Le latitudini delle braccia
POLAROID
(Scatto di prova)
Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo
irraggiungibile. Eppure volevi
afferrarlo quel momento di cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. È vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’è come terra di carne sbranata
Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri lì ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia
Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue
Sabato 2 agosto 1980 – Ore 10,25
Stazione di Bologna
Per non dimenticare i nomi
ogni dito che conta è fuori posto, non tiene il computo,
la somma che invece si fa con la voce è rotta
e per questo c’è sempre l’assenza di un volto
a discolpare il pianto
La linea Gustav
Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati
Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati
E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)
Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo
*
Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un giardino
dove nitido si scorge il filo spinato
A stringere questi nodi di memoria
è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori a terra,
far finta che non siano solo sangue
Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su colpo,
il battito sulla raffica
Del cuore rimane un proiettile irrisolto,
una traccia murale sfarinata.
Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa ancora
dell’attesa breve dei fucilati
*
Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case
Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca
Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare
Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi
Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:
la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio
*
Ci dissero di andare avanti
e noi svanimmo nella neve
Lettera
(Battaglia di Nikolajewka)
Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne,
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio
Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane
Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve
e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto
*
da CORTOCIRCUITI
Fossile
Ci si spinge a un punto morto,
dove la pietra è scavata
in attesa di un freddo fossile
Potremmo ferirci se non fosse una carezza
questo raschiare superfici
tra gli strati più duri del vuoto
Restiamo appoggiati al muro ruvido delle cose:
il letto, la sedia, la lampada a portata di mano
ma ora tutto è indistinguibile
Ancora una volta tremanti, al buio
Sappiamo che in casa non può esserci una voragine,
ma dentro siamo sempre in bilico
come uccelli primordiali
che da poco hanno smesso di precipitare
*
Natività
Potremmo ancora vederci
spingendo parte dell’oscurità
in un angolo, forzando con la spalla
come a chiudere un vuoto straripante
stipato in un armadio
Oppure riuscire a guardarci in faccia
al buio, tenderci la mano nella luce
nera che mi brucia le palpebre
E cercare la tua testa nell’oblio
è come tirarti fuori una seconda volta,
farti rinascere a mani nude, desiderando quella forza
che sorregga una presa forte
che sfibra le braccia
da Le latitudini delle braccia, deComporre Edizioni, 2013
Note
Nino Iacovella è nato a Guardiagrele nel 1968. Ha pubblicato una prima raccolta di poesie nel 2001 Ballate di un giorno solo e della notte (ExCogita Editore, Milano), seguito da Latitudini delle braccia, deComporre edizioni nel 2013. Dal 2011 al 2013 ha fatto parte della redazione de Il Monte Analogo, rivista di poesia e ricerca. E’ tra i redattori e fondatori del blog di poesia, scrittura e resistenza umana Perigeion.
[ Una mia nota di lettura videoregistrata si può trovare qui. B.C.]