicale: fare per godere, di continuo e di più”), annulla il male, ma anche il bene, annulla la malattia, la guerra, ma anche la pace, elimina lo sporco danaro e il peccato, ma anche la memoria, l’amore, la fede, il futuro e ogni senso di grazia. Metropoli è la realizzazione del nichilismo robotico che scarnifica i volti umani voltandoli in crani “rotti da fori neri occupati da pupille ormai bianche, levigate da una vita troppo lunga”.
Le parole dell’uomo sono sostituite dal chiasso della Produzione: tutto è produzione a Metropoli (una produzione che, tra l’altro, vorrebbe, miseramente scimmiottare la Creazione), tutto è corpo senza mente. “Il cemento, il ferro, il vetro, l’acciaio, l’asfalto, parevano annientare l’uomo”, la nobile materia cambiata in vile materiale realizzava l’inferno sulla Terra. Un inferno che coincide con la divinità che lo regge: Metropoli è il demonio, è il Dio sradicato dal cielo che al cielo cerca di tornare impietosamente colonizzandolo, come a Babele.
Nelle Città invisibili, Marco Polo spiegava a Gengis Khan, parlando a proposito di Despina, che “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”. Ma il deserto è ancora qualcosa, sicuramente è meno delle speranze che Despina nutre nella mente del cammelliere o del marinaio. Ma il deserto c’è ed è la durezza che esalta il premio, l’aridità necessaria per godere fino in fondo dell’ombra. Attorno a Metropoli, invece, s’apre “un niente smisurato”, tanto eccelso che anche gli sforzi che la città compie per propagarsi hanno il sapore dell’inanità. E verso quel nulla non c’è alcuna forma di interesse, nessuna scintilla di curiosità, non è l’affascinante buio dell’universo, non è il trepidante deserto dei Tartari. Non è, appunto, niente. O, almeno, il Dio Metropoli vuole che ciò che sta là fuori non sia Niente, fino a quando non verrà inglobato dalle mura della città, e gli stessi uomini, divenendo nutrimento per i loro simili, si voltino in carne della città medesima.
Marcus, questo il nome dell’internato, incontra Sofia. Loro due sono gli unici esseri che sembrano essere rimasti umani, sono i soli a riscoprire, abbracciando il dolore per allontanare il terrore, che l’anima ha un peso e che non può essere prostituita all’“infinitamente osceno” che sulla terra si sta manifestando sotto la specie del vuoto interiore. Insieme, Marcus e Sofia prendono le misure della salvezza, che non è la salvezza abominevole promessa da Metropoli, “luogo regredito nel tempo di millenni”, nel tempo che fu prima di Dio e che più niente ha della “dignità della morte”.
La salvezza sta fuori, nel nulla. Forse anche nella morte. Ma io credo che risieda soprattutto nella parola: nella parola che Marcus bisbiglia a Sofia, in quella che lei restituisce a lui. La parola di Santarossa è un antidoto all’asetticità di materiali sempre uguali a se stessi, è una cura contro la monotonia da clone alla quale forse, un domandi, saremo condannati. È infine una parola che, mentre intacca e zaffa la superficie apparentemente immodificabile del grande mostro, conduce alla speranza di poter adoperare quella medesima parola per riempire il nulla da cui siamo minacciati.
“La libertà inizia al principio del nulla”.