Vulnicura, diario mistico-regressivo di sciami e di cocci
di Viola Di Grado
Come ci canterò fuori
da questo mondo di dolore?
(…)
C’è uno sciame di suono
la nostra clessidra
e possiamo sentirla
e possiamo venirne colpiti
ci libererà dal dolore
ci renderà perfetti
questo posto di soluzioni
questo posto di soluzioni
questa sede di soluzioni.
(Family)
Sulla cover di Vulnicura Björk è un soffione, un sinistro fiore dei desideri in lattice nero con un’infruttescenza che sta per cedere e una ferita al centro del petto. La ferita al petto sembra molto letterale (l’album è dichiaratamente un diario della rottura traumatica della relazione decennale con Mattew Barney) eppure nella mitologia visiva di Björk è una metafora stratificata che passa da una serie di dissezioni e trasmigrazioni del corpo, restituito animisticamente al paesaggio naturale o scagliato contro rudi paesaggi tecnologici. Abbiamo già visto il petto di Björk spaccarsi al suono di archi melodrammatici e spinosi beats (Jóga): il suo corpo compare in scena fisso e chiuso in un parka bianco, anche gli occhi serrati, poi sparisce, per ricomparire alla fine e lasciare uscire dal petto un abisso di paesaggi rocciosi. Adesso, in Stonemilker, la domanda sull’apertura e chiusura del corpo è posta nella dimensione duale di coppia e amaramente riformulata: “chi ha il petto aperto / e chi è coagulato?”
In quest’equazione, Björk non è solo quella con il petto aperto, ma è lo stesso petto aperto: “Sono una ferita/ il mio corpo pulsante/un essere sofferente”. La delusione amorosa è presentata come un trafugamento (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”) che poi diventa svuotamento mistico-orrorifico (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto, intessuto”). Ironico che quest’album sul trafugamento e fuoriuscita drammatica del sé, preannunciato per marzo, sia uscito a gennaio proprio a causa di un furto e conseguente “internet leak” (“internet-fuoriuscita”).
La mitologia del corpo-realtà creata da Björk è una parabola complessa che da sempre sintomatizza e reinventa il ruolo controverso che noi in quanto corpi abbiamo nella società dell’informazione e della simultaneità.
Abbiamo visto il suo corpo integrarsi alla struttura meccanica di due speculari androidi in amore (All is full of Love), l’abbiamo visto partorire mostri anfibiali (Where is the line) ed emettere dai capezzoli i fili sericei di un bozzolo intero che la chiude e la solleva e infine la fa sparire (Cocoon): Björk è l’illuminata interprete di un’era in cui la morte fisica è diventata obsoleta, un retaggio inaccettabile, un’era in cui la nostra rete neurale si rispecchia nella rete informatica e i nostri corpi sono costantemente immessi in un flusso di informazioni a-sensoriali.
Björk è riuscita a ricomporre questo nostro corpo in costante disintegrazione e immetterlo pezzo per pezzo in monumenti musicali e visivi coerenti e sempre nuovi. Il corpo umano, precipitato e permeato dalla realtà digitale, si smaglia in una rete di informazioni e si dissolve, si ricompone, all’infinito. In questo paesaggio frammentato di interiora umane e grattacieli in frantumi, personaggi di videogioco anni ’90 e illimitati corpi-paesaggio (Hyperballad), spiriti fluttuanti e bambole elettrizzate (Possibly maybe) possono mescolarsi e sintetizzarsi a vicenda, in una specie di mandala post-postmoderno di cocci organici e inorganici, un mandala che è il suo viso ingrandito che emette vernice dagli occhi e forme uterine dalla bocca (Hidden Place).
Perché, restando sulla metafora buddhista, ogni pixel sgranato contiene i recessi analogici dello spirito (sempre Hyperballad) e ogni corpo è alieno alla propria identità. Perché il corpo, nel suo continuo trasformarsi, è l’unica cosa che esiste. E adesso, dopo aver esplorato (ed espiato) in tutti i modi il sé e l’universo (per i cinesi erano la stessa cosa) come un’instancabile sonda spaziale, Björk torna a se stessa (“Sono un razzo scintillante raggiante/che ritorna a casa/mentre entra nell’atmosfera/brucia strato per strato”); a una se stessa obsoleta – nel senso in cui noi stessi, quando nel dolore regrediamo, ci sintetizziamo in una formula primitiva e terribile.
Questa formula, Vulnicura, è un puzzle-carosello di elementi beta, orrori non trasformati che fluttuano e sbattono l’uno contro l’altro. E’ l’incubo di un bambino che si ritrova improvvisamente bambino e quindi senza la protezione della propria crescita (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”). Vulnicura è innanzitutto un diario. Semplice, amaro, uno spazio intimo e iper-vissuto, vintage di archi armoniosi e sporadici sciami di beats. Uno spazio iniziale, interrogativo, di una trasformatrice del futuro che non si è mai concessa prima d’ora di riposarsi nel passato: perché il gioco, se è vero che costruisce il mondo è vero anche che lo replica senza alcuna ambizione di sorprendere. Vulnicura è un melodramma semplice e spietato di fratture, in cui il corpo-musica rinuncia a tutte le sue alchimie e diventa tappeto fermo, costantemente compenetrato (“Dopo che il nostro amore è finito/ i tuoi spiriti mi hanno invasa.”).
Vulnicura non vuole entrare in contatto. Come un neonato, il suo pianto prescinde la fame, è un pianto di possibili disintegrazioni, ma soprattutto è un pianto che esiste perché ci sono i polmoni. Björk è sempre stata una grande sperimentatrice, relegando ciò che era troppo crudo o letterale a parentesi riposte e mai riprese, luoghi solo intuiti. Ma ora che “lo scudo è andato”, “lo spirito è rotto” e “l’anima è a pezzi” (Black lake) l’interno sconfina dal petto fratturato e circola altrove, inonda (“Il mio cuore è un lago enorme (…)/affogo nel dolore”): il sistema fluido di quel corpo pericolante, che si concede all’inorganico senza terrore, è inceppato. Ciò che risulta è un paesaggio coagulato, umano e non umano, che commuove per la sua sincerità.
In tutto ciò la parabola björkiana dell’amore che è dappertutto ed è qualsiasi cosa (All is full of love), proiettato nel paesaggio naturale e innestato nei mattoni post-umani di robot sentimentali e splendidi – un amore che si sottrae al proprio corpo per ampliarsi e inglobare realtà sempre più grandi – sembra cadere e approdare nel suo contrario: l’opposto amaro dell’amore come apertura al tutto è la perdita dell’amore e la caduta nel tutto (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto”). E’, infine, la coagulazione. Se il corpo-cavia è stato messo da parte, rivirtualizzato, il corpo-ferita, iper-personificato, infine può curare se stesso: il centro di quel corpo non è più un paesaggio urbano dislocato e pressante, una forma di inconscio geografico immesso nella carne, ma ritorna il centro simbolico e classico del corpo-anima: il cuore. Il suo cuore è “un lago enorme/ nero di veleno/ sono cieca mentre affondo in quest’oceano”. Quello di Barney/interlocutore, invece, è “cavo”.
L’amore che entrava e usciva, che crollava dalla bocca in forme uterine, si dissolve. “Il nostro amore era un utero”, canta Björk. E Vulnicura è proprio un album isterico, nella sua accezione letterale: un utero vuoto, recitato insistentemente per essere di nuovo riempito. Il “posto di soluzioni” evocato in Family, la canzone più musicalmente tormentata di Vulnicura, invasata da uno sciame di beats che percuote e interroga un canto accorato e discontinuo come una nenia sciamanica- è come sempre per Björk un posto di creazione musicale. La musica come percorso automatico del pensiero, come “non azione” direbbero i taoisti, in quanto da sempre definito da Björk come luogo a-logico, istintuale, vissuto fuori dalle feroci frazioni della mente razionale. Come ponte, anche, per “cantare se stessa fuori dal dolore”: come spinta fluida e muscolare dal dolore a qualcos’altro. A cos’altro, esattamente? Il “posto” diventa “sede” nel verso successivo: un luogo temporaneo di acting out, un setting auto-analitico di trasmigrazione a una sé stabilizzata. Qual è la cura di questo vulnus inerme e insistito, sovresposto? La clessidra sembra alludere a una pacificazione nel tempo o nella morte. Se nella precedente cosmologia björkiana era stata sorpassata e diminuita, resa anacronistica, adesso la morte diventa un plurale rigenerativo e consolante di rinnovata protezione, localizzato in un qui imprecisato che sembra essere proprio lo squarcio nel petto: la terra primordiale, non umana, invasa di sé, e l’apertura del fiore nero, il giglio nero di Pagan Poetry che traccia mappe di desiderio, che è anche il fiore finale della copertina, con le sue infiorescenze che, pur promettendo desideri realizzati, stanno per essere recise. Björk canta: “non dimenticherò/ questo “nonricevere”.
Così, in un album che segue intimisticamente una rottura e la sua ricomposizione, per la prima volta non come esperimento culturale ma come osservazione inerme e riluttante, si viene travolti da una grande tenerezza e si viene risucchiati da questo grande lago nero, il “cuore cavo”. Sarà anche per motivi di sincronicità junghiana – “Cuore cavo” è il titolo del mio ultimo romanzo- che da björkologa di vecchia data mi sono sentita chiamata in causa. Sarà che le voglio proprio bene. Comunque, per ritornare al taoismo, il senso del cuore cavo non è il passato del suo svuotamento ma il suo futuro vezzo e talento di riempirsi: “Quando noi, i guardiani / ci ritiriamo al sicuro qui, salvi dalla morte.”